MAFIA E "ALLEATI"
La vera storia dello sbarco in Sicilia .
Sulla spiaggia di
Trappeto (Trapani), fino a pochi giorni fa, sorgeva “la Cupola”, un piccolo
bunker costiero semidiroccato, costruito nei primi anni ’40, al quale la
popolazione locale era molto affezionata. Faceva ormai parte del paesaggio, ma
il tetto si era inclinato e, invece di procedere a un possibile restauro, le
autorità hanno deciso di mandare uno scavatore per rimuoverlo. La notizia,
divulgata dal giornale locale Il Vespro, ha suscitato ovunque indignazione e
dispiacere, per “l’ennesimo intervento che distrugge pezzi della nostra storia,
cancella i ricordi, le immagini, i momenti”.
Il recente episodio evoca in modo simbolico
un’altra drastica rimozione, quella della vera storia dello sbarco
angloamericano in Sicilia, di solito tramandato dalla storiografia tradizionale
come una sorta di “passeggiata”, avvenuta tra festose distribuzioni di chewing
gum e cioccolato da parte dei soldati alleati.
Le cose andarono molto
diversamente.
Ad esempio, è stato rimosso quasi del tutto il
sacrificio della divisione “Livorno” che, insieme alla “Napoli” si fece
massacrare mettendo forse a rischio l’intero sbarco alleato. In secundis, solo
da qualche anno, si comincia a parlare delle collusioni tra Forze armate Usa e
la mafia italoamericana di Lucky Luciano; il recente film di Pif “In guerra per
amore” per quanto sotto le vesti di una commedia romantica, ha avuto il merito
di portare finalmente al grande pubblico, in una veste “accettabile”, questo scottante
tema. Se pressoché nulla si è divulgato del ruolo preciso che la mafia ebbe nel
sabotare quasi un terzo del sistema difensivo italiano, ancor meno è filtrato,
alla coscienza collettiva, sulle stragi dimenticate e impunite compiute dai
militari americani su civili e prigionieri italiani. Cercheremo di sintetizzare
il tutto con i dati provenienti dalla più qualificata e aggiornata letteratura
storica dedicata al tema.
L’annichilimento della mafia e l’assalto al latifondo siciliano.
Poco si può comprendere
dello sbarco in Sicilia senza fare riferimento a un antefatto.
Nel 1924, il prefetto
di Trapani Cesare Mori (cui l’appena scomparso regista Pasquale Squitieri
dedicò un famoso film) del ruolo di sradicare la mafia dalla Sicilia. Mori
attuò una durissima repressione del fenomeno mafioso, ricorrendo, spesso, a
metodi brutali: furono incardinati diecimila processi, con innumerevoli
condanne, mentre molti pericolosi boss furono mandati al confino o costretti a
emigrare negli States. Tuttavia, come scrive lo storico palermitano Giuseppe
Carlo Marino in “Storia della mafia”, Mori seppe anche mobilitare largamente
l’opinione pubblica, soprattutto tra i giovani, nell’impegno contro Cosa nostra
facendo sentire la presenza dello Stato sul territorio. Attraverso il “bastone
e la carota”, ridusse ciò che restava della mafia-delinquenza a una condizione
“dormiente” e inattiva, ma fu costretto a fermarsi di fronte al baronato, il
ceto dei grandi latifondisti che utilizzava la manovalanza mafiosa per il
controllo delle proprietà agricole. Se male avevano sopportato l’opera del
“Prefetto di ferro”, i baroni reagirono malissimo all’assalto al latifondo con
l’istituzione, nel 1940, dell’Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano.
Questo organismo li costringeva, infatti, ad apportare migliorie produttive
(con i contributi dello Stato) pena l’esproprio delle loro campagne. Così, i
grandi proprietari terrieri fondarono un comitato d’azione separatista
capeggiato da un triumvirato composto dal conte massone Lucio Tasca, dal
liberale massone Andrea Finocchiaro-Aprile e dal “mafioso tout court” don
Calogero Vizzini, tornato a Villalba dopo sei anni di confino. Nel ’42, il
comitato prenderà il nome di Movimento per l’Indipendenza della Sicilia (Mis),
e avrà la sua grande occasione con lo sbarco alleato del ’43, salutando
gioiosamente gli angloamericani al loro arrivo e “sollecitando” il popolino a
fare altrettanto nelle strade e nelle piazze.
