Fascismo e concezione etica del lavoro
IL LAVORO
Spirito antinazionale del classismo proletario.
“Gli operai hanno creduto di doversi e
di potersi rendere estranei alla vita nazionale. Questo è stato un
grande errore. Voi dovete essere invece anima dell’anima della Nazione
in modo che tutto il nostro travaglio non vada miserevolmente perduto.
Questo è il comandamento che ci viene dai nostri morti, lo spirito dei
quali aleggia certo in questo salone e ci ripete il medesimo
comandamento. Occorre che gli italiani ritrovino quel minimo di
concordia che è necessario per rendere possibile il riordino e lo
sviluppo della vita civile; e se vi saranno minoranze che tenteranno di
opporsi, esse saranno inesorabilmente colpite. Fate tesoro di queste
parole e ricordate il motto dei Sindacati Fascisti: La Patria non si
rinnega ma si conquista!”
(MUSSOLINI. Ai metallurgici lombardi, 5 Dicembre 1922)
La valutazione politica e sociale del
lavoro, contenuta nella dottrina fascista, non è il portato di una
filosofia astratta, ma la risultante di una sofferta esperienza di
uomini e di eventi; essa non può dunque intendersi nel suo vero
significato se non riferendosi alla realtà storica che l’ha suscitata.
Tale realtà è dominata dal fenomeno della lotta di classe; nel quale la
critica rivoluzionaria del Fascismo non vede soltanto una insurrezione
del proletariato contro il capitalismo, ma anche e sopratutto un
distacco delle categorie produttrici, lavoratrici e padronali, dallo
Stato. Quando il mondo operaio, acquistata la consapevolezza della sua
indispensabile funzione sociale, decide di affrancarsi dalla supremazia
tirannica dei datori di lavoro e di organizzarsi in una propria comunità
alla quale sono assegnati precisi compiti di lotta, si estranea perciò
stesso alla vita dello Stato, accusa lo Stato di insensibilità e di
impotenza dinanzi ai problemi del lavoro e crea uno Stato proletario
dentro lo Stato che dovrebbe invece essere totale. L’originario
presupposto politico dal quale muove l’accoglimento della lotta di
classe come strumento di azione sociale non è dunque quello di una
dichiarazione di guerra al capitalismo, ma quello di un atto di sfiducia
aperto nello Stato. Prima ancora di essere diretta contro
l’imprenditore, la lotta di classe è rivolta contro lo Stato. E nella
posizione politica del classismo l’atteggiamento fondamentale è dato
appunto dall’ignorare,o per una precisa determinazione o per
trascuratezza, come la contesa fra capitale e lavoro abbia sempre un
terzo protagonista nello Stato, il quale dal contrasto esce
preventivamente sconfitto, perché la sua vittoria in altro non può
consistere se non nell’impedire che il contrasto stesso si determini o
nel riuscire a comporlo al momento del suo sorgere. Il fenomeno della
lotta di classe, considerato da questo punto di vista,si presenta dunque
come una forma di crisi dello Stato che si riflette sull’ordine della
vita economica, ma che ha il suo principio nelle istituzioni supreme
dell’ordinamento costituzionale. Essendo motivata da queste
considerazioni, la negazione che la dottrina fascista compie della lotta
di classe, tende essenzialmente alla reintegrazione dell’autorità dello
Stato dinanzi alla evasione delle forze produttive ed è
conseguentemente superiore al punto di vista espresso da ciascuna di
esse. Chi in passato ha creduto di individuare, nella posizione della
dottrina fascista dinanzi alla questione sociale, uno sbandamento verso
il conservatorismo o una larvata difesa del capitale, non ha
evidentemente compreso da quali motivi ideali fosse determinata questa
posizione, la quale, respinta la lotta di classe come manifestazione
antistatale,non ripudia perciò gli urgenti problemi politici ed
economici che essa denuncia con il suo insorgere.
L’errore del capitalismo.
“il capitale, pena di suicidio, non
può incidere oltre una certa cifra sul dato lavoro e questo non può
andare oltre un certo segno nei confronti del capitale.” MUSSOLINI Convegno n Palazzo Chigi, 20 dicembre 1923 .
