Spigolature olocaustiche tra
Impero Romano e XX Secolo
I
SEI MILIONI DI MARTIN HENRY GLYNN & C.
di Caile
Vipinas
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Costituzione
della Repubblica Italiana, art. 21
|
Un
amico mi scrive e m'invia un articolo, pregandomi di commentarlo. È tratto dal
periodico The American Hebrew (L'Ebreo
Americano) e scritto da tale Martin Henry Glynn, un editore di un giornale
locale statunitense, l'Albany Times Union, entrato in politica con i
democratici, e divenuto nel 1913 governatore dello Stato di New York a seguito
dell'impeachment e della
rimozione dall'incarico del suo predecessore William Sulzer. Nell'articolo, dal
titolo suggestivo The crucifixion
of Jews must stop (la
crocifissione degli ebrei deve finire), viene ripetutamente indicata
(precisamente sette volte) la cifra di sei milioni di ebrei in pericolo di vita
per la mancanza di beni di prima necessità, mentre 800 mila bambini piangono
disperatamente per un tozzo di pane.
L'ex
governatore (nella sua biografia in wikipedia.org è indicato come primo
governatore di N.Y. di origine irlandese e di fede cattolica[1]),
in perfetta sincronia con gli schemi letterari utilizzati dall'editoria
propagandistica delle centrali ebraiche, sembra usare qui l'arma del pietismo
più sottile ed emotivamente più coinvolgente e quella della terribilità
apocalittica per promuovere una raccolta di fondi fra gli americani a favore dei
sei milioni e passa di cui sopra («E così nello spirito che trasformò in
argento l'offerta votiva di rame della povera vedova, e da argento in oro quando
essa fu posta sull'altare di Dio, allo stesso modo il popolo di questo paese è
invitato a santificare il proprio danaro donando 35 milioni di dollari nel nome
dell'umanità di Mosè a sei milioni di affamati»[2]),
ripetendo fino allo sfinimento psicologico del lettore che sei milioni di uomini
e donne e 800 mila bambini ebrei stanno morendo per la fame e l'indigenza «a
causa di una guerra che ha gettato il potere autocratico nella polvere e ha dato
alla democrazia lo scettro del Giusto».[3]
Indi,
con una visione quasi millenarista, che sembra precorrere certa "teologia"
giudaizzante di stampo cristianista degli attuali neocon d'America, il nostro
predicatore, il cui discorso parrebbe intriso fino all'ultima virgola di
umanitarismo massonico, non risparmia anatemi e premonizioni invocando il
tribunale del Dio della resa dei conti contro quanti restano insensibili di
fronte - attenzione al termine usato - a tale «incombente olocausto della
vita umana» (threatened holocaust of
human life).
Secondo
l'illuminato irlandese «le nostre necessità fisiche e corporali sono
impiantate in ognuno di noi dalla mano stessa di Dio, prima di ogni fede
religiosa, dovuta in parte a un fattore ereditario, in parte all'ambiente in cui
si nasce e in parte alla capacità raziocinante di ogni individuo».[4] Di
conseguenza, chi, uomo o donna che sia, «può ma non vuole prestare orecchio
al grido degli affamati, chi può ma non vuole prendersi cura dei lamenti dei
morenti, chi può ma non vuole porgere la propria mano per aiutare quanti
affondano fra le onde delle avversità, ebbene costui o costei è un assassino
degli istinti più elevati della natura, un traditore della causa della famiglia
umana, un rinnegatore della legge naturale, scritta sulle tavole di ogni cuore
umano dal dito stesso di Dio».[5]
Insomma, alla pari di un gran maestro di loggia, l'ex governatore dello Stato di
N.Y., richiamando qui implicitamente persino il concetto di Dea-Natura, parla in
maniera quasi esoterica e cabalistica del gran costruttore dell'Universo, quel
Dio pronto a colpire chi nega il proprio aiuto agli oltre sei milioni di ebrei,
uomini, donne e bambini.
La
parte finale del suo articolo storicizza in un certo qual modo il racconto
apocalittico, presentando la situazione dal punto di vista militare e imputando
alla guerra la causa dell'incalzante olocausto del popolo eletto.
In altre
parole si dice che «in quella guerra per la democrazia» (è questa una
definizione che ricorre ossessivamente nel testo) 200 mila giovani ebrei
combatterono sotto la bandiera a stelle e strisce. Le gesta eroiche della 77.ma
divisione, in cui militarono 14 mila di loro, con la cattura di uomini e
materiali tedeschi nella foresta delle Argonne, viene qui mitizzata da Glynn che
paragona «i ragazzi ebrei americani che combatterono per la democrazia [si
noti ancora una volta la ripetizione maniacale di guerra democratica] a
Giosuè che combatté contro gli Amaleciti nella pianura di Abramo».[6]
Leggendo, dunque, di un probabile "olocausto" di oltre sei milioni di Ebrei, il
più distratto fra i lettori e a digiuno di cronologie storiche avrà
probabilmente qui dedotto trattarsi di un chiaro riferimento alle vicende della
II Guerra Mondiale che, secondo la letteratura ufficiale, avrebbero causato
l'olocausto del popolo ebraico.
Uno
spinosissimo argomento, divenuto nel tempo un campo minato, con tanto di divieto
sacrale di contraddittorio, per coloro i quali, seppur timidamente, osano
soltanto avanzare dubbi, rifacendosi a una ricca messe di ricerche
storico-scientifiche ben documentate che correggono la versione "ortodossa"
della cosiddetta “shoah”. Quella che il noto scrittore, saggista e docente
universitario ebreo-americano,
Norman G. Finkelstein, nel suo celeberrimo e
demonizzato saggio di fama mondiale, ha definito, "industria dell'olocausto",
denunciando la «strumentalizzazione della sofferenza, un'arma ideologica
impiegata in un vero e proprio racket estorsivo per arricchire le lobby ebraiche».[7]
Spiace però deludere chi aveva già tirato le conclusioni, che in questo caso
sono del tutto errate. Sì, perché l'articolo in questione di Martin Henry Glynn
porta la
data del 31 ottobre 1919.
Proprio così: siamo nell'anno 1919; e la cifra di "sei milioni" e lo stesso
termine "olocausto", qui utilizzati dal Glynn per descrivere la condizione degli
ebrei europei dopo la fine del I conflitto mondiale, saranno ripresi,
pedissequamente, nella redazione ufficiale che, a partire dal 1945, ma
soprattutto negli anni '60, dopo il rapimento in Argentina, da parte del Mossad,
di Otto Adolf Eichmann, responsabile di una sezione del
Reichssicherheitshauptamt (l'Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich) e il
suo trasferimento forzato in Palestina, dove fu condannato a morte, inizierà a
mutarsi in dogma, assumendo una dimensione quasi religiosa.
Dalla Palestina romana alla Russia zarista. Primogeniture olocaustiche
Scrive Maurizio Blondet in un suo articolo di qualche anno fa dedicato alla
questione dell'olocausto ebraico: «Nel
Talmud (Gittin 57b) si attesta che i Romani, nella sola città di Bethar,
trucidarono 4 milioni di ebrei, diconsi 4.000.000, in una città che aveva in
tutto, forse, meno di 50 mila abitanti. E non basta: sempre il Talmud (Gittin
58a) dichiara che sempre i romani, in una delle loro ferocissime persecuzioni al
povero popolo, avvolsero nei rotoli della Torah e bruciarono vivi 16 milioni di
ebrei. Diconsi 16.000.000! Questa è pura verità storica, signori, attestata dal
testo più sacro e indubitabile che esista. Guai a contestarla, sareste
negazionisti e vi espellerebbero da ogni Paese civile (l’Argentina ad esempio),
nonché dalla Chiesa cattolica apostolica romana».[8]
A onor del
vero, su quest'ultima cifra, leggendo il "Folio 58a" del Trattato Gittin (Talmud
di Babilonia), tradotto in inglese da Maurice Simon sotto la direzione del
Rabbino I. Epstein, si apprende che «nella città di Bethar esistevano ben 400
sinagoghe; ogni sinagoga aveva 400 maestri e ogni maestro aveva sotto di se 400
alunni». Tirate le somme, abbiamo un totale di 160.000 insegnanti e di
nientepopodimeno che 64.000.000 di scolari. Quando il nemico entrò nelle
sinagoghe, recita sempre il racconto talmudico, essi furono trafitti con bastoni
e «quando il nemico prevalse e li catturò, furono avvolti nei rotoli [della
Torah] e arsi». Tali cifre
sono talmente assurde e inverosimili, del tutto simboliche ovviamente (indice,
altresì, di quanto possa essere attendibile il Talmud anche dal punto di vista
storico e non solo in fatto di numeri) che anche gli stessi autori della
traduzione si sono affrettati a chiosare il passo con una semplice noterella: «This
is obviously a conventional expression for 'very many'».[9]
Dalla
Palestina alla Russia, la nostra panoramica prosegue soffermandoci in modo
particolare sulla storia del giudaismo russo e sul contributo concreto e
fondamentale che buona parte degli ebrei russi diedero all'affermazione
dell'ideologia sionista e alla vittoria della rivoluzione bolscevica (in
particolare l'elemento giovanile), con l'olocausto di milioni di Russi. Ne
abbiamo preziosa, ampia e dettagliata testimonianza nell'opera dello scrittore
russo Aleksandr Solgenitsin, Due
secoli insieme[10],
a iniziare dall'espansione della popolazione ebraica in Russia, formatasi e
sviluppatasi in Polonia tra i secoli XIII e XVIII, e che nel XX secolo sarebbe
divenuta "la frazione più importante del giudaismo mondiale".[11]
L'autore analizza le condizioni degli ebrei in Russia a partire dalla fine del
XVIII secolo, ricordando nel contempo, come premessa, le guerre tra la Russia e
i Cazari, l'antica popolazione turcomanna (non di ceppo semitico, dunque,
convertitasi al giudaismo, da cui originò l'ideologia sionista avversata dalla
componente, ormai minoritaria, di autentico ceppo ebraico - i discendenti degli
ebrei della diaspora per intenderci) che si insediò tra il Caucaso e il Volga e
il cui impero cadde dopo la sconfitta del 967 subita ad opera del principe
Sviatoslav di Kiev. Come giustamente afferma Paolo D'Arpini nel suo recente
articolo "Le radici dell'ebraismo e la devianza sionista": «il
sionismo nasce da elementi non ebraici. [...] Il
sionismo sorge in un contesto razziale diverso da quello ebraico.[...] Infatti
per i veri ebrei, quelli nati e vissuti secondo la tradizione, il sionismo viene
visto come una sorta di devianza, una eresia»[12] (si
veda ad esempio la componente ebraica dei Neturei
Karta di cui si tratta a nota
31).