I servizi segreti Usa si avvalgono di Lucky Luciano.
Nel frattempo, come scrive
Massimo Lucioli in “Mafia & Allies”, negli Stati Uniti si creava il legame
tra US Navy e mafia italoamericana. Fin dallo scoppio della guerra, nel ’39,
gli Usa, per quanto ancora formalmente neutrali, cominciarono a rifornire
gratuitamente tutti i nemici dell’Asse. Il porto di New York assumeva, quindi,
importanza strategica e si temevano sabotaggi da parte di spie tedesche e
italiane. Fu per scovare e colpire queste ultime, ben nascoste nella numerosa
comunità italoamericana newyorkese, che uno dei massimi responsabili
dell’intelligence, addetto alla sicurezza portuale, il maggiore Radcliffe
Haffenden, decise di prendere i primi contatti con il gangster Lucky Luciano.
Il boss, infatti, nonostante stesse scontando in carcere una condanna a
cinquant’anni per sfruttamento della prostituzione, continuava a controllare le
attività illecite del porto tramite il suo affiliato Joe Lanza.
La collaborazione con
la mafia partì in grande stile: la valanga di informazioni fornite ai servizi
segreti Usa da Lucky Luciano consentì agli americani non solo di smantellare la
rete spionistica italiana nel porto di New York, ma anche di garantirvi una
forzosa pace sindacale per non turbare l’invio di materiale bellico in Europa.
I contatti di Haffenden con Luciano sono confermati dai microfilm pubblicati
per un breve periodo sul sito del Freedom information act (Foia) che riporta i
resoconti delle indagini della stessa Fbi su Haffenden.
Del resto, anche
l’avvocato di Lucky Luciano, Moses Poliakoff, ammise tranquillamente: “Nel
1942, il procuratore distrettuale della contea di New York, per conto del
Controspionaggio della US Navy intendeva chiedere a Luciano una “certa
assistenza”. Mi chiesero se ero disposto a fare da intermediario”.
Le foto che svelano i mafiosi “embedded” nelle forze armate Usa .
Un altro servigio reso
da Lucky Luciano fu quello di segnalare agli americani i mafiosi residenti in
Sicilia che avrebbero certamente cooperato al momento dello sbarco in Sicilia
(operazione Husky). L’Office of Strategic Services (Oss) il servizio segreto
statunitense, si preoccupò anche di selezionare militari di origine
siculo-americana e di creare una rete di contatti con tutti coloro che, nella
Trinacria, fossero ostili al regime, non ultimi gli influenti membri del Movimento
per l’Indipendenza della Sicilia.
Il principale
interlocutore di Lucky Luciano nell’isola fu, appunto, don Calogero Vizzini, il
quale aderì al progetto, unendo insieme le forze dei latifondisti affiliati al
Mis - e dei mafiosi - a quelle dei servizi segreti americani. “Ufficiale di
collegamento” fra Vizzini e Luciano era il criminale Vito Genovese che,
dall’America, era ritornato in Italia già nel 1938. Lo ritroviamo in una
fotografia mentre posa, in divisa americana, accanto al bandito Salvatore Giuliano,
mentre, in un’altra foto, si riconosce il mafioso italo-americano Albert
Anastasia, sempre in uniforme, inquadrato in un reparto di fanteria il cui
gagliardetto consisteva in una grande “L” gialla (da “Luciano”) in campo nero.
Lo stesso vessillo è, incredibilmente, apparso attaccato su un’auto in una foto
del 2010 - del tutto inedita - scattata da Massimo Lucioli, insieme a due altri
testimoni, nel paese di Cassibile (SR) durante la celebrazione dell’armistizio
siglato con gli Alleati nel ‘43. La vettura sconosciuta è passata di fronte
alle autorità statunitensi mentre la banda U.S. Navy suonava l’inno a stelle e
strisce. La vicenda dell’emblema con la “L”, per quanto già nota a livello
locale, non è mai stata presa sul serio a livello della storiografia nazionale.
