La dittatura perfetta avra´ la sembianza di una democrazia, una prigione senza muri nella quale i prigionieri non sogneranno mai di fuggire. Un sistema di schiavitu´ dove, grazie al consumo e al divertimento, gli schiavi ameranno la loro schiavitu´.
mercoledì 26 gennaio 2022
IL MIRACOLO ECONOMICO DEL REGIME FASCISTA
IL MIRACOLO ECONOMICO DEL REGIME
FASCISTA
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da BENITO MUSSOLINI, L'UOMO DELLA PACE - DALLA MARCIA SU ROMA ALL'ASSALTO
AL LATIFONDO. Cap. XXXV. Guido Mussolini e Filippo Giannini
"Sotto il dominio fascista, ci viene detto,
l’Italia subì un rapido sviluppo capitalista con l’elettrificazione
dell’intero paese, lo sviluppo e il fiorire delle industrie dell’automobile
e della seta, la creazione di un moderno sistema bancario, la prosperità
dell’agricoltura, la bonifica di notevoli aree agricole (...), la costruzione
di una larga rete di autostrade ecc. (...). Il rapido progresso dell’Italia
dopo la 2a guerra mondiale e il fatto che oggi è già in marcia
verso uno sviluppo intensivo capitalistico sarebbe impensabile senza i
processi sociali iniziati durante il periodo fascista". Così
Mihaly Vajda scrive in The Rise of Fascism in Italy and Germany. Può sembrare poco credibile, ma l’ulteriore
sferzata di dinamicità alla politica mussoliniana venne impartita
proprio per battere la "grande crisi". E i "meccanismi messi
in opera, per la fantasia istituzionale che questi dimostrarono, per il
successo complessivo da essi ottenuto" (Giuseppe Galasso). Si può dire che ampie aree della penisola
erano affogate in malsaniche paludi; chi era costretto a vivere in quelle
zone raramente superava il quarantesimo anno d’età. Queste aree
insalubri si estendevano dal Veneto all’Emilia-Romagna, dalla Maremma toscana
all’Agro Pontino, dalle pianure del Garigliano, del Volturno, del Sele
al Tavoliere delle Puglie e alla Basilicata, dalla Piana di Sibari alle
terre della Sila e del Neto. E così per la piana di Catania e per
il Campidano in Sardegna. Questa era la situazione del nostro territorio
sino a quando non vennero intraprese gigantesche opere di bonifica, di
trasformazione fondiaria, di risanamento del territorio. Così, quando negli anni Trenta tutto il mondo
era soggiogato dalla profonda crisi economica, in Italia ebbe inizio un’attività
frenetica i cui benefici si proietteranno nei decenni a venire. È impossibile elencare in poche pagine quanto
allora fu compiuto; ricorderemo solo alcune realizzazioni, ripromettendoci
di citarne altre in "appendice". Abbiamo già ricordato che nel primo dopoguerra
il ritorno dei combattenti fu caotico e deludente. Le riforme promesse,
quando i contadini erano al fronte, si rivelarono semplici parole. L’unica
concreta iniziativa governativa fu la creazione, nel 1917, dell’Opera Nazionale
Combattenti (ONC), concepita per facilitare l’inserimento nella vita civile
dei reduci. L’ONC fu, negli anni dell’immediato dopoguerra "solo uno
strumento di sottogoverno e ai braccianti disoccupati non restò
che occupare con la forza quella terra che, seppur promessa, sembrava impossibile
ottenere democraticamente" [6,445]. Il fascismo trovò anche tale questione irrisolta. Ci volle la saggia politica agraria ispirata e pilotata
da Arrigo Serpieri che promosse numerose leggi di carattere fondamentale,
tra le quali, le più importanti: la legge N° 3256 del 30/12/23,
sulla bonifica idraulica e della difesa del suolo; la legge N° 753
del 18/5/24 sulle trasformazioni agrarie di pubblico interesse. Serpieri venne eletto deputato al Parlamento nel
1924, incarico rinnovato fino al 1935 quando fu nominato Senatore del Regno
e capo della Commissione Agricoltura. Dal Senato fu epurato nel dopoguerra
dal Governo Bonomi perché fascista (45/4). Come Sottosegretario di Stato organizzò e
diresse i servizi per la prima applicazione della legge N° 3134 del
24/12/28 ("Legge Mussolini") per la "Bonifica integrale",
le cui opere vennero affidate all’ONC. Le prime bonifiche, con impianti idrovori per il
sollevamento delle acque, ebbero inizio nel basso Veneto e in Emilia. Nuova
terra venne posta al servizio dell’agricoltura e, con essa, si crearono
nuovi posti di lavoro.