Si può infatti sopprimere la lotta di
classe in quanto umilia l’autorità dello Stato togliendogli il pieno
possesso delle forze produttive; ma al tempo stesso si può anche
prendere conoscenza delle sperequazioni economiche e morali che essa
esprime ed affidarne la soluzione allo Stato, perché la giustizia
sociale sia raggiunta senza inutile dispendio di energie umane e
spirituali. In particolare la dottrina fascista ritiene che l’ascesa
incontrollata del capitale, determinata dallo sviluppo della civiltà
industriale, si sia effettivamente conclusa con un grave disconoscimento
dei diritti dei lavoratori e che tali diritti in un ordinamento equo
debbano ricevere una tutela più sicura ed efficiente di quella che non
sia stata ad essi riservata dallo Stato liberale. Se è quindi necessario
che il proletariato rientri nei ranghi dello Stato e rinunzi alla
conquista violenta delle posizioni perdute, è egualmente necessario che
il capitale abbandoni contemporaneamente il campo di battaglia e si
consegni esso pure allo Stato, affidandogli senza riserve il compito di
dirimere la controversia. Infatti anche il capitale, in quanto si porti
sul piano determinato dalla lotta di classe, in quanto pretenda di
respingere direttamente l’insurrezione del proletariato, si estranea
alla totalità dello Stato e gli disconosce la funzione di supremo
regolatore delle forze sociali che esistono nel suo ambito. Nell’atto in
cui si pongono come elementi contrapposti della lotta di classe, né il
proletariato né il capitale meritano attenuanti l’uno nei confronti
dell’altro; qualunque possa essere la consistenza delle loro ragioni
sociali, essi compiono la medesima negazione dello Stato, pervenendo
alle medesime conseguenze. Per questo lo sciopero e la serrata debbono
egualmente condannarsi come forme di ribellione contro lo Stato
sostanzialmente equivalenti nelle loro premesse ideali. La dottrina
fascista non contiene dunque alcuna riserva a favore del capitale contro
il proletariato; ma, ponendosi al disopra degli eccessi dell’uno e
delle esuberanze dell’altro, li giudica entrambi alla stregua di un
principio superiore.
Lotta di classe e interesse nazionale.
« C’è un interesse comune ai datori di lavoro ed ai lavoratori. Guai
a chi varca certi limiti: i datori di lavoro non debbono volere che la
massa dei loro dipendenti viva in condizioni di disagio e di povertà.
Non è nel loro interesse nè è nell’interesse della Nazione. D’altra
parte i lavoratori non debbono chiedere alla industria ciò che
l’industria non può sopportare» MUSSOLINI, Agli operai di Monte Amiata 31 agosto 1934.
Il principio superiore dal quale la
dottrina fascista giudica la contesa fra il capitale ed il proletariato è
quello dell’interesse della Nazione, cioè della comunità dove il
capitale e il proletariato appaiono come elementi integranti ai quali
per nessun motivo può essere consentita un’evasione. Solo in quanto si
creda nell’esistenza di questa comunità e nella sua storica necessità
anche rispetto alle forze particolari che vi sono comprese, si può
intendere la posizione della dottrina fascista. Per essa la Nazione non è
una formula razionale o un vago sentimento; ma una realtà concreta
dalla quale ognuno dei componenti sente di attingere un’energia
indispensabile alla esistenza propria. Per essa l’individuo sente che la
Nazione è una tradizione in lui viva ed operante, in quanto gli assegna
un temperamento, un’educazione,un costume, una cultura, insomma una
qualificazione dinanzi alla vita sociale. L’individuo senza Nazione è
uno sperduto il quale dovrebbe ricominciare dentro se stesso la
spaventosa ed impossibile elaborazione di tutti quei valori morali che
la storia nazionale forma attraverso lente stratificazioni progressive
in un corso più volte secolare. L’individuo senza Nazione è riportato
all’origine dell’umanità e cioè posto nella impossibilità di risolvere,
con la sua breve vita e con le sue modeste risorse tutti i problemi che
le collettività nazionali hanno risolto con una più lunga permanenza e
con più numerose forze. Per questo l’individuo ha un’ interesse diretto e
quasi personale alla efficienza della Nazione e l’interesse di questa
gli si presenta anche come un suo interesse: cioè l’interesse ad
appoggiarsi, ad essere difeso da una realtà più grande, l’interesse a
