- «Il 16 aprile 1944 Monsignor Beccarini, arcivescovo di Capua, mi ordinò di recarmi nel carcere di S. Maria Capua Vetere per portare la parola di conforto ai giovani fascisti, Cantelli e Menicocci, ambedue condannati a morte nel marzo '44 (...). Un nodo mi stringeva la gola. Dopo quasi otto mesi mi trovavo di nuovo dinanzi ai rappresentanti della vera Patria che dagli invasori venivano considerati come traditori, ma dalla gente bennata erano considerati come veri e degni figli d'Italia. Li abbracciai in carcere e li confessai. (... ) Alle ore 9,45 siamo usciti dalle celle. Nel carcere, per ogni dove, si sentivano le grida degli altri carcerati che piangevano per la triste sorte dei loro fratelli (...). Alla cava di pietra, ai due paletti già pronti, furono legati con una fune. Una benda copriva i loro occhi ed un mirino venne posto sul loro cuore. I giovani avrebbero voluto essere liberati dalle bende per guardare ancora una volta, come essi dicevano, in faccia i loro giustizieri, perdonarli forse e morire, ancora una volta guardando e salutando il bel cielo d'Italia, per la quale avevano tanto sofferto e lottato».
- Una scarica di otto fucili li fulminò all'istante».
- «Li trovai che cantavano. Appena mi videro stettero zitti, e quando il cancello di ferro si aprì, mi si strinsero intorno... Il milanese e il romano erano biondi, quello di Aquila bruno, robusto, con un'aquila sul petto; il napoletano bassotto con i calzoni da ufficiale (...). Un militare della M.P. mi disse che avevo altri due minuti di tempo. - Siamo già pronti - fu la risposta. Li volli accompagnare sul luogo del supplizio... Uscii con due di loro fra quattro M.P. americani armati. Il pianto dei carcerati ci accolse alla uscita del corridoio (...). I due, il romano, studente in medicina, e il napoletano risposero inneggiando all'Italia fascista (...). Arrivammo. Due pali in una partita di grano verde, dietro una cava di pozzolana (...). Eccoli vicino al palo, il romano si toglie la camicia. Mi dice che non vuol farsela bucare. Gli legano le mani. E’ sorridente (...). Passo al napoletano, sorridente, bruno, carino. Mi raccomandano le lettere che hanno scritto ai loro cari (...) . Due soldati caricano i dodici moschetti. Un comando secco; puntano il fucile; un terzo comando ancora; parte la raffica. Vidi cadere i cari giovani, mi avvicinai a loro recitando tre Requiem e un De Profundis per ciascuno (...) Si vanno a rilevare gli altri due, che arrivano alle 11,45. Appena mi vedono mi sorridono; hanno trovato un viso amico che è lì per confortarli. Quello di Aquila si toglie anche lui la camicia. Lo legano, desidera una sigaretta (...). Mentre lo legano, il milanese grida tre volte: - Viva il Duce - e l'altro risponde: - Viva - E ancora: - Dio stramaledica gli inglesi! - Io lo guardo e lui capisce: avevo detto loro di non odiare il nemico. Poi i soliti comandi secchi. Li vidi piegarsi pian piano. Ascoltai il loro rantolo: i colpi non erano stati precisi come la prima volta. Che strazio al mio cuore (...)».
- «Cara mamma, con l'animo pienamente sereno mi preparo a lasciare questa vita che per me è stata così breve e nello stesso tempo così piena e densa di esperienze sensazionali (...). Ti prego, mamma, fa che il mio distacco da questa vita non sia accompagnato da lacrime, ma sia allietato dalla gioia serena di quegli animi eletti che sono consapevoli del significato di questo trapasso. Ieri, dopo che mi è stata comunicata la notizia, mi sono disteso sul letto ed ho provato una sensazione che avevo già conosciuta da bambino: ho sentito cioè che il mio spirito si riempiva di forza e si estendeva fino a divenire immenso (...). Non ho alcun risentimento per coloro che stanno per uccidermi perché so che non sono che degli strumenti scelti da Dio (...). Io resterò vicino a te per sostenerti e aiutarti finché non verrai a raggiungermi; perché sono certo che i nostri spiriti continueranno insieme il loro cammino di redenzione (...). In questo momento sono lì da te e ti bacio per l'ultima volta, e con te papà e tutti gli altri cari che lascio. Cara mamma termino la lettera perché il tempo dei condannati a morte è contato fino al secondo. Sono contento della morte che mi è destinata perché è una delle più belle, essendo legata ad un sacro ideale. Io cado ucciso in questa immensa battaglia per la salvezza dello spirito e della civiltà, ma so che altri continueranno la lotta per la vittoria che la Giustizia non può che assegnare a noi. Viva il fascismo. Viva l'Europa. Franco».
- «Muoio con l'animo tranquillo perché ho la coscienza di aver dato tutto, con slancio e devozione, alla mia Patria, che ho amato più di me stesso, della mia famiglia e, forse, di Dio. Fratelli cari, non maledite la mia idea né il mio gesto: ho fatto quello che ogni italiano aveva il dovere di fare (...)».