Al tempo di
Caterina II (1729-1796) «gli ebrei in Russia ricevettero di primo acchito la
libertà individuale di cui i contadini russi resteranno privati ancora per
ottanta anni. E, paradossalmente, agli ebrei toccò in sorte una libertà persino
più grande di quella dei commercianti e dei borghesi russi».[13]
Il suo
successore, Paolo I, è lodato dalla stessa Enciclopedia Giudaica[14] per
le sue azioni verso gli ebrei che «manifestano un atteggiamento tollerante,
di benevolenza nei confronti della popolazione ebrea [...] quando
gli interessi degli ebrei e dei cristiani entravano in conflitto, Paolo I non
prendeva affatto la difesa dei cristiani contro gli ebrei» [...] e contro le
comunità cristiane di alcune città stabilì che «gli ebrei vi hanno ogni
libertà di dominare i cristiani».[15]
Con
lo zar Alessandro I, nei primi anni dell'Ottocento, si riconfermarono tutti i
diritti degli ebrei, soprattutto in fatto di libertà individuale, e ciò strideva
enormemente con lo status di milioni di contadini russi che non fruivano di
questa libertà essendo "sottoposti alla servitù". L'ostilità nei loro
confronti doveva maturare alla luce di questi privilegi che, incredibilmente,
discriminavano gli autoctoni russi.
Un'analisi
impietosa e puntuale della condizione di privilegio goduta dalle comunità
ebraiche, del loro settarismo, del loro monopolio nei commerci e nelle
speculazioni finanziarie, della loro ostilità verso i cristiani, dello
sfruttamento esercitato nei confronti dei contadini e dei cosacchi, ma anche di
attività illecite come il contrabbando, da loro praticato nelle zone di confine
e denunciato dai governatori locali, fu realizzata da Pavel Ivanovic Pestel, un
rivoluzionario e ufficiale russo aderente al decabrismo, un movimento politico
che anelava al rovesciamento dell'autocrazia e al varo delle riforme sociali e
dell'abolizione della servitù della gleba.[16] Interessanti
sono le soluzioni della questione ebraica che l'ufficiale propone nella sua
Русская Правда: l'integrazione degli ebrei, da loro sempre rifiutata, con la
popolazione cristiana oppure la creazione di uno stato ebraico in Asia Minore.
Come osserva a ragione Solgenitsin qui c'è l'anticipazione della soluzione
sionista, che, com'è tristemente noto, si concretizzò decenni più tardi con
l'occupazione della Palestina a danno della popolazione autoctona palestinese.
Nella prima
metà dell'Ottocento la situazione doveva però mutare a sfavore degli ebrei,
soprattutto per la tenace lotta che il governo zarista di Nicola I Romanov,
salito al trono nel 1825, aveva intrapreso contro il contrabbando monopolizzato
dagli ebrei, la cui evasione delle imposte dovute al fisco, a differenza dei
cristiani tenuti a pagare fino all'ultimo copeco, aveva assunto proporzioni
preoccupanti per l'erario dello Stato russo, tanto che un apposito decreto aveva
ingiunto «categoricamente di espellere tutti gli ebrei da una zona-cuscinetto
di cinquanta chilometri di profondità prossima all'Austria e alla Prussia».
La mobilitazione del giudaismo internazionale non si fece attendere, riuscendo
addirittura a muovere la regina Vittoria d'Inghilterra, che inviò un suo
emissario in numerose città della Russia densamente popolate da ebrei per
perorare la loro causa contro ogni limitazione e costrizione legislativa che li
potesse danneggiare.[17] Ma
il risentimento, se non l'odio, contro gli ebrei doveva invece montare dopo la
rivelazione da parte di un ebreo russo convertitosi al cristianesimo, Jacob
Brafman, sull'esistenza di un'organizzazione segreta ebraica denominata Kahal,
che regolava direttamente la vita della comunità secondo i precetti talmudici,
esercitando su di essa un potere assoluto (amministrativo, giudiziario ed
esecutivo) da parte del gruppo ristretto ai vertici di questo che costituiva
l'organo direttivo della comunità ebraica. In pratica si trattava - parafrasando
l'affermazione attribuita al poliedrico letterato tedesco Friedrich Schiller («Die
Juden bilden einen Staat im Staate») -
della "creazione di uno stato nello stato" da parte della comunità
ebraica, e che Brafman stesso riportò sul frontespizio del suo libro.[18] Vani
furono gli sforzi di alcuni autori ebrei di bollare con il marchio dell'erronea
interpretazione o addirittura della falsificazione di alcuni documenti
pubblicati dal Brafman. Afferma Solgenitsin: «Un secolo più tardi (1976) la
Nuova Enciclopedia giudaica ha nondimeno confermato che "i materiali utilizzati
da Brafman erano proprio autentici, e le sue traduzioni piuttosto esatte". Ancor
più recentemente, l'Enciclopedia giudaica russa reputa, nel 1994, che "i
documenti pubblicati da Brafman sono una fonte preziosa per lo studio della
storia degli ebrei in Russia alla svolta dei secoli XVIII e XIX"».[19]
L'ostilità nei
confronti degli ebrei doveva sfociare negli anni Ottanta del XIX secolo nei
disordini e nelle violenze popolari conosciuti come pogrom, il più delle volte
enfatizzati dalla propaganda antizarista, come nel caso dei disordini nelle
città ucraine di Balta e di Odessa. Disordini che lo stesso governo russo e il
fratello dello zar Alessandro III Romanov (figlio di Alessandro II assassinato
il 1° marzo 1881) stigmatizzeranno con forza, denunciando alla delegazione dei
notabili ebrei ricevuta dallo zar e capitanata dal barone Ginzburg che «come
il governo ha ora scoperto, i disordini non hanno affatto origine in
un'insurrezione diretta esclusivamente contro gli ebrei, ma nella volontà di
alcuni di creare torbidi a qualunque costo». Interessante a questo proposito
è la testimonianza di uno scrittore russo che Solgenitsin cita per la sua nota "imparzialità
e serietà" e che non poteva certamente essere accusato di essere "reazionario"
o "antisemita". Si tratta di Gleb Uspenski, che, nella sua opera "Власть
земли" (la potenza della terra), una serie di racconti basati sull'osservazione
diretta della vita rurale nella provincia russa, proprio riferendosi ai fatti
drammatici succitati scriveva: «Gli ebrei sono stati aggrediti precisamente
perché approfittavano della miseria altrui, invece di guadagnarsi il pane col
sudore della loro fronte; bastonato, frustato, il popolo ha sopportato tutto - e
i tatari, e i tedeschi - ma quando l'ebreo ha cominciato a spillargli i suoi
ultimi quattrini, allora non l'ha più sopportato!».[20] A
nulla valevano gli sforzi del governo zarista per promuovere l'assimilazione
degli ebrei con la popolazione cristiana, anche attraverso l'attenuazione delle
limitazioni dei diritti degli ebrei stessi e della repressione delle
sollevazioni popolari contro di loro. Un rapporto del ministro dell'Interno
Ignatiev denunciava, infatti, lo sfruttamento da parte degli ebrei della
popolazione definita "di ceppo", "di preferenza le classi più povere",
attraverso l'accaparramento delle attività commerciali e persino dei fondi
agricoli.[21]
È a iniziare
dagli anni Sessanta/Settanta che i giovani ebrei, soprattutto quelli all'interno
della scuola rabbinica di Vilnius, daranno la loro adesione al movimento
rivoluzionario. Interessante come la cifra dei sei milioni di ebrei sia
ricorrente anche per quanto riguarda la popolazione della Russia. La si trova
infatti nella dichiarazione che il ministro delle Comunicazioni russo Sergej J.
Witte fece durante un incontro col fondatore del sionismo Theodor Herzl. Egli
ribadì a questo proposito che gli ebrei in Russia, pur costituendo solo il 5%
della popolazione - sei milioni su
136 milioni - la loro presenza in seno al movimento eversivo non era inferiore
al 50% dei rivoluzionari.[22] Molti
autori che contribuiranno alla stesura della famosa raccolta del 1924 Россия
и Евреи (La
Russia e gli Ebrei), fra cui I.
O. Levin e V. S. Mandel, documentano la convinta partecipazione del giudaismo
russo alla rivoluzione. Levin in particolare dice che «l'infatuazione per la
rivoluzione si era impadronita della società ebrea a tutti i livelli»
(intellettuali, commercianti, artigiani, professori universitari, dentisti),
ceti sociali accomunati da una peculiare ricettività «verso le teorie
materialistiche» che li porteranno «ad aderire a dottrine come quella del
marxismo rivoluzionario» fino alla completa corresponsabilità come «quadri
attivi del regime sovietico». Mandel sottolinea invece l'aspetto
"soteriologico" che il giudaismo bolscevico attribuiva alla rivoluzione, vista
come «un passo in avanti verso l'instaurazione del Regno dei cieli sulla
terra». Cita inoltre un passo, a dir poco delirante, tratto dal libro del
naturalista tedesco Fritz Kahn, pubblicato a Berlino nel 1920: «Mosè,
milleduecentocinquanta anni prima di Gesù Cristo ha, per primo nella Storia,
proclamato i diritti dell'uomo […] Il
Cristo ha pagato con la sua vita la predicazione di "manifesti comunisti" [sic] in
uno Stato capitalista […] nel
1848 è sorta per la seconda volta nel firmamento la stella di Betlemme […] ed
è sorta di nuovo al di sopra dei tetti della Giudea: Marx».[23]
La nascita del
sionismo è caratterizzata dal rifiuto dell'assimilazione degli ebrei con gli
altri popoli. Lo ribadisce con forza, agli albori del movimento sionista in
Russia, nel suo pamphlet "Auto-emancipazione", il medico e pubblicista
ebreo Lev Pinsker, tra i più attivi propugnatori dell'ideologia sionista e
fondatore del movimento "Amanti di Sion". Costui ribadisce con forza che
gli ebrei non possono «assimilarsi ad alcuna nazione e, di conseguenza, non
possono essere tollerati da alcuna nazione». La meta della Palestina era già
ben chiara all'interno di alcuni movimenti sionisti russi, anche se gli ambienti
della tradizione religiosa ebraica consideravano il ritorno in Palestina un «attentato
alla fede nel Messia; lui soltanto deve riportare gli ebrei in Palestina».[24] Col
tempo la dicotomia tra sionisti e antisionisti si attenuerà e assisteremo al
trionfo del sionismo europeo di Theodor Herzl sancito nel famoso congresso di
Basilea del 1897, nonostante l'accesa opposizione dell'ala antisionista russa
guidata da Ahad Haam. Quando nel 1903, in occasione del VI congresso sionista,
Herzl propose di accettare la proposta britannica di colonizzare l'Uganda e non
la Palestina, proprio l'ala sionista russa insorse, ribadendo con determinazione
«che il sionismo era inseparabile da Sion e che niente poteva sostituirla»
(come ricorda lo stesso Solgenitsin, saranno proprio gli ebrei russi a
costituire l'avanguardia dei fondatori dello Stato di Israele). Il sionismo
rimase, comunque, diviso tra chi propugnava esclusivamente la Palestina come
terra da "colonizzare" e chi auspicava invece «una colonizzazione di massa ad
opera degli ebrei ovunque fosse possibile».[25]
In
Russia le attività economiche in mano agli ebrei erano rilevanti: dall'industria
(zuccheriera, tessile, molitoria, estrazione dell'oro con a capo il barone
Orazio Ginzburg, il cui nome ricorda lo scandalo delle miniere della Lena, dove
lo sfruttamento degli operai era a livelli inimmaginabili) al commercio (grano,
legname, pellicce, bestiame, ecc.), per finire col fiore all'occhiello
dell'attività bancaria e finanziaria, con la fitta rete di banche commerciali e
d'investimento (Banca commerciale Azov-Don, Banca Poliakov, Credito fondiario di
Mosca, Banca fondiaria del Don, Banca di Siberia, Banca Ginzburg, ecc.).
