Socializzazione: l’Italia ha ancora bisogno della “nobile impresa”
«La socializzazione, ardito progetto di un socialismo
proiettato al futuro, presuppone una educazione profonda ed una
coscienza saldissima delle classi sociali, le quali si rendono conto di
agire e lavorare per lo stesso obiettivo: il miglioramento economico e
sociale del popolo tutto e di rimando di ogni singolo cittadino»:
semplici parole che descrivono la collaborazione di classe fulcro della
socializzazione delle imprese. Questa teoria rivoluzionaria, messa in
pratica nelle tragiche ore finali del fascismo, viene descritta con
dovizia di particolari nell’opera La nobile impresa, di Gianluca Passera, libro che costituisce una perla rara nel panorama economico e culturale italiano.
L’autore, giovane studioso e sindacalista, ci accompagna in un lungo excursus storico
nel cuore delle teorie partecipative e sociali che hanno caratterizzato
la scena del nostro paese (e non solo). Partendo dalle encicliche
cattoliche Rerum Novarum e Quadrigerismo anno, tutti i passaggi salienti dei primi del Novecento vengono richiamati: il sindacalismo rivoluzionario, la repubblica di Weimar, La Carta del Carnaro,
l’«occupazione produttiva» di Dalmine nel 1919. Una serie di istanze
tese a fare del lavoro il soggetto dell’attività statale, che
confluiscono in diversa misura nel fascismo, il quale inizia un’opera
importante: «Dal 1922 al 1943 l’Italia fu trasformata in un vasto campo
sperimentale umano, dove il Partito fascista cercò di attuare un
progetto di società gerarchica, militarizzata, per integrare gli
individui e le classi in uno stato nuovo totalitario con fini di potenza
ed espansione», scrive Passera. Parole che colgono nel segno,
dimostrando come il movimento mussoliniano riesca a costruire
gradualmente una società sempre meno inquinata dall’individualismo e dal
materialismo.
La legge sindacale n.563 del 1926, il contratto collettivo, la Carta del Lavoro,
le corporazioni del 1934 sono alcuni passaggi salienti in questa
direzione, volti a porre i datori e i lavoratori sullo stesso piano in
nome dell’interesse nazionale. Non più classi sociali determinate su
base economica ma classi basate sulle competenze tecniche, aiutate da
uno Stato autoritario non facilmente ricattabile dalle leggi del
mercato. Merito di Passera sostanziare le sue affermazioni forti con dei
precisi riferimenti al dibattito storico e a documenti e riviste
dell’epoca («Diritto del Lavoro» in primis), operando in più utili
confronti con la situazione attuale, dove al contrario prevale
l’interesse di lobby e i lavoratori e i sindacati sono esclusi da
qualsiasi partecipazione attiva e consapevole alla vita della loro
impresa e della nazione.
Di estremo interesse si rivela anche l’analisi del Codice Civile del 1942,
che pone le basi per la «socializzazione economica del tessuto
produttivo» italiano. Queste fondamenta saranno proprio quelle che, in
stretta linea di continuità col ventennio, daranno vita alla
socializzazione delle imprese della Repubblica Sociale Italiana,
l’ultimo messaggio di civiltà dell’idea fascista. Lo spirito
corporativo entra nell’impresa grazie ai Consigli di Gestione, come
scrive l’autore: «la socializzazione è un momento stesso del
corporativismo: l’idea basilare del corporativismo è quella di tenere
uniti (anche se gerarchicamente subordinati) capitale e lavoro,
facendoli collaborare, il passo successivo è materializzare il
corporativismo nell’azienda, ponendo sullo stesso piano i due soggetti
dell’economia e responsabilizzandoli entrambi nei confronti del tessuto
sociale e industriale». Grandi industrie come la FIAT vengono
socializzate, il capitale puramente speculativo viene estromesso dalla
gestione delle aziende e non serve qui dilungarsi su quanto questo
passaggio risulti ancora attuale.
Le “mine sociali” volute da Mussolini non scompaiono
totalmente con la fine del fascismo: l’art. 46 della Costituzione, che
parla di partecipazione, ne è il primo esempio. Anche i Consigli di
Gestione sopravvivono per un breve periodo, finendo al centro di aspri
dibattiti politici richiamati con dovizia di particolari da Passera. Ma
il ritorno della vecchia mentalità “dualistica” e anticomunitaria rovina
tutto: comunisti e democristiani guardano all’interesse di parte
travisando il senso della legislazione sociale e previdenziale del
fascismo. Non a caso, i primi provvedimenti dei “liberatori” furono
proprio quelli volti a cancellare le istituzioni corporative e le
riforme socializzatrici. Il libro entra nel dettaglio di tutti questi
eventi, fino ad arrivare alla situazione odierna, passando per
esperienze significative come l’Olivetti (in incredibile sintonia con lo
spirito socializzatore) e “il modello tedesco”. L’analisi dedicata ai
nostri giorni accompagna robuste considerazioni critiche a molte
proposte degne di nota, in cui emerge la competenza di chi
all’elaborazione teorica accompagna un concreto lavoro quotidiano.
Passera ricorda che in alcune direttive europee e persino nella tanto
vituperata Legge Fornero sono presenti degli spazi
dedicati alla partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa o
all’azionariato operaio, rimasti lettera morta anche per colpa nostra
(cioè del popolo italiano). Se il capitale cerca solo il proprio
interesse e reputa il lavoro una merce, dall’altra parte sindacati e
lavoratori si sono troppo spesso arroccati nella sterile rivendicazione
di classe e nell’incapacità di partecipare, approfondire, migliorare,
rifuggendo ogni tipo di responsabilità e risultando quindi parimenti
colpevoli dello sfacelo attuale. In definitiva, alla luce delle ardite
quanto lucide interpretazioni dell’autore, la socializzazione emerge
come una “nobile impresa” profondamente italiana ma soprattutto
necessaria per uscire dall’attuale crisi del sistema.
Francesco Carlesi
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