La foto che pubblichiamo fuga ogni dubbio: c’erano anche “loro” e, ancor oggi,
qualcuno tiene a ricordarlo agli americani.
Come la mafia sabotò due divisioni del Regio esercito.
Uno dei più efficaci
provvedimenti mafiosi fu quello di minacciare pesantemente i militari siciliani
di stanza nella loro regione. Venne “caldamente consigliata” la diserzione e il
sabotaggio per evitare conseguenze spiacevoli per loro e le loro famiglie. Ecco
perché due delle quattro divisioni mobili italiane di stanza in Sicilia si
sfaldarono, in buona parte, all’arrivo degli angloamericani. Michele Pantaleone
scrive in “Mafia e droga” che il 70% dei soldati delle divisioni “Assietta” e
“Aosta” - quota corrispondente, appunto, a quella dei militari siciliani - il
21 luglio 1943, a sbarco avvenuto, “scomparve senza lasciare traccia
pregiudicando, così, l’intero apparato difensivo siciliano”. Questo si era
verificato poiché, come spiega Giuseppe Carlo Marino “il boss mafioso Genco
Russo e i suoi sgherri avevano fatto intendere che c’erano parecchi
malintenzionati che li avrebbero fatti fuori prima dell’arrivo degli
anglo-americani”.
I soldati siciliani
della “Assietta” e della “Aosta” provenivano dai ceti agrari e, come contadini,
erano da sempre vessati dalle pressioni dei capi mafia e sottoposti ai loro
ordini. Non a caso, una simile diserzione di massa non avvenne nella divisione
“Livorno”, poiché in essa i siciliani erano pochissimi, appena il 9%. A
ulteriore conferma, va considerato che i soldati siciliani costituenti il 60%
della divisione “Napoli” fecero, invece, il loro dovere fino in fondo – ed
eroicamente - perché si trovavano nella Sicilia orientale, quindi al di fuori
della sfera di influenza dei mafiosi collaborazionisti (attivi, piuttosto,
nell’entroterra). Questo dimostra che i militari siciliani non erano affatto
meno “costituzionalmente combattivi” degli altri soldati italiani. A riprova di
ciò, come appurato dal convegno svoltosi lo scorso anno a Napoli, voluto dal
presidente dell’Anpi Carlo Smuraglia, i siciliani furono, insieme ai campani, i
più numerosi italiani partecipanti alla Resistenza e, nel nord Italia,
dimostrarono grande spirito combattivo.
Il guiderdone della
mafia sarà, dopo lo sbarco alleato, la piena infiltrazione nel tessuto politico-amministrativo
di gran parte dei comuni isolani, supportata dall’Allied Military Government of
Occupied Territories (Amgot). Dopo aver lucrato con il mercato nero durante il
conflitto, Cosa nostra comincerà a prosperare, nel dopoguerra, soprattutto con
il traffico di stupefacenti.
L’eroismo dimenticato della “Livorno“ e della “Napoli” .
Al momento dello
sbarco, il 10 luglio 1943, la divisione motorizzata “Livorno”, per ordine del
comandante della 6° armata, il valido generale Alfredo Guzzoni (poi processato
dalla Rsi, ma assolto) fu prontamente mandata all’attacco della testa di ponte
americana, sulle spiagge di Gela. Era da sola: come riferisce il suo
comandante, gen. Domenico Chirieleison, l’appoggio della divisione corazzata
tedesca “Hermann Goering” giunse, infatti, diverse ore dopo. Il comandante
americano George Patton sottovalutò, inizialmente, la Livorno (convinto che le
sue truppe avrebbero facilmente respinto quei “vigliacchi italiani”, come ebbe
a definirli) ma, in capo a poche ore, l’impeto di quei soldati, pure, male
armati, quasi privi di armi automatiche, senza copertura d’artiglieria e con
pochi, obsoleti carri armati, riuscì a far arretrare gli statunitensi fino
all’abitato di Gela e a travolgere le loro linee difensive. Furono momenti
molto difficili per gli americani anche perché da Malta gli aerei inglesi non
erano potuti decollare, in appoggio, a causa della nebbia.
Patton ordina il reimbarco?