Insomma, una struttura economica e finanziaria poderosa e capillare che faceva
il paio con la potente e tentacolare organizzazione ebraica americana.
Col nuovo
secolo la comunità ebraica russa, che aveva subìto episodi di pogrom, come
quello di Kichinev, intraprese a sua volta la strada della violenza e della
vendetta, attaccando senza pietà, come nel caso della città di Gomel, persino
vecchi, donne e bambini, al grido «forza ebrei! [...] questo
è il pogrom dei russi». La mattanza della popolazione cristiana russa da
parte degli ebrei durò fino a sera e fu interrotta soltanto con l'arrivo di un
contingente militare. Era la risposta a quello antiebraico di Kichinev.[26]
Dai moti
rivoluzionari e dagli atti di puro terrorismo (tra i terroristi ebrei celebri
furono Abraham Gotz e Piëtr Rutemberg) dell'ottobre 1905 che videro la
partecipazione attiva e massiva della gioventù ebraica, allontanatasi sempre di
più dal tradizionalismo religioso giudaico restato invece fedele al regime
zarista, all'episodio celebre della corazzata Potiomkin nella
città di Odessa, dove gli ebrei «erano gli oratori principali, e chiamavano
all'insurrezione aperta e alla lotta armata»[27], la
storia degli ebrei in Russia avrebbe poi avuto la sua conclusione, tragica per
il popolo russo, nella militanza piena e attiva della componente sionista nel
nuovo regime sovietico e nell'organizzazione dell'olocausto a danno del popolo
russo, soprattutto nel periodo della presa del potere da parte del bolscevismo.
Gradatamente, si avvicinava l'epoca del terrore, quello del biennio 1905-1907,
prima attraverso gli episodi di pogrom antiebraici scoppiati, dopo Odessa, in
numerose altre città della Russia, come risposta brutale popolare
all'intransigenza, all'aggressività e alla violenza indiscriminata degli ebrei
rivoluzionari contro la popolazione e il regime zarista[28].
Successivamente, a partire dall'ingresso di esponenti ebraici nel collegio dei
grandi elettori alla Duma, a seguito della riforma che apportò delle limitazioni
all'autocrazia zarista e fino all'assassinio del «primo capo del governo
russo [Piëtr Arkadevič Stolypin] ad
aver onestamente posto e tentato di risolvere, malgrado le resistenze
dell'Imperatore, la questione dell'uguaglianza per gli ebrei» caduto, come
afferma acutamente Solgenitsin, «ironia della Storia!, sotto i colpi di un
ebreo»[29],
si sarebbe sempre più delineata l'insanabile frattura all'interno della società
russa che avrebbe portato alla catastrofe della prima guerra mondiale,
all'isolamento della Russia, grazie anche alla martellante propaganda antirussa
dell'ebraismo internazionale, e alla vittoria del bolscevismo, supportato dalle
potenze occidentali e dalla finanza ebraica statunitense.
In questo lasso di
tempo, sempre in Russia, si assiste allo sviluppo dell'ideologia sionista,
grazie anche all'apporto di intellettuali ebrei come Vladimir Jabotinski,
fondatore del movimento Betar e
della Legione Ebraica durante
la I guerra mondiale. Questi, negli anni successivi al biennio maledetto
1905-1907, dipingeva in modo apocalittico la condizione degli ebrei in Russia.
Ecco allora apparire - si badi bene siamo nel primo decennio del Novecento - la
"cifra profetica" dei sei milioni, citata dal saggista ebreo russo in questi
termini: «sei milioni di esseri umani brulicanti in una fossa profonda [...], una
tortura lenta, un pogrom infinito».[30]
E il caso
volle che nel 1907 un altro luogo comune - "l'antisemitismo" - che
sarebbe successivamente divenuto, fino ai giorni nostri, una temibile arma di
pressione a livello internazionale e di condizionamento di qualsivoglia critica
al sionismo, persino proveniente dallo stesso ambiente ebraico[31],
si materializzò in un circolo letterario russo contro lo scrittore Eugenii
Chirikov, autore di un'opera teatrale dal titolo Gli
Ebrei. Fu accusato di
antisemitismo dallo scrittore ebreo Sholem Asch, che chiese con quale diritto
Chirikov aveva osato trattare della vita degli ebrei in Russia.
Sintomatiche,
realistiche e attualissime a tal riguardo furono le affermazioni dello stesso
saggista ebreo Jabotinski in un suo articolo del 1909, dal titolo "L'asemitismo",
riguardante lo stesso affare Chirikov in cui lamentava il silenzio fatto calare
sulla questione ebraica: «si può essere tacciati di antisemitismo per aver
soltanto pronunciato la parola "ebreo" o fatto la più innocente osservazione su
questa o quella particolarità degli ebrei [...] Il
problema è che gli ebrei sono divenuti un vero tabù che proibisce la critica più
anodina, e che sono loro a essere i grandi perdenti nell'affare».[32]
Con tali
premesse e con l'approssimarsi dello scoppio della I Guerra mondiale l'attacco
alla Russia zarista diviene sempre più massiccio, grazie anche alla pressione
della propaganda antirussa da parte del giudaismo nazionale e internazionale,
che, come riportò un agente dei servizi segreti militari russi nel dicembre 1915
era esercitata «dagli ebrei che dichiarano apertamente di non augurarsi la
vittoria della Russia».[33] Uomo
di punta contro la Russia zarista fu il banchiere ebreo Jakob Schiff, della
banca Kuhn & Loeb, il quale non solo finanziò il Giappone, nemico della Russia
nella guerra del 1904/1905, con 200 milioni di dollari, bensì contribuì,
esattamente come il barone Edmond Benjamin James de Rothschild (ramo francese
dei banchieri Rothschild), al finanziamento delle organizzazioni rivoluzionarie
e terroristiche ebraiche russe e delle attività sioniste o di matrice comunista,
comprese banche cooperative, sindacati e kibbutz[34].
Il fuoco di sbarramento delle potentissime e ricchissime lobby ebraiche contro
la Russia zarista fu determinante per il rifiuto da parte di Londra e Parigi di
concedere aiuti finanziari alla Russia richiesti da una delegazione del
parlamento russo nel 1916. Così commentavano dalla Gran Bretagna e dalla Francia
i banchieri Rothschild la richiesta russa: «Voi attentate al nostro credito
negli Stati Uniti. In America gli ebrei sono molto numerosi e attivi, esercitano
una grande influenza, in modo che l'opinione pubblica americana vi è molto
ostile».[35]
Bolscevismo ebraico e olocausto russo
Un'opinione
pubblica, quella americana, suggestionata e pilotata dalla martellante
propaganda giudaica che seguiva da presso gli avvenimenti che avrebbero
sovvertito e insanguinato la Russia, a iniziare dai moti del febbraio 1917, e
dove proprio gli ebrei sarebbero stati parte direttiva nell'organizzazione,
nell'economia, nell'amministrazione e persino nella cultura del nascente Stato
sovietico. La formula dei sei milioni di ebrei perseguitati è impiegata
dall'intellighenzia giudaico-sionista per enfatizzare la condizione degli ebrei
prima della rivoluzione. Tra il profluvio di attestazioni di autocommiserazione,
di vittimismo e di esaltazione della Russia rivoluzionaria (ancor prima della
presa del potere da parte del bolscevismo), di contro a quella zarista, si
distingue in particolare la dichiarazione dell'avv. O. O. Grusemberg: «Se lo
Stato russo era stato prima della Rivoluzione una prigione mostruosa per le sue
dimensioni [...], la
cella più puzzolente, più crudele, la peggiore galera era stata riservata a noi,
popolo ebreo di ‘sei milioni di anime’ [...] Gocce
di sangue dei nostri padri e madri, gocce di sangue dei nostri fratelli e
sorelle si sono deposte nelle nostre anime, accendendo e ravvivando in esse la
fiamma inestinguibile della Rivoluzione».[36]Con
il costituirsi dei Soviet la rappresentanza dei socialisti ebrei all'interno dei
loro Comitati Esecutivi era talmente elevata da suscitare diffidenza e ostilità
non solo tra il ceto popolare bensì persino all'interno dello stesso apparato
rivoluzionario. La popolazione, costretta a fare interminabili code per
approvvigionarsi dei generi alimentari che scarseggiavano e sempre più stretta
nella morsa delle necessità quotidiane per la sopravvivenza, si scagliava contro
gli ebrei, definendoli: "Banda di mascalzoni!...Sono ovunque...Fanno gli
arroganti con le loro auto...Non ci sono ebrei nelle code, non ne hanno bisogno,
nascondono il pane in casa!". Nelle città di Pietrogrado e Poltava, dopo la
scoperta di scorte di derrate alimentari ammassate presso i magazzini di alcuni
mercanti ebrei, esplode la collera popolare al grido: "Saccheggiate i negozi
dei giudei! È colpa dei giudei!" Nemmeno l'intervento dei Soviet degli
operai, in difesa degli ebrei, riesce a placare l'ira della folla, tanto che
anche loro sono presi a botte.[37] Nel
fatidico ottobre 1917, stando alle affermazioni dell'ex segretario generale del
governo provvisorio V. Nabokov, l'assemblea dei capigruppo parlamentari, in cui
gli ebrei erano in larga maggioranza, «poteva senza esitazioni essere
definita ‘sinedrio’».[38]
Il malcontento
popolare contro il potere degli ebrei all'interno della società russa, che
veniva gradatamente a indossare la nuova veste sovietica, portò a un risveglio
ineluttabile di ostilità e di odio contro gli ebrei. Il primo congresso dei
Soviet approvò, infatti, all'unanimità la lotta contro l'antisemitismo, bollato
come "attività controrivoluzionaria". «Ciò nonostante[annota Solgenitsin] non
ci fu un solo pogrom antiebraico durante il 1917».[39] Anche
Lenin condannò senza appello l'antisemitismo e in un apposito decreto emanato
nel 1918 lo definì: «un pericolo mortale per l'intera rivoluzione e una
minaccia per gli operai e i contadini». Ed Engels, che considerava la lotta
contro l'antisemitismo un dovere primario del movimento internazionale dei
lavoratori, scriveva sul quotidiano dei socialisti austriaci Arbeiterzeitung:
«dobbiamo molto agli ebrei [...] Marx
era di puro sangue ebraico, Lassalle era ebreo, tantissimi dei nostri migliori
compagni sono ebrei».[40] Il
colpo di Stato bolscevico di ottobre, alla guida del quale si distinsero gli
ebrei Trotzkij[41] e
Tchudnovski (ricordiamo che il nonno materno di Lenin[42],
Israel Davidovic Blank, era ebreo, poi divenuto cristiano-ortodosso, assumendo
il nome di Alessandro, per poter accedere all'Accademia medico-chirurgica), mise
fine al governo provvisorio di febbraio e diede l'avvio alla repressione. Se
alla sua vigilia era visto con diffidenza all'interno dell'ebraismo, ben presto
tra le file dei bolscevichi vittoriosi brillarono per ferocia e fedeltà al nuovo
messianismo comunista, soprattutto tra i ranghi dell'esercito[43],
un numero copiosissimo di ebrei. Molti di loro, addirittura, «proclamavano
alto e forte il legame genetico tra il bolscevismo e il giudaismo»[44] e
andarono gradatamente a occupare posti di comando e di potere all'interno
dell'apparato politico, militare, sociale, economico e poliziesco (inquisitorio
e repressivo) della nuova Russia sovietica, dichiarata ufficialmente nel
dicembre 1922 (Comitati provinciali, regionali, Comitato Centrale del PC,
Komintern, Profintern, Internazionale della Gioventù, Consigli rivoluzionari di
guerra, Commissariati politici, finanziari, commerciali, Comitato al
Vettovagliamento, Armata Rossa, Ceka, ecc.). Afferma Leonard Schapiro, citato da
Solgenitsin: «Migliaia di ebrei si unirono in massa ai bolscevichi, vedendo
in loro i difensori più accaniti della rivoluzione e gli internazionalisti più
affidabili».[45] Talmente
affidabili che si distinsero anche nei tentativi di rivoluzione comunista, tra
il 1918 e il 1919, in Baviera e in Ungheria, e nel 1920 in Polonia. Attesta I.