- NOTE di italia-rsi:
- [*1 nota di italia-rsi] Nella sezione Cyberamanuensi della antologia italia-rsi abbiamo raccolto una memoria di un familiare del Caduto Carmelo Fiandro che riporta la relazione (completa di altri nomi) scritta dal sacerdote che seguì la vicenda e che la famiglia Fiandro ha ricevuto, al Cairo, dopo un anno dall'accaduto:
- memoria sul Caduto Carmelo Fiandro
- [*2 nota di italia-rsi]
- Purtroppo siamo stati successivamente informati che il plotone di fucilazione dei giovani Sabelli e Testorio, rivestito con le divise dell'invasore, era composto da italiani delle truppe collaborazioniste dell'esercito degli Alleati.
- «Il 26 giugno 1945. Raggiungo mio marito al di là. Mai più nessuno potrà fucilarmelo, mai più nessuno potrà dividerci: in ciò i signori comunisti sono impotenti. E voi, ministro Togliatti, che fino all'ultimo siete voluto essere vigliacco, come tutti i vostri degni compagni, allungando inutilmente lo spasimo di due vite che vivevano l'una per l'altra, possiate essere maledetto. A me spetta l’eterna felicità, egli mi attende. Desidero che siano rispettati tutti i desideri di mio marito, e che vengano con me le foto del nostro adorato bimbo e dell'unico uomo che nella mia vita ho amato. Gualtieruccio caro, mamma e papà veglieranno sempre su di te. Nella Testorio. A morte il comunismo!»
- (...) Ma ecco ancora rumore di chiavistelli ed il cancello si apre: è il rancio speciale per Rico, minorenne (...). Il cancello si riapre, entra un ufficiale americano e consegna ai tre, dei fogli di velina, uno per uno: sono i fogli di comparizione in giudizio e contengono i capi di imputazione che sono uguali per tutti. La causa è fissata a quattro giorni dopo (...). Il difensore, un capitano dell'esercito inglese arriva il giorno prima del processo: - Siete stati arrestati in divisa? - Chiede - No - risponde Mauro (Mauro Bertoli ndr) - Eravamo in borghese - Allora non c'è alcuna speranza- Replica l'inglese e si accomiata.
- Il processo comincia l'indomani in un'aula del Tribunale di S. Maria Capua Vetere a porte chiuse e dura due giorni.
- Un interprete dell'esercito americano traduce in uno sgradevole italiano: - Siete condannati a morte per fucilazione a mezzo moschetto - Vi è un moto impercettibile di Mauro verso Rico - Sta su - gli sibila senza girarsi - Sta tranquillo è passata - gli risponde Rico, immobile anche lui.
- I tre giovani vengono accompagnati all'uscita e, su una camionetta, ricondotti in carcere.
- La camerata, solitamente fredda, ha un tepore accogliente quella sera.
- - Scusami per un momento fa - dice Mauro a Rico appena soli - ma ti ho visto impallidire-.
- - Avevo capito già prima - spiega Rico - avevo afferrata la parola «dead», ma quel porco di interprete l'ha detta in un modo!... ho dovuto farmi forza per non vomitare - .
- (...) - Speriamo che ci facciano scrivere a casa - dice Mauro - vorrei preparare mamma (...)
- (...) Sono in attesa Mauro e Gino (Luigi Cancellieri ndr) silenziosi, alla finestra della cella numero 1. Nel cortile sostano chiacchierando fra loro gruppi di ufficiali, americani, inglesi, italiani ed alcuni civili. La porta di accesso al cortile si apre per lasciare entrare un nuovo gruppo di ufficiali alleati: sono insieme per una ragione. Attraversano tutto l'atrio e si avviano all'ingresso dell'ala che ospita i ragazzi. Rico sente, dai loro passi che oltrepassano la porta della sua stanza: sono diretti alla stanza n. 4; vi entrano ed un interprete traduce a Mauro e Gino, in piedi, il dispositivo della sentenza che sarà eseguita quella mattina.
- Due preti si sostituiscono agli ufficiali.
- - Sei pentito di quello che hai fatto?
- - Non ho nulla da pentirmi, se fosse necessario tornerei a servire l'Italia allo stesso modo
- -Desiderate qualcosa in particolare? - domandano prima di accomiatarsi.
- - Se fosse possibile una buona mangiata - dice Gino - è quasi mezzogiorno! Ma non ho più alcun appetito
- Quando un sergente americano arriva con un grande vassoio, aiutato da Mauro, Gino raccoglie tutto nelle scodelle del carcere e le depone sulla brandina di Rico, poi si fruga le tasche, ne estrae le poche sigarette che gli hanno offerto quella mattina e le depone accanto alle scodelle, coi cerini. Quando li portano via, passano dinanzi alla porta della cella n. 1, ma sono ormai lontani da ogni cosa; dietro la porta della cella, Rico è appeso col corpo abbandonato, con le mani serrate sulle sbarre della finestrella. E’ un bene che non abbia avuto la forza di tirarsi su, forse avrebbe gridato, forse avrebbe urlato, forse avrebbe turbato i suoi fratelli.
- Riesce ad arrivare alla finestra del cortile e li vede andare, dritti come uomini, ognuno fra quattro nemici.
- Legati al palo, Mauro si affloscia solo dopo la scarica.
- A Gino, prima del «fuoco», manca la forza fisica nei ginocchi; il capo, incredibilmente ricciuto, è eretto (...)
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