A quanto riferisce il
generale Alberto Santoni in una pubblicazione dello Stato Maggiore
dell’Esercito, Patton fu colto dal timore e diramò ai suoi persino l’ordine di
prepararsi a un possibile reimbarco. Per quanto la circostanza fu poi negata
dall’interessato e dal Pentagono, il testo del radiomessaggio, intercettato dal
comando italiano di Enna, “dovrebbe trovarsi - scrive Santoni - ancora negli
archivi dell’Esercito”.
Dietro nostra
richiesta, l’Ufficio storico dell’Esercito non ha ritrovato il documento
citato, ma ha prodotto una importante nota del Comando della XVIII Brigata
Costiera che riporta, alle ore 15.00: “E’ stato notato che i natanti (Usa)
vanno e vengono dalla spiaggia di Gela, si ha l’impressione che il nemico
riprenda rimbarco”. Come sottolineato dallo stesso Ufficio storico, però, il
generale Emilio Faldella scrive, invece, di una intercettazione contemporanea
relativa a una semplice richiesta di rinforzi da parte di Patton. L’episodio
sembra, però, ancora riconfermato, nelle sue memorie, dal tenente della
“Livorno” Aldo Sampietro che ricordava l’istante di speranza in cui vide “carri
armati americani ripiegare verso la spiaggia per reimbarcarsi”. Anche Raffaele
Cristani, un altro ufficiale reduce, riporta: “Fino a quel momento gli
americani si erano sempre ritirati di fronte ai nostri battaglioni, tanto che
ci fu un momento in cui sembrò che stessero per ritirarsi”.
Se è vero, come
riportano varie fonti, che la Livorno stava per costringere gli americani alla
ritirata nel settore di Gela, questo avrebbe potuto compromettere l’intera
invasione. (Quanto alla terminologia, va osservato che gli stessi
angloamericani si consideravano degli “invasori” come si legge nella Soldier’s
Guide of Sicily, distribuita alle loro truppe).
L’uragano di fuoco navale .
Le truppe da sbarco di
Patton erano in crisi, così le navi angloamericane ricevettero l’ordine di
intervenire per salvare la situazione. Contro gli italo-tedeschi si scatenò,
allora, un inferno di fuoco navale prodotto dai cannoni da 340 mm che “aravano”
letteralmente sezioni di terreno procedendo di 100 metri alla volta, disintegrando
qualsiasi forma di vita vi si fosse trovata. Poi si aggiunsero le bombe degli
aerei inglesi, che erano finalmente riusciti a partire da Malta. I difensori
dovettero ritirarsi. In un caso, un reparto italiano fu costretto ad arrendersi
perché gli americani utilizzavano prigionieri di guerra come scudi umani. Nella
“Relazione cronologica degli avvenimenti” del XVIII Comando Brigata Costiera,
infatti, il generale Orazio Mariscalco annotò: “Il col. Altini comunica che la
49a btr. si è arresa perché il nemico veniva avanti facendosi coprire dai
nostri soldati presi prigionieri…”.
Fu una carneficina per
i giovani della “Livorno”, come ricorda Pierluigi Villari ne “L’onore
dimenticato”: resisteranno ad oltranza per 24 ore tra i ruderi di Castelluccio
di Gela. Un soldato così annotava nel suo diario: “Eravamo stretti uno
all’altro, immersi nella polvere; era un martellare implacabile di una
quarantina di cannoni navali, di pezzi di artiglieria campale, i colpi ci
piovevano vicinissimo tutt’attorno mentre schegge, pallottole, sassi
fischiavano sulla nostra testa”.
In totale, la
“divisione fantasma”, come recita il titolo di un saggio di Camillo Nanni,
lasciò sul campo, tra morti, feriti e dispersi, 7.200 uomini dei suoi 11.400
effettivi.
Anche nel settore
inglese, più ad est, la divisione di fanteria “Napoli” insieme al Kampfgruppe
“Schmalz”, combatté strenuamente fino all’annientamento. I pochi elementi
superstiti si sacrificarono per permettere agli alleati tedeschi di ritirarsi
sul fiume Simeto.