O. Levin: «In Baviera, troviamo tra i commissari gli ebrei E. Levin, M.
Levin, Axelrod, l'ideologo anarchico Landauer, Ernst Toller. [...] La
percentuale di ebrei che hanno assunto il comando del movimento bolscevico in
Ungheria è del 95%».[46]
Un altro
autore menzionato sempre da Solgenitsin, il ricercatore americano John Müller,
afferma nel suo saggio del 1990, Dialettica
della tragedia: l'antisemitismo e il comunismo nella Russia centrale e orientale,
a proposito dell'insurrezione di Monaco di Baviera guidata dall'ebreo Kurt
Eisner, che, dopo la sua
morte, fu istituito «un nuovo governo di intellettuali ebrei di sinistra che
proclamarono la ‘Repubblica sovietica della Baviera». Tale governo durò una
settimana perché fu soppiantato «da un gruppo ancora più radicale», alla
guida del quale si distinse il socialista rivoluzionario ebreo Eugenio Levin.
Questi istituì la «Seconda Repubblica sovietica della Baviera». Lo stesso
autore documenta la situazione ungherese in questi termini: «Ma se, in Russia
e in Germania, il ruolo degli ebrei nella rivoluzione è stato molto netto, in
Ungheria è stato decisivo [...] Sui
49 commissari popolari, 31 erano ebrei». Tra questi Solgenitsin ricorda Bela
Kun, che «un anno e mezzo più tardi annegherà la Crimea nel sangue».[47]
Fondamentale
fu poi anche il sostegno ebraico all'establishment bolscevico per l'assassinio
della famiglia imperiale, per la persecuzione del clero ortodosso e per la
distruzione delle chiese. A questo proposito scrive nel 1941 Sergej Nikolaevič
Bulgakov, scrittore, filosofo e teologo russo (citato sempre da Solgenitsin), a
proposito della persecuzione dei cristiani nella Russia Sovietica: questa «ha
superato in violenza e ampiezza tutte le precedenti persecuzioni conosciute
attraverso la Storia. Certo, non bisogna imputare tutto agli ebrei, ma non
bisogna nemmeno minimizzare la loro influenza».[48]
In sostanza,
nel bel mezzo di quello che sarebbe divenuto, da lì ad alcuni anni dopo,
"l'olocausto" del popolo russo, e per le condizioni di vita e per le massicce
repressioni del periodo definito del Terrore
Rosso, si distinsero gli ebrei alla guida della macchina repressiva
dell'apparato sovietico e per i privilegi sociali da loro goduti, dei quali
beneficiarono anche parenti e amici. Abbiamo già parlato delle campagne di
raccolta fondi dell'ebraismo americano (e ne torneremo a trattare più avanti) e
dei loro appelli "tear-jerking" sulla condizione degli ebrei dell'est
Europa, vittime di privazioni e di scarsità di generi alimentari. Si trattava
naturalmente di carestie auto-generate dallo stesso fallimentare sistema
economico messo in atto dal bolscevismo nella sua folle guerra alla cd.
controrivoluzione e allo Stato borghese. Raccolta fondi, crediti e finanziamenti
furono allora messi a disposizione di Lenin dai banchieri ebrei americani per
supportare il sistema comunista già in difficoltà agli albori della sua
esistenza. E mentre la restante popolazione russa pativa la fame o soffriva per
la repressione e la persecuzione del periodo del Terrore Rosso, durante la
terribile carestia degli anni 1921-1922, l'American Relief Administration
forniva agli ebrei - che avevano occupato i sontuosi appartamenti siti nei
palazzi dell'aristocrazia dell'epoca zarista - provvidenziali pacchi dono di
generi alimentari a base di "caviale, formaggi, burro, storione affumicato [...] e
nella loro scuola modello, la mensa [...] serviva
colazioni americane: riso al latte, cioccolata calda, pane bianco e uova al
tegame". Quei condomini di lusso "con tutto il fior fiore sovietico"
erano stati il frutto della trasformazione di edifici celebri quale l'Hotel
Nazionale (divenuto Prima Casa dei Soviet), dove alloggiavano solo ebrei, o al
Metropoli (Seconda Casa dei Soviet) o addirittura nel Seminario di Via
Bojedomski (Terza Casa dei Soviet) e nei palazzi di Via Mokhovaia/Vodzvijenka
(Quarta Casa dei Soviet) e di Via Cheremetievski (Quinta Casa dei Soviet).[49] Secondo
quanto riportano alcuni autori dell'antologia La
Russia e gli Ebrei, grande
fu "la partecipazione zelante degli ebrei al martirio imposto a una Russia
esangue dai bolscevichi".[50] La
repressione attuata subito dopo il colpo di Stato di ottobre fu durissima e
sanguinosa. La parola d'ordine era reprimere ed eliminare fisicamente ogni
resistenza, un vero e proprio olocausto perpetrato contro il popolo russo. Nei
tre anni di guerra civile che insanguinò la Russia, massiccia fu la «partecipazione
degli ebrei all'amministrazione bolscevica e alle atrocità da essa commesse. [...] Nel
febbraio 1921, ci furono a Mosca scioperi operai con la parola d'ordine:
"Abbasso i comunisti e gli ebrei"».[51] Operai,
contadini, artigiani, giovani, donne, vecchi furono l'inumano bersaglio della
polizia politica segreta, la famigerata Vetceka (per contrazione Ceka, che nel
1922 fu soppiantata dall'altrettanto famigerata Ghepeù, e poi nel 1934
trasformata in NKVD) durante il periodo del Terrore Rosso.
Solgenitsin
riporta alcuni passi significativi dell'opera dello storico e pubblicista Sergei
Petrovich Melgunov, Il Terrore
Rosso in Russia 1918-1923[52].
Autore contemporaneo degli avvenimenti da lui descritti, Melgunov documenta
tutta la potenza distruttiva del bolscevismo comunista: «Non
si trattava più di guerra civile, ma dell'annientamento di chi era stato nemico. [...] Si
prendono i prigionieri a gruppi interi per fucilarli tutti [...] A
colpi di mitragliatrice, essendo le vittime troppo numerose per fucilarle una ad
una; si mettono a morte ragazzi di 15-16 anni e vecchi di 60 anni e più. [...] I
villaggi dei cosacchi e i borghi che danno rifugio ai Bianchi e ai Verdi [gli
anticomunisti] saranno distrutti,
tutta la popolazione adulta fucilata, tutti i beni confiscati. [...] La
Crimea fu soprannominata il ‘cimitero panrusso’. [...] A
Sebastopoli non ci si accontentava di passare per le armi, si impiccava, e non a
decine, ma a centinaia; la prospettiva Nakhimov rigurgitava di impiccati [...] arrestati
per strada e giustiziati senza processo». Secondo il ricercatore storico L.
Iu. Kritchevski, che nel 1999 fu uno dei coautori dell'opera Gli
ebrei nell'apparato della Vetceka-Oguepeu negli anni Venti, citato da
Solgenitsin, scrive: «tra i giudici istruttori incaricati della lotta con la
controrivoluzione - di gran lunga la sezione più importante nelle strutture
della Vetceka - la metà era composta da ebrei».[53]
La violenta e sanguinaria repressione cekista contro il popolo
russo (commercianti, operai, contadini), spesso comandata da ebrei al vertice di
questa struttura poliziesca (si veda l'elenco dei cekisti ebrei pubblicato dall'Enciclopedia
giudaica russa riportato nel tomo
II dell'opera di Solgenitsin alle pp. 156-158), manifestò tutta la sua furia
omicida colpendo persino alcuni stessi ebrei colpevoli di non aver ottemperato
alle direttive emanate dal governo bolscevico. Così, ad esempio, «un
commerciante (chiamato Iuckevic), nel distretto di Maloarkhanghelsk, per
non aver pagato le imposte, è stato messo da un distaccamento comunista sulla
piastra di una stufa portata a incandescenza. Nella stessa regione, i contadini
che non avevano aderito alle requisizioni forzate furono sottoposti a immersioni
prolungate in pozzi dove li si faceva scendere all'estremità di una corda, se
non addirittura ancora, per il mancato pagamento dell'imposta rivoluzionaria, si
trasformava la gente in statue di ghiaccio (sistema adoperato da chi si mostrava
più inventivo nella repressione)». L'adesione
e l'allineamento della comunità ebraica alla nuova fede bolscevica determinò la
scelta di restare nel Paese e di non fuggire dal marasma della guerra civile, in
cui gli ebrei erano inevitabilmente associati dagli anticomunisti al bolscevismo
trionfante.