presentarsi non in nome proprio ma in nome di una personalità più salda,
interesse ad ingigantirsi mediante l’immedesimazione in una vita che
trascende la vita degli uomini e dei gruppi. Questa interpretazione
della necessità nazionale non ha soltanto un valore spirituale, ma anche
un significato concreto che incide pure sulla vita economica. In tanto
le forze della produzione possono accrescersi ordinatamente e resistere
nei momenti critici alle ondate distruttrici che tentano di travolgerle,
in quanto la comunità nazionale, nel pericoloso trapasso da una fase di
prosperità passata ad una fase di prosperità futura, le sorregge con il
suo presidio di energie tradizionali. L’interesse, al quale la dottrina
fascista si riferisce nel giudicare la questione sociale, è dunque
l’interesse della Nazione inteso in un senso umano e realistico, cioè
l’interesse della Nazione veduto come denominatore comune dal quale sono
rappresentati, secondo una proporzione di superiore giustizia, tutti
gli aspetti permanenti e fondamentali dei singoli interessi particolari.
Questi interessi particolari possono essere infatti in contrasto per
quanto riguarda i loro aspetti contingenti e secondari, ma non possono
esserlo per quanto riguarda la loro autentica e duratura sostanza.
Infatti essi non possono trovarsi in una posizione di assoluto
contrasto, perché non sono le espressioni di realtà distinte, ma sono le
espressioni di una medesima realtà indissolubile. Questa realtà,
profondamente unitaria, può rivelare incrinature nei periodi del suo
assestamento, ma non può presentare fratture prestabilite e definitive,
poiché altrimenti non risulterebbe unitaria, ma molteplice.
La produzione come ragione di vita sociale.
« Bisogna lavorare e produrre.
Lavorando e producendo voi dimostrerete il vostro amore più tenero per
la Patria e contribuirete a ricostruire la ricchezza nazionale » MUSSOLINI Agli operai del porto di Bari, 10 aprile 1922 .
Ma quali sono le forze che assicurano la
continuità e l’efficienza della Nazione, quella continuità e quella
efficienza alle quali le stesse forze particolari che compongono il
complesso nazionale hanno, come si è visto, un diretto e vitale
interesse? Dall’individuo alla più vasta comunità sociale, ogni entità
vivente non può assicurarsi una vera continuità di esistenza ed una
efficienza di azione se non producendo, cioè accumulando riserve di
energie per il futuro e dando concrete testimonianze delle proprie
capacità di espansione. Un uomo assicura a se stesso una sicurezza di
esistenza e conquista un rango autorevole, quando sviluppa le proprie
capacità mettendole in grado di funzionare sempre meglio e quando lascia
dietro di sé il segno delle proprie opere. Una cultura si afferma e si
continua se si esprime attraverso manifestazioni che dimostrino sia una
fecondità produttiva che una genialità di spirito. Così anche la
Nazione, la quale esiste nelle sue opere, vive di ciò che nel suo ambito
si crea per la politica, per l’economia, per le armi, per le
scienze,per le arti; la quale si afferma, gode di prestigio, non crolla
sotto i colpi delle Nazioni nemiche solo se le sue creazioni sono di
qualità, cioè resistono al confronto degli avversari e dei concorrenti.
Ma poiché le creazioni che si compiono in una Nazione sono quelle delle
sue forze particolari,cioè degli uomini e dei gruppi componenti, che
d’altra parte hanno interesse alla sua continuità e alla sua
efficienza,è logico che una Nazione possa conquistare la pienezza della
sua vita e rispondere agli interessi particolari dei propri componenti
solo se questi creano, cioè lavorano e producono. Per questo la maniera
più immediata e vera di dimostrare il proprio sentimento nazionale,il
proprio amor di Patria è quello di lavorare e di produrre. Il lavoro non
è l’attività che conduce alla soddisfazione dei bisogni egoistici
dell’individuo; ma è l’attività attraverso la quale l’individuo
partecipa alla vita e al destino della comunità nazionale della quale fa
parte; ed è l’attività attraverso la quale la comunità nazionale
acquista una sua consistenza ed una sua energia. Se l’individuo senza
lavoro rimane al di fuori della vita nazionale, a sua volta la Nazione
senza lavoro vede inaridire le sue sorgenti vitali, decade e soccombe.