Dal suolo bonificato sorgono irrigazioni, si costruiscono
strade, acquedotti, reti elettriche, opere edilizie, borghi rurali ed ogni
genere di infrastrutture. Con questa tecnica la bonifica di Serpieri va
ben al di là del semplice prosciugamento e diventa strumento di
progresso economico. Dalle Paludi Pontine sorsero "in tempi fascisti"
(così detti per indicare "in poco tempo") vere e proprie
città: Littoria, inaugurata il 18 dicembre 1932, Sabaudia (giudicata
uno dei più raffinati esempi di urbanistica razionale europea) il
15 aprile 1934; Pontinia, il 18 dicembre 1935; Aprilia, il 29 ottobre 1938;
Pomezia, il 29 ottobre 1939. Nell’Agro Pontino furono costruite ben 3040
case coloniche, 499 chilometri di strade, 205 chilometri di canali, 15.000
chilometri di scoline. Furono dissodati 41.600 ettari di terreno, furono
costruiti quattordici nuovi borghi che portano il nome delle principali
battaglie alle quali parteciparono i nostri fanti. La bonifica di Maccarese, nell’Agro romano, è
un’altra importante realtà: un’"azienda modello" agricolo-zootecnico-vivaistica,
sorse su oltre 5 mila ettari di terreni bonificati con centinaia di case,
campi sperimentali, caseifici, cantine sociali: tutto gestito da oltre
1500 lavoratori tecnici ecc. La "bonifica integrale" continuava senza
soste: quella dell’Isola Sacra a Roma, con la fondazione di Acilia e di
Ardea; quella dove poi sorgeranno Fertilia (Sassari), Mussolinia (oggi
Arborea-Oristano); quella del Campidano (Cagliari), quella di Metaponto
(Matera). E così le bonifiche si estenderanno in Campania, Puglie,
Calabria, Lucania, Sicilia, Dalmazia. Non possono essere dimenticate le grandi opere realizzate
in Somalia, Eritrea e in Libia; a solo titolo d’esempio citiamo il lavoro
svolto da Carlo Lattanzi che visse per oltre quarant’anni sulla "Quarta
Sponda". Si deve alla sua instancabile attività la bonifica
e la messa a coltura di ampie aree a grano, oliveti, vigneti, frutteti
ecc. su oltre 2600 ettari di terreni aridi e sabbiosi. Un cenno merita anche la gigantesca opera realizzata
dall’ingegnere idraulico Mario Giandotti: un poderoso canale che, attingendo
acque dal Po, irriga ampie aree di terreni coltivati nelle province di
Modena, Mantova, Bologna, Ravenna, Forlì. Oltre 340 chilometri di
canali danno vita a ben 325 mila ettari di terreno. Armando Casillo (dal cui lavoro abbiamo attinto
alcuni dati) riporta i risultati delle bonifiche e delle leggi rurali.
Ecco un sommario elenco: 5.886.796 ettari bonificati, tra il 1923 e il
1938, un confronto è necessario fra il periodo pre-fascista, quando
in 52 anni nell’intera Penisola furono bonificati appena 1.390.361 ettari.
A queste vanno aggiunte quelle delle colonie, dell’Etiopia e, poi, dell’Albania.
Si aggiungano 32.400 chilometri di strade; 5.400 acquedotti; 15 nuove città
e centinaia di borghi; oltre un milione di ettari di terreno rimboscati;
un milione di fabbricati rurali; l’incremento della produzione che passò
da 100 a 2.438; il lavoro agricolo per ettaro che aumentò da 100
a 3.618; i lavoratori occupati nelle opere di bonifica e nei nuovi poderi
superavano le 500 mila unità. Né va dimenticata la sconfitta
della malaria che causava, come già ricordato, centinaia di morti
ogni anno. Un altro dato significativo sulla qualità
tecnica raggiunta nel settore agricolo dal nostro Paese, è la comparazione
fra i 16,1 quintali di frumento per ettaro raggiunto nelle terre bonificate
e la produzione statunitense, considerata la migliore, ferma a 8,9 quintali/ettaro. "L’attribuzione ai braccianti di poderi nelle
zone di bonifica è il fiore all’occhiello della politica rurale
fascista. Come si vede, traguardi che cambiarono il volto dell’Italia"
(Armando Casillo). Ma la spinta impressa da Mussolini è volta
a nuove mete. La mattina del 18 dicembre 1932 il Duce lascia Roma in auto
per recarsi ad inaugurare il nuovo Comune di Littoria. Ecco alcuni passi
del discorso inaugurale [4,XXV,184]: "Camerati! Oggi è una
grande giornata per la rivoluzione delle Camicie Nere, è una giornata
fausta per l’Agro Pontino. È una gloriosa giornata nella storia
della nazione. Quello che fu invano tentato durante il passato di venticinque
secoli, oggi noi stiamo traducendo in una realtà vivente. Sarebbe
questo il momento di essere orgogliosi. No! (...). Abbiamo vinto la nostra
prima battaglia. Ma noi siamo fascisti e quindi più che guardare
al passato siamo sempre intenti verso il futuro. Finché tutte le
battaglie non siano state vinte, non si può dire che tutta la guerra
sia vittoriosa. Solo quando accanto alle cinquecento case oggi costruite,
ne siano sorte altre quattromilacinquecento, quando accanto ai diecimila
abitatori attuali vi siano i quaranta-cinquantamila che noi ci ripromettiamo
di fare vivere in quelle che furono le paludi pontine, solo allora potremo
lanciare alla nazione il bollettino della vittoria definitiva". Quindi il Duce elenca i nomi delle nuove città
che stanno sorgendo: "Sarà forse opportuno ricordare che una
volta, per trovare lavoro occorreva varcare le Alpi o traversare l’Oceano.