Scrive G. A. Landau nella già citata antologia La
Russia e gli Ebrei:
«Siamo stati afferrati da ciò che ci si attendeva di trovare meno in ambito
ebraico - dalla crudeltà, il sadismo, la violenza che sembravano essere estranei
a un popolo distante da ogni via guerriera; quelli che, ieri, ancora non
sapevano maneggiare il fucile, si sono allora ritrovati nel novero dei
tagliagole e dei carnefici».[54] Tra
questi, primeggiavano per zelo criminale Rebecca Plastinina-Maizel, «famosa
per la sua crudeltà nel nord della Russia [...] bucava
le nuche e le fronti; di propria mano ha fucilato più di cento persone. O,
ancora, quel Bak che, per la sua giovane età e la sua crudeltà, era
soprannominato il ‘garzone del macellaio’». Così nella durissima repressione
dei contadini di Tambov, nella Russia centrale, messa in atto dal comitato
regionale locale, i responsabili erano in buona parte ebrei: Raivid, Pinson,
Eidman, Schlikhter, Goldin, Levin, Margulin (quest'ultimo si era distinto in
particolare per la fustigazione dei "contadini recalcitranti" e
per l'impegno nelle condanne capitali). Emblematico resta l'episodio di Kiev del
1919 dove la Ceka locale aveva allestito un capannone adibito alle esecuzioni.
In quest'ambiente «il boia faceva entrare la sua vittima completamente nuda e
le ordinava di mettersi bocconi, poi, con un colpo di pistola alla nuca, lo
giustiziava. Le esecuzioni avvenivano a colpi di revolver [...] La
vittima successiva era condotta allo stesso modo e si allungava accanto [...] Quando
il numero delle vittime superava [...] le
capacità del capannone, le nuove vittime erano sistemate sopra i corpi di quelli
che erano stati uccisi precedentemente, oppure erano giustiziate all'ingresso
del capannone». Solgenitsin ricorda che gli appartenenti alla commissione
cekista di Kiev, che decideva la sorte degli arrestati, erano in numero di
venti. Quattordici erano ebrei. [55]
Con l'ascesa
di Stalin, fino all'epoca della famigerata purga degli anni 1937/1938 in cui
anche molti notabili ebrei caddero vittime della repressione (non si trattò
comunque di «un'offensiva contro gli ebrei sul piano della loro nazionalità:
gli ebrei sono finiti nel tritatutto perché occupavano in gran numero posti
eminenti»[56]), la
nomenclatura ebraica all'interno dell'apparato dirigenziale comunista continuò
ad alimentare il motore della dittatura sovietica. In occasione dell'VIII
Congresso dei Soviet del 1936, Stalin rilasciò la seguente caramellosa e
significante dichiarazione in favore degli ebrei, letta dal suo portavoce
Molotov: «I nostri sentimenti fraterni nei confronti del popolo ebreo
derivano dal fatto che questo popolo ha dato alla luce il genio che ha concepito
l'idea della liberazione comunista dell'umanità - Karl Marx - dal fatto che il
popolo ebreo, al pari delle nazioni più sviluppate, ha dato al mondo uomini
eminenti negli ambiti della scienza, della tecnica e delle arti, eroi valorosi
della lotta rivoluzionaria [...] e
nel nostro paese ha promosso e promuove sempre nuovi dirigenti e organizzatori
notevoli che esercitano i loro talenti in tutti i rami dell'edificazione e della
difesa della causa del socialismo».[57]
La
letteratura olocaustica del Novecento
Certamente non
si può spiegare l'arcano dei sei milioni dell'articolo del Glynn, dal quale
siamo partiti per la nostra ricerca, liquidando il tutto con la semplice e
puerile affermazione che si tratterebbe soltanto di una "straordinaria
coincidenza e nulla di più" («remarkable coincidence and nothing more»[58]).
Non lo si può sostenere unicamente perché dietro tali formule e citazioni,
dietro questo progetto catastrofista (olocausto, persecuzione, sterminio degli
ebrei, o di indicazioni di cifre: 5/6/7 milioni e via dicendo) c'è, come abbiamo
in parte già avuto modo di constatare, un'incredibile vasta letteratura
precedente, che inizia già agli albori del XX secolo e prende consistenza
soprattutto negli anni a cavallo tra lo scoppio della I Guerra Mondiale e quelli
successivi all'iniquo trattato di pace di Versailles, con un'acme parossistica
nel 1926.
Articoli,
dichiarazioni, libri, atti ufficiali dell'American Jewish Congress e
dell'American Jewish Committee che provano, in maniera inconfutabile, non solo
quanto vasta e soffocante fosse l'influenza esercitata sui governi e sulla
politica estera americana dalle potenti e ricche lobby ebraico-sioniste
(industriali, bancarie, finanziarie) statunitensi e internazionali (Engelman,
Warburg, Marshall, Schiff, Lowenstein, Morgenthau, Lehman, Rothschild, Kuhn &
Loeb, Wise, Ochs, Sulzberger, Weizmann), alcuni membri delle quali esercitarono
in prima persona importanti incarichi di potere all'interno dell'amministrazione
americana, bensì anche quali dimensioni e condizionamenti sulla società
statunitense ebbero la pressante opera di propaganda e le campagne di raccolta
fondi (buona parte di essi servirono poi per interventi economici in terra
palestinese sui quali si impiantò il primo nucleo del cosiddetto "focolare"
ebraico) a favore delle comunità ebraiche, soprattutto dell'Europa dell'Est, con
lo scopo di promuovere «the physical saving of millions of Eastern European
Jews»[59] e
di fornire aiuti diretti ai «sei o sette milioni di ebrei sofferenti»
nelle zone dove si combatteva la I Guerra Mondiale, in particolare in Polonia,
Russia e Galizia.[60] Come
scrive acutamente Eugene Michael Jones, in uno dei suoi numerosissimi saggi sul
rapporto a senso unico tra cattolicesimo ed ebraismo, proprio riguardo alla
"conquista" dell'America da parte del giudaismo: «La storia ha inizio nel
1880, quando circa due milioni di ebrei abbandonano il territorio russo ed
emigrano negli Stati Uniti. [...] Quando
gli ebrei cominciarono ad arrivare, l'America era protestante; entro la fine del
XX secolo l'America era stata "ebraicizzata", anche se gli ebrei erano meno del
2% della popolazione totale degli Stati Uniti».[61]
L'American
Jewish Congress, fondato nel 1918, ebbe in origine lo scopo «di provvedere
agli aiuti umanitari in favore degli ebrei europei che avevano sofferto nella
carneficina della guerra e alla ricostituzione dello Stato di Israele in
Palestina».[62] E
su quest'ultima questione ci sembrano particolarmente importanti le
dichiarazioni di due eminenti esponenti del giudaismo sionista. La prima,
pronunciata dal rabbino Stephen S. Wise, eminente personaggio dell'American
Jewish Congress, nel suo incontro col presidente Wilson, asseriva che «la
riedificazione di Sion sarebbe valsa come riparazione di tutta la cristianità
per i torti subiti dagli ebrei».[63] La
seconda è attribuita agli inizi degli anni '20 a Chaim Weizmann, presidente del
comitato dei sionisti britannici, il quale affermava con grande spocchia e
lungimiranza che la Palestina sarebbe diventata «ebraica come l'Inghilterra è
inglese».[64]
Argomenti di straordinaria importanza che, a dispetto di una storiografia
"ufficiale" omertosa e spesso taciturna, sono stati trattati nel magistrale e
molto ben documentato saggio di Don Heddesheimer, dal titolo The
first Holocaust, già citato a nota 40.
Ha ragioni da
vendere l'autore del volume in questione quando afferma che: «la storia
dell'olocausto di sei milioni e passa di ebrei non ha avuto origine con la II
Guerra Mondiale. Infatti, una sceneggiatura molto simile a quella, anche se in
qualche modo meno appariscente, è stata sviluppata proprio durante il I
conflitto mondiale e nel periodo immediatamente successivo. Dopo
la I Guerra Mondiale furono fatte circolare notizie che tra i cinque e i sei
milioni di ebrei in Europa si erano ammalati o stavano morendo in una sorta di
olocausto della fame, o a causa di epidemie terribili, o ancora per una malevola
persecuzione. Il seguito si concentrerà specialmente sulle manifestazioni che
durante la I Guerra Mondiale saranno promosse per la raccolta di fondi. Queste
campagne mirate, organizzate dai maggiori gruppi ebraici di supporto, possono,
già di per sé, fornire sia un significato storico sia essere associate
all'industria dell'olocausto post II Guerra Mondiale. Il termine "olocausto"
appartiene dunque alla I Guerra Mondiale e fu utilizzato durante e dopo la I
Guerra Mondiale per descrivere cosa stava accadendo in Europa e ciò che
presumibilmente accadde agli ebrei europei durante e dopo quel conflitto. E
mentre le storie che si raccontano oggi sono conosciute come "L'olocausto",
durante e persino nei decenni successivi la II Guerra Mondiale non furono mai
apostrofate con tale termine. La parola "olocausto" fu utilizzata durante e dopo
il primo conflitto mondiale, un conflitto paragonato per l'appunto a un
olocausto e denominato anche la più grande tragedia e la più grande miseria che
il mondo abbia mai conosciuto».[65]
L'autore riporta una serie cospicua di esempi, una documentazione rigorosa e
incontrovertibile (tra cui il pezzo in questione dell'ex governatore Glynn
oggetto del nostro articolo) che dimostra che, assai prima del cd. "Processo di
Norimberga" sui crimini del Nazionalsocialismo, la cifra di sei milioni di ebrei
fu utilizzata dalla propaganda ebraico-sionista durante il primo conflitto
mondiale e negli anni seguenti.
Maurizio
Blondet, nel suo articolo I sei
milioni di prima, a proposito di questo computo di vittime ebraiche, cita il
Congresso Sionista Mondiale del 1911, in cui Max Nordau - riguardo alla
situazione in Germania dove gli ebrei tedeschi, molto ben inseriti e integrati
nella loro realtà nazionale, erano contrari alla soluzione sionista - affermava:
«Questi governi così solleciti del diritto, così nobilmente e
industriosamente attivi nel preparare la pace universale, stanno preparando il
completo annichilimento di sei milioni di persone». Commenta Blondet: «Sei
milioni. Nordau già prevedeva l'esatto numero di sei milioni nel 1911».[66] In
realtà l'affermazione di Nordau giunge tardiva rispetto alla stupefacente
preveggenza del rabbino Stephen Wise. Infatti, in occasione di un raduno
sionista del 1900, il religioso ebreo dichiarava al N.Y. Times: «ci sono 6
milioni di argomenti viventi, sanguinanti e sofferenti a favore del sionismo».[67]
Tale
propaganda dipingeva la condizione di estremo pericolo in cui si trovavano gli
ebrei d'Europa, ai limiti del totale annientamento, e utilizzava parole chiave
come "sterminio", "olocausto" e la cifra di "sei milioni", divenuta oggi verità
assoluta e tabù sacro. Parallelamente, come abbiamo già detto, si promuovevano
grandi manifestazioni a sostegno della raccolta di fondi in funzione umanitaria,
somme (abbiamo visto l'appello del Glynn per la raccolta di 35 milioni di
dollari) che in parte erano veicolate anche ad esempio per sovvenzionare colonie
agricole ebraiche nella Russia sovietica. Come precisa Don Heddesheimer: «La
Joint Distribution Committee iniziò a finanziare gli insediamenti agricoli
ebraico-sovietici in Ucraina e in Crimea. Alcuni di questi insediamenti, fondati
dall'Agro-Joint, erano colonie sioniste abitate da persone che consideravano la
Crimea prima tappa sulla strada verso la Palestina. Tredici di queste colonie
avevano nomi ebraici. [...] Nel
1928 la Crimea contava ben 112 colonie fondate e operanti grazie alle generose
sovvenzioni della JDC. Dato che il governo sovietico reputava che gli ebrei
erano stati in precedenza un'etnia perseguitata e oppressa, conformemente allo
schema di autonomie adottato dal nuovo governo sovietico, furono riconosciuti in
queste regioni distretti autonomi retti dalla comunità ebraica. Scuole, collegi,
tribunali, forze di polizia e il loro intero apparato di governo furono retti in
lingua yiddish [...] Nella
primavera del 1927 Felix Warburg [principale
finanziatore, assieme a Rothschild, di tali insediamenti n.d.r.] visita
l'Unione Sovietica, viaggiando da Vladivostok a Mosca e affermando di aver
visitato 40 colonie Agro-Joint in Crimea e Ucraina. [...] Pose
anche la prima pietra per l'erezione di un edificio scolastico a suo nome».