In tal modo il destino dell’uomo e quello della comunità appaiono come i
due volti di un medesimo destino il quale procede per una stessa via
senza distinguersi.
Il lavoro soggetto della società nazionale.
“Nello Stato corporativo il lavoro
non è più l’oggetto dell’economia, ma il soggetto poiché è il lavoro che
forma ed accumula il capitale” MUSSOLINI, Sintesi del Regime. 18 marzo 1934.
Per questo il lavoro è il fondamento
della vita nazionale, è il soggetto attraverso il quale la Nazione opera
e vive; tutto ciò che della Nazione veramente esiste, al di fuori dei
vaghi sentimentalismi, è il lavoro. L’affermazione che il lavoro è il
soggetto dell’economia non è un principio autonomo; ma è la
trasposizione nel campo economico della legge più generale che assegna
al lavoro un valore dominante nella vita dei popoli in quanto è il modo
della loro esistenza. In questo senso il lavoro è il soggetto
dell’intera società nazionale, costituendo la sua forza propulsiva, la
sua volontà operante, il suo perenne motivo animatore dal quale ogni
altro motivo discende come da una fonte. L’errore della concezione
materialistica che fa consistere la potenza delle Nazioni nell’oro, non
tiene conto della verità elementare che l’oro, cioè il capitale, è
soltanto uno strumento della produzione, ma che questo strumento è il
risultato di un lavoro compiuto e che per divenire effettivamente
produttivo deve essere applicato dal lavoro. Senza il concorso del
lavoro, senza la guida del lavoro, senza l’attività del lavoro, l’oro
rimane uno strumento inanimato incapace di generare. Quindi la potenza
delle Nazioni non consiste nell’oro, ma nel lavoro. Ed inoltre il lavoro
deve essere inteso non come attività esclusiva del proletariato,
secondo la significazione restrittiva derivata dal concetto di lotta di
classe: ma come applicazione diretta di ogni facoltà umana che sia
mediatamente o immediatamente rivolta alla produzione, secondo la
interpretazione data dalla stessa scienza economica.
L’estensione del concetto del lavoro.
“E’ stolto ed assurdo dipingerci come
nemici della classe lavoratrice e laboriosa. Noi ci sentiamo fratelli
in spirito con coloro che lavorano: ma non facciamo distinzioni assurde,
non mettiamo al primo piano il callo, specie se è al cervello. Noi non
mettiamo sugli altari la nuova divinità del lavoratore manuale. Per noi,
tutti lavorano: anche l’astronomo che sta nella sua specula a
consultare la traiettoria delle stelle, lavora anche il giurista,
l’archeologo, lo studioso di religioni, anche l’artista lavora, quando
accresce il patrimonio dei beni spirituali che sono a disposizione del
genere umano: lavora anche il minatore, il marinaio, il contadino. ‘Noi
vogliamo appunto che tutti i lavori si compendino e si integrino a
vicenda: vogliamo che tra spirito e materia, fra cervello e braccio si
realizzi la comunione,la solidarietà della stirpe”
MUSSOLINI Discorso di Bologna, 3 Aprile 1921 .
MUSSOLINI Discorso di Bologna, 3 Aprile 1921 .