Oggi la terra è qui a mezz’ora soltanto da Roma. È qui che
noi abbiamo conquistato una nuova provincia. È qui che abbiamo condotto
e condurremo delle vere e proprie operazioni di guerra. È questa
la guerra che preferiamo. Ma occorre che tutti ci lascino intenti nel nostro
lavoro". Si può ben dire che negli anni della bonifica
integrale "tutto il territorio italiano era un’enorme, bruciante,
palpitante, esaltante operante fucina di opere, azionata da braccia, da
idee, da inesauribile volontà di cambiare il volto a un’Italia rurale
che aveva dormito per secoli" (Casillo). L’elenco più completo di città e borghi
costruiti in quel periodo è posto alla fine di questo capitolo. Volendo ricordare la nascita del "Lido di Milano",
possiamo usare le semplici ed espressive parole di Don Franco Giuliani,
autore del libro Tutte le opere del Duce Volume III: "Milano non ha
il mare, non l’ha mai avuto, ma il Duce ha "creato" il mare,
ecco come.
Nel 1927 (23 giugno) varò una legge, la 1630,
per la realizzazione di un "Idroscalo" per la città di
Milano. Vero mare, perfino salato, arenile, pini marini, bagnanti, bagnini.
Realizzazione ardita che solo il Duce poteva permettersi di portare a termine. L’"Idroscalo" è un grande canalone
lungo 3 Km e largo 300 metri con 300 di testata per le manovre dei velivoli.
Il bacino occupa una superficie di 610.000 mq. È alimentato da acque
sorgive. L’Idroscalo è sempre stato segnalato come
pantano. Il Duce l’ha trasformato in bacino, un lago, una "fetta"
di mare con tutte le caratteristiche marine (...). Questo spettacolare miracolo fu inaugurato nel 1930,
il 5 luglio. L’arenile ha 100 cabine, ha il suo "lungomare",
con alberi intorno, alberghi, Luna Park, campi sportivi, prati. Al centro
del bacino vi è un’isoletta che può essere raggiunta facilmente
con una barca e trovarvi ogni divertimento". Sempre in piena "congiuntura economica"
la nostra fantasia produttiva veniva riconosciuta ovunque. Il 22 dicembre
1932, il deputato laburista inglese Lloyd George rimproverava il suo Governo
di inerzia e lo spronava, per risolvere i problemi della disoccupazione,
proponendo di "fare come Mussolini nell’Agro Pontino". Ancora più incisivamente il giornale Noradni
Novnij di Brno, il 15 dicembre 1933, scriveva: "Con successo infinitamente
superiore a quello annunciato per il suo piano da Stalin, in Russia si
è fatta un’opera di costruzione, ma in Italia si è compiuta
un’opera di redenzione, di occupazione. All’altra estremità dell’Europa
si costruiscono enormi aziende, città gigantesche, centinaia di
migliaia di operai sono spinti con folle velocità a creare un’azienda
colossale per il "dumping" (rifiuti - ndr) che dovrà portare
la miseria a milioni di altri paesi europei. Mentre invece in Italia il
piano Mussolini rende una popolazione felice e nuove città sorte
in mezzo a terre redente, coperte ovunque di biondi cereali". I consensi non riguardavano solo i metodi usati
dal Governo italiano per superare la "crisi congiunturale", ma
essi partivano dagli anni precedenti. Lo svedese Goteborgs Handels del 22 marzo 1928,
scriveva: "Non si può davvero non restare altamente sorpresi
di fronte al lavoro colossale che il governo fascista viene svolgendo con
una incredibile intensità di energica: amministrazione pubblica
radicalmente cambiata, ordinamento sociale posto sulla nuova base della
organizzazione sindacalista, trasformazione dei codici, riforma profonda
della istituzione e un tipo di rappresentanza nazionale affatto nuovo negli
annali del mondo". Il coro di meravigliati consensi andava dalla Bulgaria
al Giappone, dalla Cina alla Francia. Il londinese Morning Post del 29 ottobre 1928: "L’opera
del fascismo è poco meno che un miracolo". Il prestigioso Deily
Telegraph del 16 gennaio 1928: "Il fascismo non è soltanto
uno sforzo verso un nuovo sistema politico, ma un nuovo metodo di vita.