Alle due divisioni “Livorno” e “Napoli” che,
pure, avevano giurato fedeltà al Re e non al Duce, sono stati negati per
decenni, in nome della politica, la memoria e l’onore che spettavano loro per
aver difeso, fino all’estremo sacrificio, il proprio paese.
Furono ben 630, infatti, le medaglie al valore
– per gran parte postume – concesse ai militari del solo Regio esercito
(escludendo Marina e Aeronautica) che difendevano la Sicilia. Di essi si
ricordano il caporal maggiore Cesare Pellegrini, che impegnato in furiosi corpo
a corpo, fu alla fine pugnalato nel fortino di Porta Marina; il sottotenente
carrista Angelo Navari che col suo carro armato riuscì a impegnare una intera
compagnia di soldati americani; il colonnello Mario Mona che resistette a
oltranza di fronte alla spropositata preponderanza nemica per poi scomparire
nella mischia; il sottotenente Luigi Scapuzzi che si sacrificò a Leonforte per
permettere ai suoi colleghi e ai suoi uomini di poter ripiegare.
La stragi sconosciute dei prigionieri italiani .
Ai soldati che caddero
prigionieri, non sempre capitò una sorte migliore dei loro commilitoni caduti.
Sono, purtroppo,
diverse le stragi compiute dagli americani ai danni di militari italiani arresi
e civili inermi. A questi eccessi contribuì in modo determinante lo spirito
particolarmente aggressivo infuso da Patton ai suoi uomini. Riportiamo uno dei
suoi discorsi agli ufficiali precedenti lo sbarco: «Se si arrendono quando tu
sei a due-trecento metri da loro, non badare alle mani alzate. Mira tra la
terza e la quarta costola, poi spara. Si fottano, nessun prigioniero! È finito
il momento di giocare, è ora di uccidere! Io voglio una divisione di killer,
perché i killer sono immortali! » Molti subalterni lo presero alla lettera,
come dimostra, ad esempio, il Massacro di Biscari che vide 76 prigionieri
italiani e 12 civili cadere sotto le mitragliate del capitano John Compton e
del sergente Horace West. Come riferisce Andrea Augello in “Uccidi gli
italiani”, Compton si giustificò dichiarando che credeva di aver ben
interpretato le parole del generale Patton. Anche gli otto carabinieri di Gela
che si erano arresi dopo una breve resistenza fiaccata dal tiro navale, come ha
rivelato il saggista Fabrizio Carloni, furono passati per le armi senza motivo.
E ancora, le stragi e gli ammazzamenti di Piano Stella, di Comiso, di
Castiglione, di Vittoria, di Canicattì, di Paceco, di Butera, di Santo Stefano
di Camastra e vari altri paesi sono stati indagati dai testi di Giovanni
Bartolone (“Le altre stragi”), Franco Nicastro (“Le stragi americane”) e
Gianfranco Ciriacono (“Le stragi dimenticate”). Quasi tutti i responsabili, nei
casi in cui furono sottoposti a corte marziale, furono assolti o condannati a
pene irrisorie. Pubblichiamo la sentenza di assoluzione del capitano Compton,
solo per breve tempo desecretata dagli archivi americani. Justin Harris, in una
tesi di laurea dell’Università di San Marcos, in Texas, spiega che la sentenza
fu “not guilty” – non colpevole, perché la commissione che giudicò Compton apparteneva
alla sua stessa divisione, la 45esima. Harris ha anche pubblicato i nomi di
tutti i militari che facevano parte del gruppo di fuoco.
A Troina (EN), poi, cominciarono gli stupri,
le uccisioni e le razzie del reparto Tabor, composto da 832 militari marocchini
sbarcati al seguito della 3° divisione americana, che si protrarranno per
quattro mesi fino alla Toscana segnando le vite di 60.000 italiani. Il dato si
riferisce alle denunce raccolte dall’Istituto nazionale per le vittime di
guerra, ma è sottostimato considerando che denunciare uno stupro, all’epoca,
richiedeva molto coraggio. Notizie sulle cosiddette “marocchinate”, sono
riportate da Bruno Spampanato in “Contromemoriale”.
PER SAPERNE DI PIU’ : I LIBRI DELLA LANTERNA SULLA STORIA MODERNA,
VISTA SENZA PARAOCCHI :
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