In tal modo la dottrina fascista respinge
il concetto di lotta di classe, non solo per il sistema di azione
sociale che esso comporta ma anche per la definizione del lavoro dalla
quale essa parte, e quindi estende il concetto del lavoro,
comprendendovi tutte le manifestazioni dell’opera e del pensiero umano
che sbocchino in una produzione di qualsiasi genere e che contribuiscano
comunque ad alimentare la vita nazionale. Anche le attività
intellettuali appaiono dunque
come altrettante forme di lavoro. Infatti contribuiscono pure esse a promuovere la vita della Nazione; pure esse si riversano a favore degli altri gruppi nazionali che esercitano un’attività diversa,concorrendo ad elevare l’autorità, il prestigio, la potenza della Nazione considerata nella sua unità e delle forze particolari che sono in essa comprese. Questo principio, per il quale il concetto del lavoro assume un significato totalitario, è tipico della tradizione italiana. Durante il Risorgimento un grande italiano,Mazzini, affermando la funzione prevalente del lavoro nella vita sociale, accomunava appunto tutte le forme di lavoro in questo chiaro preannuncio : « Un giorno saremo tutti operai, cioè vivremo tutti sulla retribuzione dell’opera nostra in qualunque direzione si eserciti. L’esistenza rappresenterà un lavoro compiuto ». E la dottrina fascista, fin dalla sua origine, ha fatto propria questa interpretazione del lavoro, dandole un riconoscimento ufficiale già nel Congresso sindacale di Bologna del 24 gennaio 1922, dove fu acclamata una mozione che dice testualmente: “Sono da considerarsi lavoratori tutti indistintamente coloro che comunque impieghino o dedichino l’attività ai fini suaccennati” (della produzione). Il lavoro è dunque riportato al suo valore più comprensivo e più spirituale: è lavoro ogni concreta testimonianza materiale o ideale del perenne sforzo che l’uomo compie non per sopravvivere come organismo fisiologico, ma per elevarsi nel cammino della storia,per fare della propria esistenza una affermazione di umanità intelligente ed operante, per distaccarsi dal mondo dei bruti e vivere in quello della civiltà.
come altrettante forme di lavoro. Infatti contribuiscono pure esse a promuovere la vita della Nazione; pure esse si riversano a favore degli altri gruppi nazionali che esercitano un’attività diversa,concorrendo ad elevare l’autorità, il prestigio, la potenza della Nazione considerata nella sua unità e delle forze particolari che sono in essa comprese. Questo principio, per il quale il concetto del lavoro assume un significato totalitario, è tipico della tradizione italiana. Durante il Risorgimento un grande italiano,Mazzini, affermando la funzione prevalente del lavoro nella vita sociale, accomunava appunto tutte le forme di lavoro in questo chiaro preannuncio : « Un giorno saremo tutti operai, cioè vivremo tutti sulla retribuzione dell’opera nostra in qualunque direzione si eserciti. L’esistenza rappresenterà un lavoro compiuto ». E la dottrina fascista, fin dalla sua origine, ha fatto propria questa interpretazione del lavoro, dandole un riconoscimento ufficiale già nel Congresso sindacale di Bologna del 24 gennaio 1922, dove fu acclamata una mozione che dice testualmente: “Sono da considerarsi lavoratori tutti indistintamente coloro che comunque impieghino o dedichino l’attività ai fini suaccennati” (della produzione). Il lavoro è dunque riportato al suo valore più comprensivo e più spirituale: è lavoro ogni concreta testimonianza materiale o ideale del perenne sforzo che l’uomo compie non per sopravvivere come organismo fisiologico, ma per elevarsi nel cammino della storia,per fare della propria esistenza una affermazione di umanità intelligente ed operante, per distaccarsi dal mondo dei bruti e vivere in quello della civiltà.
La concezione fascista del lavoro nella storia.
“ Il lavoro non è più considerato
come una specie di castigo che il genere umano è costretto a subire per
un tragico e autorevole fato, ma come il vero scopo della vita. Questo è
un concetto che avrà certo una vasta importanza nella storia
dell’umanità” MUSSOLINI, Primo messaggio al popolo americano ( Scritti e Discorsi vol. V, pag. 470).