Esso è perciò il più grande esperimento compiuto dall’umanità
dei nostri tempi". Altri dati rivelano che quanto si scriveva nel mondo
era ben meritato. Nel 1922 i braccianti erano oltre 2 milioni: nei primi
anni del ’40 il loro numero si ridusse a soli 700 mila unità, gli
altri erano divenuti proprietari, mezzadri o compartecipi di piccole o
grandi aziende. Nella sola Sicilia i proprietari terrieri passarono dai
54.760 del 1911 a 222.612 del 1926. Questo è un ulteriore dato che
può far meglio comprendere lo sforzo compiuto in quegli anni. Possiamo quindi dire che l’obiettivo politico fu,
almeno in gran parte, centrato. Questo avveniva mentre nel mito marxista
la collettivizzazione delle terre risultava fallimentare e affogata nel
sangue e nella disperazione. Mussolini a Carlo Marx contrapponeva il contadino
compartecipe della produzione. Nacquero così, soprattutto nel Mezzogiorno
d’Italia, nuovi ceti di piccoli proprietari, superando i motivi della "lotta
di classe" e creando lo "strumento di pace e di giustizia sociale". Elenco di città e borghi sorti durante il governo Mussolini (Molte fra le località indicate sono rimaste
semplici aggregati di case che dopo la fine del fascismo non hanno avuto
ulteriore sviluppo). Littoria: oggi Latina, fondata il 30 giugno ed inaugurata
il 18 dicembre 1932. Sabaudia: fondata in onore della dinastia Savoia il
5 agosto 1933 ed inaugurata il 15 aprile 1935. Pontinia: fondata il 19
dicembre 1934 ed inaugurata il 18 dicembre 1935. Aprilia: fondata il 25
aprile ed inaugurata il 29 ottobre 1938. Pomezia: fondata il 22 aprile
1938 ed inaugurata il 28 ottobre 1940. Mussolinia di Sardegna nell’oristanese,
fondata nel 1930 e divenuta Arborea nel dopoguerra. Fertilia: nei pressi
di Alghero. Mussolinia di Sicilia: inaugurata nel 1939, oggi divenuta Case
M...olinia. Segezia: in Basilicata. Marconia: in Lucania nei pressi di
Pisticci. Metaurilia: fondata nel 1938 presso Fano. Volania: nel ferrarese.
Acilia nei pressi di Ostia fondata nel 1939. Carbonia: in Sardegna fondata
il 17 dicembre 1938. Tirrenia: nei pressi di Livorno. Guidonia: inaugurata
nel 1938. Cervinia: in Val d’Aosta sorta nel 1936. Felicia: oggi la slovena
Cvic. Arsia: fondata il 27 ottobre 1936, in Istria, oggi Resa. Nel 1938 andarono in Libia 20 mila nostri agricoltori
e trovarono pronti 26 villaggi agricoli: Olivetti, Bianchi, Giordani, Micca,
Tazzoli, Breviglieri, Marconi, Garabulli, Crispi, Corradini, Garibaldi,
Littoriano, Castel Benito, Filzi, Baracca, Maddalena, Aro, Oberdan, D’Annunzio,
Razza, Mameli, Battisti, Berta, Luigi di Savoia, Gioda. Altri dieci villaggi libici nei quali berberi e
indigeni imparavano dai nostri agricoltori a far fruttare la terra: El
Fager (Alba), Nahima (Deliziosa), Azizia (Profumata), Nahiba (Risorta),
Mansura (Vittoriosa), Chadra (Verde), Zahara (Fiorita), Gedina (Nuova),
Mamhura (Fiorente), El Beida (la Bianca) già Beda Littoria.
