LO SBARCO IN SICILIA NEL 1943 Gli USA e la mafia
mafia
Vittorio Martinelli
Nei primi dieci mesi di guerra i sommergibili tedeschi
affondarono nei pressi delle coste dell’Atlantico cinquecento navi
statunitensi; era chiaro che venivano riforniti di viveri e di nafta da
spie e traditori; marina e controspionaggio si dimostrarono impotenti.
Il controspionaggio ebbe l’idea di ricorrere ai servigi della mafia,
con la mediazione di Salvatore Lucania (detto “Lucky Luciano”) che
stava scontando una condanna a 15 anni. I fratelli Camardos e Frank
Costello, con la loro organizzazione mafiosa, riuscirono dove le
strutture ufficiali avevano fallito: I’attività filo-nazista fu
stroncata.
Da cosa nacque cosa. Abrogati nel 1942 i “decreti Mori”
parecchi mafiosi ritornati in Sicilia avviarono contatti con gli
“angloamericani” che incominciarono ad arruolare uomini d’origine siciliana. A
mezzo dei pescherecci, i mafiosi esercitarono lo spionaggio nel
Mediterraneo; poi fornirono notizie sulle infrastrutture dell’isola, la
dislocazione e la consistenza delle truppe dell’Asse in Sicilia. Del
resto perché gli Alleati iniziarono l’invasione dell’Europa meridionale
dalla Sicilia, anziché dalla Sardegna o dalla Corsica, dalle quali
sarebbe stato agevole effettuare sbarchi in Toscana, Liguria o
Provenza?
La tranquillità nelle retrovie delle truppe che sarebbero
sbarcate costituiva la preoccupazione principale dei comandi alleati:
fu scelta la Sicilia con la certezza di poter contare, sull’appoggio
della mafia. Fu quest’ultima ad ospitare dal 1942 il colonnello Charles
Poletti, futuro governatore militare, dall’aprile 1943 il colonnello
britannico Hancok e un buon numero d’infiltrati italo-americani.
Dalla relazione conclusiva della Commissione antimafia
presentata alle Camere il 4 febbraio 1976: “Qualche tempo prima dello
sbarco angloamericano in Sicilia numerosi elementi dell’esercito
americano furono inviati nell’isola, per prendere contatti con persone
determinate e per suscitare nella popolazione sentimenti favorevoli
agli alleati. Una volta infatti che era stata decisa a Casablanca
l’occupazione della Sicilia, il Naval Intelligence Service organizzò
una apposita squadra (la Target section), incaricandola di raccogliere
le necessarie informazioni ai fini dello sbarco e della “preparazione
psicologica” della Sicilia. Fu così predisposta una fitta rete
informativa, che stabilì preziosi collegamenti con la Sicilia, e mandò
nell’isola un numero sempre maggiore di collaboratori e di informatori.
Ma l’episodio certo più importante è quello che riguarda la parte
avuta nella preparazione dello sbarco da Lucky Luciano, uno dei capi
riconosciuti della malavita americana di origine siciliana.
Si comprende agevolmente, con queste premesse, quali siano
state le vie dell’infiltrazione alleata in Sicilia prima
dell’occupazione. Il gangster americano, una volta accettata l’idea di
collaborare con le autorità governative, dovette prendere contatto con i
grandi capimafia statunitensi di origine siciliana e questi a loro
volta si interessarono di mettere a punto i necessari piani operativi,
per far trovare un terreno favorevole agli elementi dell’esercito
americano che sarebbero sbarcati clandestinamente in Sicilia per
preparare all’occupazione imminente le popolazioni locali. “Luciano”
venne graziato nel 1946 “per i grandi servigi resi agli States durante
la guerra”. E un fatto che quando il 10 luglio 1943 gli americani
sbarcarono sulla costa sud della Sicilia, raggiunsero Palermo in soli
sette giorni. Scrisse Michele Pantaleone: “…è storicamente provato che
prima e durante le operazioni militari relative allo sbarco degli
alleati in Sicilia, la mafia, d’accordo con il gangsterismo americano,
s’adoperò per tenere sgombra la via da un mare all’altro…”.