In questo senso il lavoro non è un mezzo,
ma è un fine: nel lavoro la vita terrena acquista la logica conclusione
ed il compimento. Lavorare, cioè produrre e creare, significa imprimere
un orientamento determinato alla propria volontà ed alle proprie
azioni; significa fermare il corso fuggente dell’esistenza nelle cose
prodotte e create per rimanere oltre il tempo. Dunque il lavoro non è la
condanna dell’uomo, ma è la sua esaltazione quotidiana: riconducendo al
lavoro l’uomo che ne sia lontano, lo si riporta alla nobiltà più vera
della sua natura; tutelando il lavoro contro le manomissioni, da
qualunque parte esse provengano, si difende uno dei valori essenziali
non solo alla esistenza del singolo, ma anche e sopratutto alla
esistenza della collettività. Nel concetto del lavoro quale la dottrina
fascista lo delinea,risiede dunque una interpretazione totale della
vita: una interpretazione che, per essere direttamente ispirata al
dramma della condizione sociale contemporanea, assume il valore di un
insegnamento morale e di un codice di vita. I termini del problema
economico sono così superati e composti in un disegno più vasto. Al
mondo moderno, che attraverso il dissesto delle categorie e la lotta di
classe accusa la sua profonda crisi spirituale, la dottrina fascista nel
lavoro, innalzato alla funzione di motivo di costruzione umana,indica
un approdo concreto e tangibile; addita una soluzione non astratta e
contemplativa, ma operosa e vibrante; apre un corso nel quale tutte le
risorse del pensiero, tutte le energie del braccio possono essere
felicemente avviate.
Individuo, lavoro e gerarchia.
« nel tempo fascista il lavoro nelle
sue infinite manifestazioni, diventa il metro unico col quale si misura
l’utilità sociale e nazionale degli individui e dei gruppi »
MUSSOLINI il piano regolatore della Nuova Economia Italiana, 23 marzo 1936.
MUSSOLINI il piano regolatore della Nuova Economia Italiana, 23 marzo 1936.
Per questa sua posizione, che ne fa il
fulcro intorno al quale si svolgono i valori della vita,il lavoro, nelle
sue infinite manifestazioni, diventa il metro unico col quale si misura
l’utilità sociale e nazionale degli individui e dei gruppi. Attraverso
il lavoro si vaglia l’uomo, si svela la sua maniera di sentire i diritti
e i doveri, si avverte il suo senso di responsabilità morale, si
conosce il conto che egli fa delle proprie forze, si misura sopratutto
il grado con cui egli intende rispondere al suo impegno verso la
collettività. Una mozione votata nel Congresso sindacale fascista
svoltosi a Bologna il 24 gennaio 1922 contiene a questo proposito
un’affermazione di chiarezza adamantina: “ Il lavoro costituisce sovrano
titolo che legittima la piena ed utile cittadinanza dell’uomo nel
consesso sociale”. Per la dottrina fascista il lavoro è dunque un dovere
sociale e, prima ancora che un dovere sociale, è l’atto con il quale
l’uomo entra nella società e vi conquista il suo posto. Le autentiche
gerarchie della vita intesa come missione sono le gerarchie, reali e
produttive, create dal lavoro. Le altre sono graduazioni formali
destinate ad essere cancellate dalla storia. Il lavoro parla il
linguaggio sicuro ed evidente delle produzioni raggiunte e dei valori
conquistati. Solo questo linguaggio può essere accolto da tutti e da
tutti compreso nel suo significato, perché chi lavora e conosce il
sacrificio della fatica è istintivamente portato a servire chi lavora
più e meglio di lui.
Il lavoro fondamento della vita.
“Preferiamo celebrare il lavoro in
tutte le sue manifestazioni dalle più eccelse alle più modeste; da
quelle che trasformano la rozza materia a quelle che esprimono i moti
profondi dello spirito. Adottiamo il lavoro che dà la bellezza e
l’armonia alla vita, non solo quello che aumenta la possibilità del
nostro benessere materiale”. MUSSOLINI , da ascoltare, 1° maggio 1919.
Risulta evidente che se possono essere
trovati precedenti alla visione fascista del lavoro essi non debbono
essere in nessun modo cercati nel materialismo. La dottrina
materialistica descrive il lavoro come una pena alla quale l’uomo si
sottopone per soddisfare i suoi bisogni esclusivamente nei limiti che
sono da essi richiesti. Il lavoro serve perciò a procurare i mezzi di
sussistenza e consiste soltanto nella fatica necessaria a produrli. Si
lavora per mangiare ed inversamente si mangia per lavorare. Nessuno
spiraglio rende possibile un’evasione da questo ferreo circolo chiuso
nel quale l’uomo cade con il suo lavoro. In questo la interpretazione
materialistica del lavoro è assai simile a quella greca che, con un
rassegnato scetticismo, concepisce il lavoro esclusivamente come dolore.