da BENITO MUSSOLINI, L'UOMO DELLA PACE - DALLA MARCIA SU ROMA ALL'ASSALTO
AL LATIFONDO. Guido Mussolini e Filippo Giannini Anno di Edizione: 1999. Greco&Greco editori. (Indirizzo
e telefono: vedi EDITORI)
mercoledì 19 gennaio 2022
NOI E LORO. UNA PICCOLA DIFFERENZA CHIAMATA ONORE
NOI E LORO. UNA PICCOLA DIFFERENZA CHIAMATA
ONORE
Nino Arena La faziosità è dura a morire; la menzogna, soprattutto
se finalizzata a radicalizzare un fatto arbitrario ha radici profonde;
l’invito ai chiarimenti, se presuppone la fine del teorema illegalmente
costruito per convalidare la falsità, viene di norma respinto. Poi
tutto torna nel dimenticatoio ed ognuno si tiene le sue convinzioni cullandosi
nell’ipocrisia e nella malafede. Talvolta, allorché vengono a mancare
le motivazioni per controbattere accuse e invenzioni, si fa strada timidamente
la loro "verità’’ riportata pedissequamente nelle occasioni,
populiste e demagogiche, non di rado sui libri di testo, quasi sempre reperibile
nella bibliografia resistenziale di comodo stampata dai grandi circuiti
editoriali, nella speranza che "il luogo comune’’ si trasformi in
"verità’’ storica: il gioco è fatto! Dovranno sopravvenire
dirompenti eventi esterni, come accadde col muro di Berlino, per smantellare
l’architrave della menzogna, meglio se originati al di fuori dell’Italia,
in quanto ritenuti più credibili, attendibili, affidabili.
Molti anni or sono ho dovuto lottare contro un clan di pseudo storici
(di parte) che, in contrasto col responso di una apposita commissione governativa,
rifiutavano di accettarne le decisioni per malafede (leggasi: in contrasto
con la loro ideologia). Si trattava del bluff sui fatti di Leopoli, di
cui lo scrivente - per primo e con mesi di anticipo sulle conclusioni della
commissione - denunciava il falso organizzato dal PCUS con la complicità
di un giornalista comunista polacco. Ogni tanto qualcuno si sente in diritto di emanare sentenze, forte,
a suo parere, di trovarsi dalla parte "vincente’’; una ridicola convinzione
poiché è risaputo che l’Italia ha perduto la 2ª guerra
mondiale, che non ci sono stati vincitori e quelli che ritengono di essere
tali sono soltanto poveri illusi, vissuti da sempre nella loro persuasione,
nel loro sogno donchisciottesco ben al di fuori della realtà. Una frase recentemente pronunciata da un personaggio di questo effimero
clan di Soloni, ci ha colpito particolarmente: "... l’accostamento
con la RSI non sarà gradito da noi veterani delle FF.AA. regolari
(badogliani, tanto per precisare chi sono); una sottile distinzione per
prendere le distanze dai partigiani, e precisava ancora: "Nel dopoguerra
le faccende non si sono per niente chiarite, tant’è vero che i reduci
della RSI ostentano ancora nelle celebrazioni la scritta Per l’Onore
d’Italia. Una strana pretesa da parte del badogliano, che pensa di
dettare condizioni e stabilire regole di comportamento, quasi che i reduci
della RSI dovessero vergognarsi di tale "ostentazione’’. Noi siamo di parere contrario, poiché gli atti compiuti da coloro
che militarono al sud non sono sempre motivo edificante di ammirazione
e ostentazione. Molti avvenimenti non possono essere accettati come atti
onorevoli di cui vanagloriarsi e con loro attruppiamo i miserevoli individui
del CLN che segnalavano agli aviatori alleati gli obiettivi da colpire
(quasi sempre centri abitati); segnaliamo ancora la miseria morale degli
uomini del Partito d’Azione che parlavano durante la guerra da Radio Londra
contro l’Italia e che l’articolo 16 del trattato di pace salvò immeritatamente.
Non sono atti di cui vantarsi gli aiuti militari italiani forniti a Tito
- sanguinario despota balcanico - e da questi usati criminosamente per
la pulizia etnica degli italiani, non sono atti ammirevoli quelli dati
dalla marina cobelligerante alla Royal Navy permettendogli di affondare
il "Bolzano’’ per pareggiare la notte di Alessandria; non sono atti
meritevoli i bombardamenti dell’aviazione del sud in Istria su zone abitate
da italiani; non sono episodi da ricordare nella storia, le uccisioni e
i maltrattamenti verso i soldati della RSI uccisi o catturati in azione
da reparti badogliani, così come sono da dimenticare le leggi liberticide,
vessatorie e discriminanti applicate verso i combattenti della RSI, ancora
oggi considerati come invalidi civili, valorosi mutilati degni di rispetto
e attenzioni. Non si può imporre la democrazia come modello comportamentale
per poi rinnegarne i principî con atti contrari, così come
non è accettabile imporre discriminatorie settarie nei confronti
di coloro che a fine guerra si trovarono dalla parte perdente. Si finirebbe
per perdere la faccia e rinnegare teorie libertarie applicabili a senso
unico. I soldati della RSI avevano scelto e combattuto sino all’ultimo per
cancellare il tradimento badogliano (non il tradimento dei soldati o dei
cittadini italiani, vittime ugualmente delle decisioni di pochi irresponsabili);
lo avevano fatto per tentare di riscattare l’onore d’Italia infangato dai
congiurati. Se altri ritengono che tale comportamento vada cancellato o
dimenticato per compiacere coloro che implicitamente li osteggiavano, sappiano
che la storia ha condannato i traditori, non i traditi. Le frasi incriminate fanno parte di un maldestro tentativo inteso a
prevaricare la libertà di pensiero (grave per un preteso paladino
della libertà) di un amico che in perfetta buonafede aveva iniziato
a raccogliere elementi di giudizio, testimonianze e documenti su una possibile
pubblicazione sulle vicende postarmistiziali della divisione "Nembo’’.