Al suo ritorno in America, in una manifestazione promossa a Chicago per
raccogliere fondi disse: «[...] In
nessun paese che abbiamo visitato non siamo mai stati così liberi da formalità e
non ci è stata mai concessa libertà assoluta come in Russia. [...] Il
nostro lavoro in Russia è stato di grande successo, non soltanto dal punto di
vista sentimentale ma anche dal punto di vista finanziario».[68] E
talmente influente e potente fu l'Agro-Joint delle
colonie ebraiche sovietiche che, agli inizi degli anni Trenta, allorquando fu
introdotta la collettivizzazione forzata, tale organizzazione intervenne presso
il governo e il partito comunista locali, ottenendo la modifica alle restrizioni
di legge e l'esonero dalla sua applicazione alle stesse colonie ebraiche[69].
Accuse contro la Joint Distribution Committee d'impieghi impropri di tali fondi
in Polonia, mosse da alcuni stessi esponenti del giudaismo, furono subito
criticate e tacitate dai rappresentanti della cupola dell'ebraismo americano (in
particolare Louis Marshall e Felix Warburg, il ricco banchiere repubblicano,
considerato fra i dieci ebrei più in vista e influenti degli Stati Uniti), dalla
stampa sionista e dalla sua quinta colonna: il N.Y.
Times.
In queste
campagne propagandistiche a favore del giudaismo, che ebbero grande sviluppo e
risonanza soprattutto nel 1926, furono coinvolti anche i cristiani d'America.
L'American Christian Fund aveva, infatti, inviato una lettera a 150.000 leader
cristiani americani informandoli che cinque
milioni di ebrei dell'Europa
centro-orientale correvano il rischio di morire di fame. Anche in questo caso
gli estensori del messaggio sfruttavano all'unisono, mutuandolo dai loro
suggeritori sionisti, l'immaginario apocalittico: "Dal 1914 i Quattro
Cavalieri dell'Apocalisse hanno cavalcato sinistramente su metà della
popolazione ebraica che nella guerra mondiale aveva subito peste, fame e morte".[70]
Grancassa
principale della propaganda giudaico-sionista per la raccolta fondi fu, senza
dubbio, il New York Times. Stiamo parlando del giornale più famoso d'America che
nel 1896 fu acquistato dal ricco magnate ebreo Adolph Ochs, in prima linea nella
battaglia pro Sion.[71].
In un editoriale del quotidiano suddetto del 6 dicembre 1926 è riportata la
notizia del raggiungimento di quota 62 milioni di dollari della campagna
raccolta fondi, e di una nuova colletta in atto che avrebbe dovuto "racimolare"
altri 25 milioni di dollari.
Più che
giustificati e razionali a questo punto ci sembrano gli interrogativi posti
dallo Heddesheimer: «le storie olocaustiche del 1926 si sono sviluppate dalle
precedenti campagne di raccolta fondi?; tutto ciò faceva forse parte di una
sorta di tradizione di tipo caritatevole?; questi appelli fortemente emotivi,
che giocavano un ruolo determinante sulle paure o forse anche sulla spiritualità
della gente, erano appositamente ideati per raccogliere grandi quantità di
denaro?» Iniziative
caritatevoli che, come afferma lo stesso autore, «erano gestite da banchieri
internazionali, che avevano anche finanziato guerre, rivoluzioni e ferrovie».[72]
I
sei milioni di dopo
La
riproposizione della tematica catastrofistica, potenziata dalla lunga esperienza
dell'abbondante trentennio precedente, tornerà in auge, in maniera ancora più
incisiva e in perfetta sincronia con gli interessi geopolitici di Francia e Gran
Bretagna, alcuni anni dopo il conferimento in Germania dell'incarico di
cancelliere ad Adolf Hitler. Ma già nel marzo del 1933, dopo poco più di un mese
dall'insediamento del nuovo governo tedesco, il giudaismo internazionale, sotto
la guida del già citato Chaim Weizmann, divenuto presidente della World Zionist
Organization, e dietro l'impulso del procuratore di New York Samuel Untermeyer,
dichiarava guerra alla Germania (l'edizione del Daily Express del 24 marzo 1933
titolava in prima pagina: Judea
declares war on Germany). Ciò avveniva prima che il governo tedesco, guidato
dal nuovo cancelliere, adottasse misure restrittive di severa e pesante
ritorsione e persecuzione contro gli ebrei, e nonostante i leader ebraici
tedeschi avessero espresso le loro perplessità sulla posizione intransigente
dell'ebraismo mondiale e consigliassero prudenza e avvedutezza nelle relazioni
col nuovo governo presieduto dal Cancelliere Hitler. Anche perché, sin dal 1933,
ottime erano le relazioni e la collaborazione tra gli ebrei antisionisti guidati
da Max Naumann, fondatore della "Lega degli Ebrei Nazionali Tedeschi", e il
governo nazionalsocialista[73].
Poco o quasi nulla conosce il grande pubblico, grazie all'omertosa storiografia
"ufficiale" (fortemente in imbarazzo di fronte ad una verità così scomoda),
sull'Accordo-Haavara (Haavara-Abkommen) che contemplava il trasferimento (in
ebraico ha'abhârâh) in massa
degli ebrei tedeschi in Palestina; accordo stipulato - si noti bene la data - il
28 agosto 1933 tra Ministero dell'Economia del Reich e l'Agenzia ebraica per la
Palestina. In sostanza, come ha evidenziato lo studioso Guido Raimund, in un suo
articolo sulla rivista storica The
Barnes Review: «the
unknown founding father of the state of Israel is none other than Adolf Hitler».[74] E
tale affermazione è avvalorata da un'autorevole voce dell'ebraismo: Martin
Mordechai Buber, filosofo,
teologo e pedagogista austriaco naturalizzato israeliano[75]:
«Questa
fase organica di insediamento in Palestina è durata fino all'epoca di Hitler. È
stato Hitler che ha spinto in Palestina delle masse di ebrei e non un'élite che
venisse a svolgervi la propria vita e a preparare l'avvenire. Così, ad uno
sviluppo organico selettivo è seguita una immigrazione di massa con la necessità
di trovare una forza politica che difendesse la sua sicurezza [...] la
maggior parte degli ebrei ha preferito imparare da Hitler e non da noi [...]».[76]
Ma, al di là
di quella che potremmo definire un'iperbole storica, anche se veritiera nella
sostanza, va anche ricordato, sempre a onore della verità e contro le reticenze
e le volute omissioni degli storici e accademici embedded, che già dal 1934,
sulla nota questione del "focolare ebraico", circolavano proposte indirizzate ai
responsabili del sionismo come alternativa alla Palestina, quali il Madagascar o
l'est europeo. Ciò a seguito delle mutate situazioni geopolitiche e militari
concretizzatesi subito dopo l'occupazione della Francia[77] e
l'avanzata dilagante nell'est europeo delle truppe germaniche[78].
D'altra parte l'allontanamento degli Ebrei dalla Germania era stato «il
principio ispiratore del programma politico nazionalsocialista e della sua
dottrina razziale». Lo si evince in modo inequivocabile dal discorso di
Monaco del 1920, "Perché siamo antisemiti?", in cui Hitler dichiarava
espressamente che «la conoscenza scientifica dell'antisemitismo doveva
tradursi in azione per condurre all'allontanamento degli ebrei dal nostro popolo (Entfernung
der Juden aus unserem Volke)».[79]
Chi propose
tale "soluzione finale territoriale" del problema ebraico fu, dunque,
proprio il regime nazionalsocialista, per volontà del suo capo. Proposte che non
piacquero ai responsabili del sionismo (come abbiamo visto la Palestina era
divenuta la meta irrinunciabile per la fondazione dello stato sionista), allora
in stretto contatto e collaborazione col regime hitleriano, e che optarono
fermamente per l'occupazione della Palestina[80].
Nonostante la Germania hitleriana si fosse prodigata in tutti i modi
(assistenziali, economici e finanziari) per promuovere l'emigrazione degli ebrei
anche verso le democrazie europee, tuttavia tale soluzione trovò notevoli
ostacoli proprio da parte di questi Stati, che non gradivano ospitare entro i
loro confini gli ebrei perseguitati.
La famosa
conferenza di Evian, che ebbe luogo dal 6 al 15 luglio del 1938, su iniziativa
del presidente americano Roosevelt per sostenere l'emigrazione degli ebrei
perseguitati, fu un vero fallimento. Precisa a tal proposito Carlo Mattogno: «La
difficoltà maggiore fu indubbiamente il malcelato antisemitismo dei paesi
democratici, i quali, se da un lato alzavano alte grida contro la persecuzione
ebraica da parte nazionalsocialista, dall'altro si rifiutavano di accogliere gli
ebrei perseguitati». Tanto che il gerarca nazionalsocialista Joseph
Goebbels, alcuni anni dopo, commentava tale fallimento in termini beffardi: «Quale
sarà la soluzione del problema ebraico? Si creerà un giorno uno Stato ebraico in
qualche parte del mondo? Lo si saprà a suo tempo. Ma è interessante notare che i
paesi la cui opinione pubblica si agita in favore degli Ebrei, rifiutano
costantemente di accoglierli. Dicono che sono i pionieri della civiltà, che sono
i geni della filosofia e della creazione artistica, ma quando si chiede loro di
accettare questi geni, chiudono loro le frontiere e dicono che non sanno che
farsene. È un caso unico nella storia questo rifiuto di accogliere in casa
propria dei geni»[81]
L'inasprimento dei toni da crociata contro la Germania e le minacce di
boicottaggio della sua economia ebbero un'impennata nel luglio del 1933, in
occasione della conferenza mondiale ebraica tenutasi in quell'anno ad Amsterdam.
