Perché il 25 Aprile
Analisi di un evento, al di là delle
celebrazioni rituali
Settantesima
edizione dei festeggiamenti del 25 Aprile: quanti conoscono l’esatto
significato di quella data? Ogniqualvolta sull’argomento sono stati resi
pubblici i risultati di indagini svolte non solo in area studentesca, ma
anche tra le persone di una certa età, l’esito è stato assai deludente
con risposte che, se rivelano, tra i giovani, l’assoluta impreparazione
a livello scolastico, denunciano, tra gli anziani, una generalizzata
perdita di memoria storica. Sono in molti a credere, ad esempio, che il
25 Aprile segni, insieme al ritorno di una “libertà” tanto
proclamata quanto vaga, la fine della Seconda Guerra Mondiale; taluni
credono invece di individuare, in quella data, la sconfitta della
Germania; altri ancora sono convinti che, in quel giorno, i partigiani
liberarono l’Italia. Proviamo a chiarirci le idee, rifacendoci a
testimonianze e documenti dell’epoca. Quel che segue lo scrisse nel 1946
in “Banditi” il comunista Pietro Chiodi (che fu insegnante di
storia e filosofia nei licei classici e libero docente all’Università di
Torino), allora operante nella 103° Brigata d’Assalto Garibaldi: “25
Aprile. La notizia ci è giunta come un fulmine. Il Comando militare
regionale piemontese ha inviato al Comando Divisione il messaggio: ‘Aldo
dice ventisei per uno’, che significa: ‘Attuare piano E27 a partire
dall’una del 26 aprile’”. Si trattava dunque di un ordine cifrato
indirizzato agli esponenti dei partiti clandestini riuniti nel CLN
(Comitato di Liberazione Nazionale) alle diverse bande allo scopo di
rendere operante, nell’imminenza del tracollo dello Stato mussoliniano,
appunto quel “Piano E27” che aveva decretato l’eliminazione
fisica di tutti i soldati volontari nella RSI e degli avversari
politici. Riproduciamo il documento ricordando, che al punto c), la
qualifica di “spia” era di fatto genericamente attribuita a
chiunque fosse sospettato di non essere filopartigiano, o si trovasse in
familiarità con nemici della Resistenza. Ma una cosa balza all’occhio,
scorrendo questo testo: non si fa il minimo accenno ai tedeschi; qui si
parla unicamente di italiani. Per quale ragione? Come mai nulla
s’imputava né veniva programmato contro gli “invasori” teutoni,
autori di violenze che, salvo alcune eccezioni in casi peraltro
enfatizzati, soltanto oggi, a distanza di sessant’anni, fanno riaprire
gli “armadi della vergogna” a zelanti quanto tardivi giustizieri?
Risposta: perché il Generale Karl Wolff, plenipotenziario SS in Italia,
s’era accordato in Svizzera (grazie alla mediazione dell’arcivescovo
Schuster e all’insaputa di Mussolini e Hitler) con angloamericani ed
esponenti della Resistenza, ottenendo di salvare la propria pelle in
cambio dell’abbandono di militari e civili della RSI, con le loro
famiglie, in balia delle più che prevedibili vendette. Sin dall’8 marzo
1945, infatti, il generale SS s’impegnò ad evitare che le varie
formazioni germaniche attaccassero i partigiani. Wolff stesso, poi, si
era reso garante della liberazione di Ferruccio Parri (vice-comandante
del Corpo Volontari della Libertà), allora detenuto. Ecco ciò che
avvenne, in conseguenza, nel Cuneese. In linea con la condotta adottata
da Karl Wolff, il 12 aprile 1945 il capitano Wessel, a capo del presidio
tedesco di Bra, concorda la resa separata con Icilio Ronchi della Rocca,
Comandante della 12° Divisione Bra (delle formazioni autonome di
“Mauri”, alias Enrico Martini); questi trasmette, il giorno
successivo, al maggiore della missione alleata Hope, uno scritto del
seguente tenore:
“ho deciso di
accettare la resa del Cap. Wessel imponendogli queste condizioni.
1)Il Cap. Wessel
rimane nella sua carica in condizioni di resa incondizionata.
2)La città di
Bra sarà considerata virtualmente libera.
3)Durante le
azioni in città contro i reparti della Repubblica, i tedeschi non
dovranno uscire dalla caserma né daranno aiuto o asilo a militari.
4)Tutti gli
uomini del Presidio tedesco, all’occupazione definitiva di Bra, saranno
considerati prigionieri di guerra con le garanzie sanzionate dalla
convenzione internazionale di Ginevra.
Nel pomeriggio
ho fatto attaccare il Presidio repubblicano di Bra e dopo un violento
scontro la città è stata occupata e tenuta fino alla mezzanotte, con ciò
ho voluto aver conferma degli impegni assunti la mattina dal Cap. Wessel
e difatti i tedeschi si sono sbarrati in caserma isolandosi
completamente dagli avvenimenti”.
L’incursione
partigiana su Bra, senza che la guarnigione germanica alzi un dito,
costa la vita a numerosi militari italiani, sette dei quali fatti
prigionieri e passati per le armi su ordine dello stesso Ronchi della
Rocca (per loro, le convenzioni internazionali non contano).
Anche cinque civili, “spie” sospette, vengono catturati in quelle
circostanze; non ne conosciamo i nomi e nulla sappiamo sulla loro sorte.
Il 14 aprile, a Sommaria Perno, reparti della GNR e della X MAS cadono
in un’imboscata dei partigiani, sicuri ormai che le forze germaniche non
interverranno. All’epilogo di questi fatti, saranno più di cento i
soldati italiani uccisi: alcuni in battaglia; molti altri, feriti,
verranno finiti sul posto; la maggior parte, dopo essersi arresi,
verranno uccisi a gruppi, via via nelle varie tappe di spostamento.Gli
ultimi tredici saranno “giustiziati”, dopo quasi un mese di sevizie,
parte a S. Stefano Roero (sette, il 9 maggio), parte a Roreto di
Cherasco (sei, il 10 maggio). I superstiti, presi in consegna dai
sopraggiunti americani, verranno portati al campo di concentramento di
Coltano, in provincia di Pisa.
Per offrire un’idea
sul costo complessivo , in vite umane, della mattanza del 25 Aprile, di
cui la sotterranea defezione di Wolff favorì l’avvio, apriamo il libro
“Il sangue dei vinti” di Giampaolo Pansa a pagina 370, dove si
legge: “Il 31 maggio 1945, in un colloquio con l’ambasciatore
dell’URSS in Italia, Mikhail Kostylev, Togliatti sostenne che i fascisti
fucilati alla fine della guerra erano stati 50.000”. Fu esattamente
questo e null’altro il 25 Aprile, lo sfogo dell’odio contro inermi, une
festa di sangue che, più o meno coscientemente, ogni anno si rinnova
celebrandosi.
Articolo tratto
da STORIA DEL NOVECENTO n. 49 dell’aprile 2005, pagina 55
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