L’intervento, invece, mirava a perpetuare con pesante pressione personale
(riteniamo) una pretesa differenza morale e ideologica, di pensiero e di
idealità fra i paracadutisti del nord e quelli del sud, che avevano
militato nella stessa unità prima e dopo l’armistizio, alcuni dei
quali si erano inaspettatamente riscoperti "democratici e antifascisti’’
soltanto a posteriori e temevano il "contagio’’, o quanto meno il
pericolo di essere allineati sullo stesso piano fra coloro che avevano
accettato supinamente l’armistizio - servendo i Savoia e Badoglio - e gli
altri che invece lo avevano rifiutato come immorale e che intendevano opporsi
nel tentativo nobile ma difficile di riscattarne col sacrificio l’aspetto
d’immagine vilipesa che il tradimento aveva appiccicato all’Italia. Il problema meritava indubbiamente una precisazione, se non altro per
far conoscere meglio la posizione ideale della parte che aveva scelto il
nord e il riscatto dell’onore e coloro che invece si erano trovati al sud,
non per libera scelta (molti settentrionali avrebbero sicuramente optato
per combattere col nord) ma per collocazione geografica, obblighi militari,
situazioni contingenti (molti al nord vissero questo problema) sicuramente
non per motivazioni ideologiche o scelte politiche, considerando oggettivamente
che la "Nembo’’ annoverava fino all’armistizio una larghissima percentuale
di personale politicizzato, non tanto nella visione ortodossa e limitata
del credente quanto nell’aspetto individuale di far parte di un Corpo d’élite
che da sempre (lo si verifica ancora oggi ingiustificamente) ha nell’amor
di Patria, nel dovere militare, nel sentimento nazionalista e nella purezza
della gioventù nata e vissuta sotto il fascismo, sicuri pilastri
di forza morale e affidabilità. Nessuno di loro conosceva la definizione di democrazia, sapeva di battersi
per la libertà, contestava apertamente il fascismo, anche se in
quel periodo aleggiava un sottile ma avvertito malessere causato dal crollo
del fascismo e dei suoi postulati ideologici; c’era confusione morale fra
tutti gli italiani, si accertava la presenza di una stanchezza diffusa
fra la popolazione e le FF.AA. causata da avvenimenti interni e dal negativo
andamento del conflitto. Esaminiamo i fatti e accertiamo quanto di vero esisteva nella "Nembo’’
in quel particolare periodo. Al momento dell’armistizio l’unità frazionata fra Calabria e
Sardegna contava circa 10.500 uomini in servizio di cui circa 7.000 paracadutisti,
1.200 militari dei servizi e 2.300 fra artiglieri, carristi e genieri aggregati
alla "Nembo’’ per esigenze difensive territoriali. Abbandonarono l’unità
i Btg. 3°, 12° e reparti minori dei Btg. 13°/14° passati
poi alla RSI; 600 paracadutisti ritenuti politicamente inaffidabili furono
internati nel campo di disciplina di Uras (Cagliari); altri 410 sospetti
di simpatie fasciste furono radiati dai paracadutisti e assegnati ai Rgt.