Un ultimatum diretto ai tedeschi fu lanciato dal palco del meeting ebraico: «Mandate
via Hitler, rimettete ogni ebreo nella posizione che aveva, sia comunista o no.
Non potete trattarci in questo modo. Noi, gli ebrei del mondo, lanciamo un
ultimatum contro di voi» E
fu proprio il succitato avv. Untermeyer, capo delegazione degli ebrei americani
e presidente della stessa conferenza, a rincarare la dose e a tuonare, al suo
ritorno negli USA dai microfoni della CBS, che la mobilitazione giudaica doveva
essere considerata una "guerra santa" contro la Germania: «Gli
ebrei del mondo dichiarano ora la Guerra Santa contro la Germania. Siamo ora
impegnati in un conflitto sacro contro i tedeschi. Li piegheremo con la fame.
Useremo contro di essi il boicottaggio mondiale. Così li distruggeremo, perché
la loro economia dipende dalle esportazioni».
Tale testimonianza riportata nel capitolo 22 del libro di Maurizio Blondet
(citato a nota 82), dal titolo "Così parlò Benjamin Freedman", non
provengono da un antisemita ma da un ebreo di New York, Benjamin Harrison
Freedman. Le diffuse in occasione del suo discorso «nel 1961, al Willard
Hotel di Washington ad un’influente platea, riunita dal giornale americano
Common Sense». Chi era Benjamin Harrison Freedman (1890-1984)? Ecco il suo
biglietto da visita: «Uomo d’affari di successo (era il proprietario della
Woodbury Soap Co.), ebreo di New York [poi
convertitosi al Cristianesimo, n.d.r.], patriota americano, Benjamin Freedman
- che era stato membro della delegazione americana al Congresso di Versailles
nel 1919 - ruppe con l’ebraismo organizzato e i circoli sionisti dopo il 1945,
accusandoli di aver favorito la vittoria del comunismo in Russia. Da quel
momento, dedicò la vita e le sue ragguardevoli fortune (2,5 milioni di dollari
di allora) a combattere e denunciare le trame dei suoi correligionari [...] Freedman
fondò tra l’altro la "Lega per la pace con giustizia in Palestina", e collaborò
con l’americano "Istituto per la revisione storica", il centro promotore di
tutto ciò che viene chiamato "revisionismo storico"».[83]
Nel
suo appassionato discorso denunciò, dapprima, lo scatenamento della I guerra
mondiale contro la Germania, su istigazione dei sionisti tedeschi, in cambio
della Palestina: «In questo frangente, i sionisti tedeschi che
rappresentavano il sionismo dell'Europa Orientale, presero contatto col
Gabinetto di guerra britannico - la faccio breve perché, è una lunga storia, ma
ho i documenti che provano tutto ciò che dico - e dicono: "potete ancora vincere
la guerra. Non avete bisogno di cedere [nel
1916 la Germania stava vincendo la guerra e aveva offerto all'Inghilterra in
difficoltà un negoziato di pace, n.d.r.]. Potete
vincere se gli Stati Uniti intervengono al vostro fianco". Gli Stati Uniti non
erano in guerra allora. [...] Essi
dissero all’Inghilterra: "Noi siamo in grado di portare gli Stati Uniti in
guerra come vostro alleato, per battersi al vostro fianco, se solo ci promettete
la Palestina dopo la guerra" [...] É
assolutamente assurdo che la Gran Bretagna, che non aveva mai avuto alcun
interesse o collegamento con quella che oggi chiamiamo Palestina, potesse
prometterla come moneta in cambio dell’intervento americano. Tuttavia, fecero
questa promessa, nell’ottobre 1916. E
poco dopo - non so se qualcuno di voi lo ricorda - gli Stati Uniti, che erano
quasi totalmente pro-germanici, entrarono in guerra come alleati della Gran
Bretagna. Dico che gli Stati Uniti erano quasi totalmente filotedeschi perché i
giornali qui erano controllati dagli ebrei, dai nostri banchieri ebrei - tutti i
mezzi di comunicazione di massa - e gli ebrei erano filotedeschi. Perché molti
di loro provenivano dalla Germania, e anche volevano vedere la Germania
rovesciare lo zar; non volevano che la Russia vincesse. Questi banchieri ebrei
tedeschi, come Kuhn Loeb e delle altre banche d'affari negli Stati Uniti,
avevano rifiutato di finanziare la Francia o l'Inghilterra anche con un solo
dollaro. Dicevano: "finché l'Inghilterra è alleata alla Russia, nemmeno un
centesimo!". Invece finanziavano la Germania; si battevano con la Germania
contro la Russia. Ora, questi stessi ebrei, quando videro la possibilità di
ottenere la Palestina, andarono in Inghilterra e fecero l'accordo che ho detto.
Tutto cambiò di colpo, come un semaforo che passa dal rosso al verde. Dove i
giornali erano filotedeschi, [...] di
colpo, la Germania non era più buona. Erano i cattivi. Erano gli Unni. Sparavano
sulle crocerossine. Tagliavano le mani ai bambini. Poco dopo mister Wilson
dichiarava guerra alla Germania. [...] Appena
noi entrammo in guerra, i sionisti andarono dalla Gran Bretagna e dissero:
"bene, noi abbiamo compiuto la nostra parte del patto. Metteteci qualcosa per
iscritto come prova che ci darete la Palestina". [...] Questa
fu chiamata la Dichiarazione Balfour».[84]
Tornando agli anni Trenta, Freedman completò il discorso con dettagli ben
documentati, anche come testimone diretto di molti degli avvenimenti da lui
trattati, essendo stato un personaggio di rilievo nella società americana («ero
l’ufficiale di Henry Morgenthau Sr. nella campagna del 1912 in cui il presidente
Wilson fu eletto. Ero l’uomo di fiducia di Henry Morgenthau Sr., che presiedeva
la Commissione Finanze, ed io ero il collegamento tra lui e Rollo Wells, il
tesoriere»)
In
riferimento alle affermazioni di Untermeyer precisò: «Ora in quella
dichiarazione, che io ho qui e che fu pubblicata sul New York Times del 7 agosto
1933, Samuel Untermeyer dichiarò audacemente che "questo boicottaggio economico
è il nostro mezzo di autodifesa". [...] gli
ebrei del mondo intero boicottarono la Germania, e il boicottaggio fu così
efficace che non potevi più trovare nulla nel mondo con la scritta ‘Made in
Germany’. Un dirigente della
Woolworth Co. mi raccontò allora che avevano dovuto buttare via milioni di
dollari di vasellame tedesco; perché i negozi erano boicottati se vi si trovava
un piatto con la scritta ‘Made in Germany’; vi formavano davanti dei picchetti
con cartelli che dicevano ‘Hitler assassino’ e così via. In un magazzino Macy,
di proprietà di una famiglia ebraica, una donna trovò calze con la scritta ‘Made
in Germany’. Vidi io stesso il boicottaggio di Macy’s, con centinaia di persone
ammassate all’entrata con cartelli che dicevano ‘Assassini’, ‘Hitleriani’,
eccetera. Va notato che fino a quel momento in Germania non era stato torto un
capello sulla testa di un ebreo. Non c’era persecuzione, né fame, né assassini,
nulla. Ma naturalmente, adesso i tedeschi cominciarono a dire: "Chi sono questi
che ci boicottano, e mettono alla disoccupazione la nostra gente e paralizzano
le nostre industrie?" Così cominciarono a dipingere svastiche sulle vetrine dei
negozi di proprietà degli ebrei […] Ma
solo nel 1938, quando un giovane ebreo polacco entrò nell’ambasciata tedesca a
Parigi e sparò a un funzionario tedesco, solo allora i tedeschi cominciarono ad
essere duri con gli ebrei in Germania. Allora li vediamo spaccare le vetrine e
fare pestaggi per la strada. Io non amo usare la parola ‘antisemitismo’ perché
non ha senso, ma siccome ha un senso per voi, dovrò usarla».[85]
La
conseguenza di tale intransigenza da parte del giudaismo internazionale contro
la Germania l'ha ben evidenziata anche M. Raphael Johnson, in un suo saggio del
2001: «La
guerra economica dichiarata alla Germania dalla dirigenza ebraica non solo portò
a determinate ritorsioni da parte del governo tedesco ma mise le basi per
un’alleanza politico-economica poco conosciuta fra il regime di Hitler e i
leader del movimento sionista che speravano che le tensioni fra i tedeschi e gli
ebrei avrebbero portato ad una massiccia emigrazione verso la Palestina. In
breve, il risultato fu un’alleanza tattica fra i nazisti e i fondatori
dell’odierno stato di Israele. Un evento che molti oggi preferirebbero venisse
dimenticato».[86]
Lo stesso
Untermeyer, in un'altra conferenza organizzata nel 1937 al Waldorf-Astoria di
New York disse con enfasi: «Un'intera nazione di più di tre milioni di anime
è minacciata di sterminio». Il tiro fu aggiustato l'anno seguente da Jacob
Tarshis, rappresentante dell'American Joint Distribution Committee, il quale
ripropose la cifra dei sei milioni di ebrei dell'Europa Centrale in pericolo di
vita e, facendo riferimento ad Hitler, affermò che era in reale pericolo «l'esistenza
di milioni di ebrei».[87]
Il
N.Y. Times, alla data del 9 gennaio 1938 - vale a dire dieci mesi prima della
famigerata Kristallnacht avvenuta
nella notte tra il 9 e il 10 novembre 1938 e che diede inizio alle persecuzioni
antiebraiche - titolava già a pag. 12: "Persecuted Jews seen on increase [...] 6.000.000
victims noted".
Due
anni dopo, siamo nel giugno del 1940, un nuovo accorato appello contro la
Germania, da parte del giudaismo internazionale, fu lanciato da Nahum Goldman,
presidente della commissione amministrativa del Congresso Ebraico Mondiale:
«Sei
milioni di ebrei sono destinati alla distruzione se la vittoria finale sarà del
Nazismo. [...] e gli ebrei
europei corrono il pericolo dell'annientamento fisico. Persino i quattro milioni
di ebrei sotto il governo sovietico, sebbene non siano sottoposti a
discriminazione razziale, non sono al sicuro da un'eventuale vittoria finale del
Nazismo».[88]
Chiosa
Heddesheimer a proposito delle varie raccolte di fondi correlate alla comparsa
per la prima volta del termine "olocausto": «esiste un modello di appelli
emotivi che giocano sulle paure della gente con lo scopo di incrementare le
raccolte di denaro. Essi avevano bisogno di crisi credibili per convincere i
donatori a contribuire con grandi somme di denaro. Erano i leader promotori di
questi appelli abbastanza calcolatori e senza scrupoli da inventare tali fatti? [...] Ritengo
che queste campagne di raccolta fondi, relative all'olocausto iniziale,
forniscano un importante indizio per risolvere il puzzle revisionistico».[89]
Conclusioni
I
riferimenti ai primi "olocausti", che abbiamo visto citati sin dagli albori del
Novecento, hanno ben presto lasciato il posto, nella memoria storica collettiva,
all'unico olocausto che tutti oggi conoscono, quello che viene imputato alla
Germania nazionalsocialista negli ultimi anni della II Guerra Mondiale. È noto
anche col termine improprio di Shoah, parola
ebraica che significa "sventura", "rovina", "catastrofe", tratta dal passo
biblico veterotestamentario di Isaia, 47,11.