Infatti nessuna differenza esiste tra il mito dell’uomo legato giorno
per giorno alla ferrea legge del suo sostentamento ed i miti di Sisifo e
delle Danaidi, anche se questi sembrano più lontani dalla realtà per la
loro forma poetica. Come Sisifo porta vanamente dal piano alla cima del
monte i grandi massi che poi nuovamente precipitano a valle per
l’opposto pendio, come le Danaidi riempiono inutilmente le brocche che
sono senza fondo, così l’uomo ,secondo la dottrina materialistica,
vanamente conquista con il lavoro il suo cibo, perché questo gli serva a
farlo lavorare per lo stesso motivo, anche l’indomani, fino alla morte.
La visione fascista del lavoro è invece spirituale e positiva:
spirituale perché assegna un fine umano al lavoro, positiva perché fa
del lavoro una costruzione progressiva che conserva la memoria del suo
creatore e gli assegna un posto nella società. Questa visione ha un
precedente soltanto nella più schietta tradizione italiana: nel
Rinascimento che concepì il lavoro come fattore fondamentale
dell’umanità.
L’integrazione del capitale e del lavoro.
“Così, nel sistema fascista, gli
operai non sono più degli sfruttati, secondo le viete terminologie, ma
dei collaboratori, dei produttori, il cui livello di vita deve essere
elevato materialmente e moralmente in relazione ai momenti ed alle
possibilità”
MUSSOLINI, Agli industriali Giugno 1928.
MUSSOLINI, Agli industriali Giugno 1928.
Partendo da così alti principi, nei quali
è racchiusa una maniera di orientare verso una meta creativa il destino
dell’ uomo, la dottrina fascista non può logicamente sentire il
contrasto fra il capitale ed il proletariato come un problema
irrimediabile, cioè come un momento eterno nella storia del lavoro. La
lotta di classe devia il lavoro dal suo fine naturale, rendendolo una
forma di sovvertimento e di disgregazione umana. Bisogna dunque abolire
la lotta di classe, non comprimendo le forze che in essa si oppongono,
ma soddisfacendo le esigenze che essa dimostra con la sua esplosione
tumultuosa. Bisogna riportare il capitale ed il proletariato sul
medesimo piano, congiungerli con un legame di fraternità,affermando che
in tanto essi possono prendere parte ad una società ordinata e cosciente
in quanto assumano ambedue il fine del lavoro. Né il capitale né il
proletariato possono ammettersi se non siano forme attive di lavoro. Per
questo la dottrina fascista respinge il proletariato quando si
trasforma in massa che si agita, abbandonando la sua funzione
costruttiva, e respinge il capitale quando sia soltanto un passivo
strumento della produzione. Nel processo rivoluzionario del Fascismo la
esaltazione del lavoro non vuole essere dunque né un formale
atteggiamento demagogico né una tattica contingente per l’acquietamento
dei problemi sociali; ma una consapevolezza dei fini permanenti al
vivere sociale ed un motivo profondo di giustizia collettiva, nel quale
l’uomo possa ritrovare il senso della sua missione civile.
“Chi vede nel corporativismo soltanto
una concezione economica o una semplice politica economica,è fuori
della verità. Il corporativismo fascista è una visione
integrale,unitaria,della vita e dell’uomo,che,informando di sé ogni
attività individuale e sociale,informa necessariamente anche l’economia.
E’ utopistico compiere questa rivoluzione economica,senza compiere
quella spirituale dell’individuo e della società.” MUSSOLINI, “Il Popolo d’Italia” 24 Febbraio 1934.
Fonte: http://www.ilcovo.mastertopforum.net/la-concezione-etica-del-lavoro-nel-fascismo-vt37.html?sid=d4d49e2f601f6f9e1a40981d3188106a
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