di fanteria 45° e 236°; altri 300 vennero distribuiti ad altri
reparti e una trentina di ufficiali - fra cui il vicecomandante divisionale,
il valoroso Folgorino Col. Pietro Tantillo - furono imprigionati, processati
e infine prosciolti dall’accusa di "rifiuto per coerenza etica di
sparare sui reparti tedeschi’’. Il resto si era sbandato. Una perdita complessiva
di oltre 3.000 uomini che riduceva la "Nembo’’ a poco più di
4.000 paracadutisti con alcune centinaia di militari dei servizi. Non mancarono le uccisioni isolate, gli atti di violenza, le ribellioni
aperte. Da una parte si ebbe l’uccisione ingiustificata e involontaria
del Ten. Col. Alberto Bechi Luserna-Capo di SM-ucciso da paracadutisti
aderenti alla convalida del patto d’alleanza con la Germania. Venne decorato
di Movm alla memoria. Gli autori identificati, furono processati nel dopoguerra
e condannati a pesanti pene detentive. Dall’altra parte si ebbe l’uccisione
ingiustificata ma volontaria del maresciallo Pierino Vascelli - valoroso
libico e Folgorino-addetto allo SM divisionale, assassinato da ignoti per
punire la sua ostentata fede fascista. Vascelli non ebbe alcuna decorazione,
non ebbe un processo poiché i suoi assassini rimasero ignoti, coperti
criminosamente dall’omertà. Due pesi e due misure che gridano giustizia
e di cui ben pochi conoscono i retroscena. Non risponde quindi al vero che la "Nembo’’ disponeva nel 1944
di 10 battaglioni paracadutisti, poiché era stata ristrutturata
su 5 Btg. e 2 gruppi artiglieria, reparti minori e non superava le 4.000
unità allorché venne inserita nel CIL (Corpo Italiano di
Liberazione) poiché altri 250 paracadutisti furono assegnati a reparti
logistici (leggasi salmerie della 210a Divisione). Al nord, invece, furono costituiti 3 Btg. paracadutisti arditi e un
Btg. allievi; un Btg. N.P. (Nuotatori Paracadutisti) della Xª MAS
e un Btg. paracadutisti della GNR ("Mazzarini’’) per circa 3.800 paracadutisti
in gran parte volontari. Nel 1945 si ebbero altre trasformazioni: al sud
venne disciolta la "Nembo’’ sostituita col Gruppo da combattimento
Folgore con un Rgt. paracadutisti su 3 Btg. nuclei sparsi di paracadutisti
fra il Rgt. artiglieria e i reparti genieri. Complessivamente non più
di 3.000 paracadutisti oltre ad un centinaio di parà assegnati allo
Squadrone F alle dirette dipendenze del comando XIII° Corps inglese. Al nord, oltre ai precedenti reparti già accennati, si ebbero
2 Cp. autonome e reparti indipendenti composti da complementi, dal personale
del disciolto gruppo artiglieria "Uragano’’ e dagli istruttori della
scuola di Tradate; dal personale del gruppo speciale sabotaggio "Vega’’
e NESGAP della Xª MAS, dal Btg. NP e dal "Mazzarini’’. Complessivamente
circa 4.000 uomini superiori, per organici e reparti costituiti, a quelli
del sud. Nessun vantaggio numerico o per organici, quindi, sufficiente
per affermazioni fuori luogo e giustificare maggiore importanza psicologica
come avventatamente dichiarato dal nostro censore sudista. Anzi, una situazione
a favore della RSI. Alcune precisazioni merita anche l’aspetto morale e giuridico, considerando
obiettivamente l’illegittimità del governo Badoglio secondo giuristi
e costituzionalisti affermati, nato da un colpo di Stato e mai convalidato
dagli enti istituzionali. Semplicemente, come quello della RSI un governo
di fatto ma del tutto arbitrario come aspetti decisionali, considerando
che era scappato al sud con due soli riluttanti ministri militari (altri
12 ministri erano stati abbandonati a Roma), che si era trovato brutalmente
al cospetto delle strutture amministrative create dagli alleati: AMGOT
e ACC, cui doveva ubbidienza assoluta senza alcuna recriminazione, col
territorio nazionale rigidamente controllato dai funzionari angloamericani
(soltanto nel 1944 furono consegnate quattro province pugliesi (Lecce,
Bari, Taranto e Brindisi) all’amministrazione badogliana. Badoglio fu costretto
persino a utilizzare i comandi militari in assenza di strutture civili
per applicare un minimo di legalità e ordine nel caos postarmistiziale,
proclamando la legge marziale con i poteri riservati ai militari, con l’assurdo
giuridico e offensivo, di emanare ordinanze agli italiani da parte di comandi
militari italiani, come avveniva nei territori nemici occupati. Ciò non impedì allo stesso Badoglio di emanare ordini
suicidi per attaccare i tedeschi ovunque, col risultato nefasto di privare
i soldati italiani delle garanzie internazionali dovute allo status armistiziale,
trasformandoli in franchi tiratori, col risultato di farli uccidere impunemente
dai tedeschi per dovute legali rappresaglie, come fatalmente accaduto a
Cefalonia, Balcani e Lero. Un totale di 45 mila soldati uccisi ingiustificatamente
nel dopo armistizio. Fu necessario l’intervento di Eisenhower a Malta il
29 settembre, che consigliò prima e intimò poi a Badoglio
di far cessare le uccisioni, ripristinando lo status giuridico internazionale