Va subito
detto che, a iniziare dal secondo dopoguerra, di tale fenomeno si è occupata in
particolare la ricerca storica revisionistica, che ha indagato ab
imis tale questione, penetrando
nei suoi più reconditi aspetti e risvolti storico-scientifici, onde chiarire
molti dei suoi lati oscuri, delle sue incongruenze e, in parecchi casi, delle
sue semplicistiche e fuorvianti conclusioni. Autori più noti del revisionismo
storico-scientifico sono: Paul Rassinier [ex deportato a Buchenwald], David
Irving, Robert Faurisson, Fred Leuchter, Germar Rudolf, Ernst Zündel, Georges
Theil, Horst Mahler, A. Arthur Butz, Barbara Kulaszka, Ahmed Rami, Gerd Honsik,
Heinz Koppe, Serge Thion, Thies Christophersen[90],
Carlo Mattogno, Andrea Carancini (studioso del revisionismo) e il celebre
intellettuale francese, ex comunista e combattente nella resistenza, storico,
saggista e studioso di fama internazionale Roger Garaudy (1913-2012)[91],
per il quale, in Francia,
fu elegantemente "confezionata", nel luglio del 1990,
la famigerata legge Gayssot-Fabius. "Una legge che è un insulto a molte
libertà, da quella sulla ricerca storica a quella sulla libertà di pensiero; una
legge talmente collidente con il buonsenso e con le guarentigie fondanti di ogni
democrazia da essere osteggiata da uno schieramento che spacca in due il
parlamento francese. Votano contro questa legge Chirac, Toubon (futuro ministro
della Giustizia), Simone Weil e 182 parlamentari. [...] La
legge destinata a evirare la ricerca storica e a restringere la libertà di
pensiero viene presentata all'opinione pubblica alla stregua di un male
necessario per chiudere la bocca una volta per tutte agli antisemiti e ai
revisionisti bugiardi"[92] Dunque,
senza operare le necessarie distinzioni tra ricerca storica seria e becere
posizioni di fanatici distorsori e falsificatori della Storia stessa, i suoi
detrattori l'hanno tout court maldestramente e capziosamente tacciata di
"negazionismo". Ci sembra, a questo proposito, molto sensata e inappuntabile
l'osservazione del prof. Michele Ainis, ordinario di Istituzioni di Diritto
Pubblico presso l'Università di Roma Tre, espressa nella sua relazione al già
citato Convegno (vedi nota 91) di Teramo del 2007: "[...] una
verità imposta con tutti i crismi del diritto è una verità debole, che non crede
più in se stessa, nelle sue buone ragioni. E a sua volta una parola
anestetizzata impedisce per ciò stesso il dialogo, e in ultimo sopisce la forza
del pensiero".[93]
Molti dei
succitati autori revisionisti (docenti universitari, professionisti,
ricercatori, studiosi) hanno subìto e subiscono tuttora in Europa[94] feroci
persecuzioni legali ad opera di leggi liberticide appositamente varate, a
imitazione della Gayssot-Fabius, per reprimere il revisionismo storico (multe
salatissime, carcere e damnatio
memoriae)[95].
Stessi iniqui provvedimenti sono stati recentemente approvati anche in Italia
con la legge
16 giugno 2016, n. 115 -
dopo anni di aspre polemiche e di accesi dibattiti sulla libertà di pensiero,
pur nel ribadire la condanna morale di chi nega gli avvenimenti persecutori e
criminosi perpetrati contro gli ebrei durante l'ultimo conflitto mondiale - e
concepiti come "aggravanti" della legge Mancino.
Come ha
ricordato il sito Altalex[96],
a commento appunto della summenzionata
legge 115, già nel 2013 l'Unione delle Camere Penali Italiane aveva risposto con
il comunicato del 16 ottobre “Al negazionismo si risponde con le armi della
cultura non con quelle del diritto penale” e nel novembre successivo aveva
contestato i fautori della polizia del pensiero con l’appello “Contro il
reato di negazionismo”. Sagace affermazione, a questo riguardo, quella
dell'avvocato Vincenzo Bellucci, nel suo intervento al Convegno del 7 luglio
2008, "Le opinioni imbavagliate" (Centro Studi Ordine Avvocati di Roma): «È
interessante notare che "negazionismo" è etichetta applicata non da chi lo
professa, ma da chi vi si oppone (per la precisione: l'uno non intende tanto
negare, quanto discutere; l'altro intende inibire non tanto la negazione - che
non sempre c'è - quanto la discussione stessa)».[97] Altrettanto
perspicace è la precisazione fatta nel 2006 dalla Graphos Edizioni, in uno
scambio epistolare con la casa editrice Utet, a proposito del libro di Paul
Rassinier, La menzogna di Ulisse:
«egli [Rassinier, n.d.r.] si
è posto alle origini di un filone di ricerca [quello
per l'appunto del revisionismo storico, n.d.r.] del
quale si possono non condividere i risultati, ma non se ne può contestare la
legittimità sul piano dell’indagine storica».[98] Come
non ricordare, poi, la coraggiosa e caparbia battaglia per la libertà di
pensiero, d'insegnamento e di ricerca storica del prof. Claudio Moffa
dell'Università di Teramo. Nonostante la demonizzazione da lui subita dalle
stesse autorità accademiche e la solita e ridicola accusa di "antisemitismo", è
da anni che organizza e porta avanti, pur tra mille difficoltà e bastoni tra le
ruote, il benemerito Master Enrico Mattei (http://www.iem-red.it/) presso la
suddetta università, che vede la partecipazione a livello internazionale
d'insigni studiosi, docenti e ricercatori storici. Nel 2010 il docente fu
vilmente e falsamente accusato, per una sua lezione sulla Shoah, di vilipendio
alle vittime dell'olocausto, ma pienamente scagionato da tale falsa accusa dalla
Procura di Pescara con la seguente motivazione: «Dalla lettura degli atti
risulta certamente che la lezione del Prof. Moffa non contiene alcuna
affermazione lesiva delle vittime dell'olocausto e non effettua neppure alcuna
(pur eventualmente legittima, tanto più in sede didattica universitaria) opzione
ideologica, limitandosi a sottolineare a degli studenti di un corso di storia
l'importanza di un approccio critico a qualsiasi argomento, per "caldo" che
possa essere, anzi rappresentando che tanto più "sensibile" risulta un tema
storico, tanto maggiore è il pericolo che il "fatto" possa essere
strumentalizzato a vari fini e che dunque financo le fonti possano essere
manipolate. A parere della scrivente, per quanto qui possa rilevare, la lezione
tenuta dal Prof. Moffa appare pregevole e metodologicamente ineccepibile. PM
Cristina Tedeschini. Procura di Pescara».
L'altro fatto di grande rilievo è che anche
numerosi autori ebrei, insigni rappresentanti della cultura ebraica, hanno, in
molti casi, contestato la correlazione tra antisionismo e antisemitismo
sfruttata dalla lobby israeliana contro chi critica la politica razzista e
repressiva dello Stato ebraico contro il popolo palestinese, e difeso la libertà
di pensiero e di ricerca storica contro ogni legge liberticida che intende
invece imbavagliare tale diritto fondamentale in ogni democrazia che si
rispetti. Ricordiamo in particolare
Israel Shamir, scrittore e giornalista
israeliano, convinto difensore del revisionismo storico («[...] la
storia è stata consegnata alla custodia di sacri guardiani, per assicurare la
struttura e, in qualche modo, la continuità del potere»)[99]; Gerard
Menuhin, intellettuale tedesco di origine ebraica e convinto antisionista,
figlio del celebre violinista Yehudi Menuhin. Fece visita in carcere all'avv. Sylvia
Stolz, la professionista
tedesca che fu condannata a tre anni e mezzo di carcere in Germania per aver
esercitato la sua professione nella causa in cui difese lo storico revisionista
Ernst Zündel[100];
Gilad
Atzmon, scrittore e celebre musicista di jazz, di posizioni rigorosamente anti
sioniste; l'ebreo americano Noam Chomsky, insigne linguista e professore emerito
al Massachussetts Institute of Technology, che prese le difese di Robert
Faurisson nella prefazione al testo in cui lo storico francese rigettò le accuse
di falsificare la storia[101];
il già ricordato Norman Finkelstein, che nel suo bestseller internazionale ha
documentato "la strumentalizzazione della
‘nuova minaccia antisemita’ per giustificare l'attuale politica israeliana"
(vedi nota 7)
Da ultimo, non possiamo non citare e condividere
il pensiero di numerosi altri autori israeliani, citati da Solgenitsin, che
sulla tragedia ebraica hanno messo in guardia i loro stessi connazionali e
correligionari dall'uso strumentale ed enfatico della Shoah, anche in rapporto
con la storia dell'ebraismo in Russia: da Ben Baruch[102] a
Uri Avneri[103],
da Hannah Arendt a Mikhail Heifets[104].
A conclusione del discorso, ci sembrano, infine,
molto appropriate e valide, soprattutto in questa fase storica contemporanea, le
affermazioni della biologa, scrittrice e pubblicista ebrea russa Sonja Margolina
(dal 1986 residente a Berlino) contenute nel suo saggio, Das
Ende der Lügen (La fine delle
bugie), pubblicato nel 1992 a Berlino: «Il solido capitale morale accumulato
dagli ebrei dopo Auschwitz sembra esaurito, [gli
ebrei] non possono più
accontentarsi di imboccare i sentieri battuti delle lagnanze verso il resto del
mondo. Il mondo di oggi ha riscoperto il diritto di parlare con gli ebrei come
con tutti gli altri popoli; la lotta per i diritti degli ebrei non è più
progressista della lotta per i diritti degli altri popoli. É venuto il momento
di rompere lo specchio e di guardare dietro di sé: non ci siamo solo noi in
questo mondo».[]
Dunque, una lezione di
saggezza e di onestà intellettuale questa della dott.ssa Margolina; una lezione
che ci offre lo spunto per poter concludere che nella storia di ogni etnia, di
ogni popolo, di ogni comunità organizzata in Stato, nessun soggetto potrà
giammai dichiarare di essere stato immune dalla sindrome di Caino. Allo stesso
modo sembrano essere perfettamente appropriate alla tematica in questione le
parole di verità del Cristo rivolte agli Scribi e ai Farisei, nel famoso
episodio della lapidazione dell'adultera: «Chi tra voi è senza peccato, getti
per primo contro di lei la pietra» (Gv. 8, 7-8).
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