Ancora la Commissione antimafia: “la mafia rinascente
trovava in questa funzione, che le veniva assegnata dagli amici di un
tempo, emigrati verso i lidi fortunati degli Stati Uniti, un elemento
di forza per tornare alla ribalta e per far valere al momento
opportuno, come poi effettivamente avrebbe fatto, i suoi crediti verso
le potenze occupanti”.
Scrisse Lamberto Mercuri: “fu in quei mesi che la mafia
rinacque e non tardò ad affacciarsi alla luce del sole: in realtà non
era mai morta, né completamente debellata: le lunghe ed energiche
repressioni del prefetto Mori ne avevano sopito per lungo tempo ardore e
vigoria e fugato all’estero i capi più “rappresentativi” e più
spietati che avevano tuttavia mantenuto contatti e legami con l’onorata
società dell’isola”.
Nella confusione seguita all’invasione e alla caduta del
Fascismo, la mafia vide l’opportunità di riorganizzare il vecchio
potere, di insinuarsi nel vuoto del nuovo, raccogliendo i frutti della
collaborazione con gli alleati. Molti suoi uomini noti ebbero cariche
importanti: per esempio, un mafioso celeberrimo, don Calogero Vizzini,
fu nominato da un tenente americano sindaco di Villalba; nella
cerimonia d’insediamento, fu salutato da grida di “Viva la mafia!”.
“Vito Genovese – scrisse Mack Smith – benché ancora
ricercato dalla polizia degli Stati Uniti in rapporto a molti delitti
compreso l’omicidio, e sebbene avesse servito il fascismo durante la
guerra, risultò stranamente essere un ufficiale di collegamento di una
unità americana. Egli utilizzò la sua posizione e la sua parentela con
elementi della mafia locale per aiutare a rastaurarne l’autorità…”.
Divenne il “braccio destro indigeno” del governatore
Poletti, ma una banda ai suoi ordini rubava autocarri militari nel
porto di Napoli, li riempiva di farina e zucchero, (pure sottratti agli
alleati) che vendeva nelle città vicine. Altri mafiosi, meno noti,
divennero interpreti o “uomini di fiducia”. L’atteggiamento del Governo
militare fu ispirato a criteri utilitaristici; sta di fatto, però, che
quest’apertura verso gli “amici degli amici” permise in breve alla
mafia di riorganizzarsi, di riacquistare l’antica, indiscussa
influenza. Aveva sempre cercato l’alleanza con il potere (anche con
quello fascista, agl’inizi) ma per la prima volta le veniva conferito
un crisma di legalità e di ufficialità che le consentiva
d’identificarsi con il potere. I “nuovi quadri” saldarono o ripresero
solidi legami con la malavita americana, indirizzandosi verso il tipo
di criminalità associata “industriale” caratteristico del gangsterismo
USA nel periodo tra le due guerre.
Sul numero di aprile di “Volontà” ho riepilogato le vicende
della lotta – vittoriosa – condotta dal Fascismo contro la mafia. Il
seguito della vicenda dimostra come, grazie agli anglo-americani, la
seconda guerra mondiale rappresentò per la mafia l’occasione d’oro per
una rigogliosa rinascita, come i fatti hanno dimostrato ampiamente.
Si suol dire oggi, da chi intende sminuirne il successo,
che il Fascismo non debellò la mafia, semplicemente la costrinse
all’inazione, tant’è vero che poi si ridestò più forte di prima. Se fu
poco, perché il regime attuale non perviene al medesimo risultato?
Basterebbe. Senza più delitti ed attività criminale, la mafia si
ridurrebbe ad una patetica, folcloristica conventicola segreta che non
darebbe noia e non farebbe più paura a nessuno.
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