col dichiarare guerra alla Germania, cosa questa che avvenne il 13 ottobre
successivo. Resta ancora da chiarire il significato di cessare le ostilità
"per impossibilità materiale di continuare la guerra "come
dichiarò Badoglio all’armistizio, per poi ritrovare miracolosamente
volontà e capacità operativa con la proposta di "passare
armi e bagagli con gli anglo-americani’’ alla pari, come ingenuamente pensarono
i congiurati come fosse la cosa più semplice del mondo, nella convinzione
di ritenersi indispensabili e quindi di dirigere il gioco. Gli alleati
respinsero invece sdegnosamente ogni ipotesi di alleanza (l’Italia non
venne mai considerata alleata dalle Nazioni Unite, ma più dimessamente "nazione
cobelligerante’’ di nessuna importanza giuridica e operativa) e l’offerta
fatta da Badoglio sulla "Nelson’’ di concedere la "Nembo’’ venne
ugualmente respinta (confronta al proposito la testimonianza dell’interprete
ufficiale italiano Magg. Carlo Maurizio Ruspoli (fratello dei folgorini
Marescotti e Costantino). Cosa rimane dunque come argomenti per trattare con sufficienza e distacco
i reduci della RSI? Riteniamo ben poco, se non il disagio inconfessabile
di aver militato agli ordini di simili traditori che hanno meritato il
disprezzo delle genti, anche a livello internazionale, e la squalificante
etichetta di opportunisti. Pochi giorni or sono, in una intervista concessa ad un giornalista
del "Giornale’’, Indro Montanelli - che non può essere certamente
accusato di simpatie fasciste, pur non rinnegando il suo passato politico
- disse a proposito di Badoglio, alla domanda di come si sarebbe comportato
personalmente l’otto settembre: "Io avrei fatto esattamente quello
che fece il maresciallo Mannerheim Presidente della Finlandia, allorché
fu costretto per totale impossibilità fisica, morale e materiale
dovuta a cinque anni di guerra durissima, a continuare a combattere, chiedendo
un armistizio all’URSS che premeva alle frontiere della Finlandia, abbandonando
l’alleanza col Tripartito e la collaborazione militare con il Reich. Mannerheim
spiegò ai tedeschi la sua situazione e li invitò ad abbandonare
al più presto il territorio finlandese, cosa che si verificò
regolarmente senza particolari problemi. Disse così, il decano dei
giornalisti italiani, e aggiunse che deprecava il metodo usato da Badoglio
- subdolo e inqualificabile - le riserve mentali, le occulte intenzioni
dei congiurati, i tentativi umilianti di saltare sul carro dei vincitori. Per concludere, spendendo due parole sull’aspetto morale, comprendiamo
e giustifichiamo il dramma personale vissuto da migliaia di italiani rimasti
al sud, consideriamo valido il rispetto del dovere militare, non accettiamo
certamente l’abuso fatto a posteriori di presentarsi e di considerarsi
"combattente per la libertà’’ quasi fosse una etichetta di
squadrista antemarcia, come accadde con Mussolini, ma soltanto una convalida
artificiosa che significava - se accettata implicitamente - complicità
morale. "Ho dovuto ubbidire agli ordini di Badoglio e Messe, ma il
mio cuore e la mia fede erano al nord con la Repubblica Sociale Italiana’’
dissero molti veterani del sud. "Il giorno che decisi di disertare
venni ferito’’ dichiarò un paracadutista della "Nembo’’ oggi
affermato medico a Roma. "Mi legarono ad un albero in prima linea
perché mi ero rifiutato di sparare contro i tedeschi. Speravano
che questi mi avrebbero ucciso come bersaglio indifeso; invece i tedeschi
capirono la situazione e mi risparmiarono’’ disse un veterano del 16°
Btg. Molti ancora, opposero pretestuosamente il giuramento fatto al Re
come ostacolo morale alla loro adesione; ma nessuno seppe che il giuramento
non aveva più alcuna validità poiché era stato infranto
per primo dal Re, violando la Costituzione, che parlava del giuramento
prestato dal sovrano "nel bene indissolubile del Re e della Patria’’.
Ma soltanto pochi obbedirono sino all’ultimo allo spirito di tale giuramento
e fra questi il vecchio generale Ercole Ronco, comandante della "Nembo’’,
il Col. Camosso folgorino e il Ten. Col. Felice Valletti Borgnini - anch’esso
folgorino - che preferirono abbandonare la vita militare al momento in
cui Umberto di Savoia abdicò e partì per Lisbona. Gli altri
transitarono senza particolari patemi d’animo dalla monarchia alla repubblica,
scoprirono una nuova fede e fecero carriera. Noi, dunque, rappresentiamo per diritto acquisito la continuità
ideale fra la gloriosa Folgore di El Alamein e il paracadutismo della RSI:
stessi ideali, stessi nemici, stesse conseguenze. Erano gli stessi nemici
con l’elmetto a scodella che uccidevano i folgorini nelle sabbie egiziane
e massacravano i ragazzini alla difesa di Roma; erano per noi i nemici
di sempre, quelli del primo giorno di guerra e dell’ultimo giorno, quando
ci sorvegliavano e ci angariavano nei campi di prigionia. Di esempio i
folgorini comandanti Izzo e Valletti che combatterono con la Folgore a
El Alamein, fianco e fianco con i parà germanici di Ramcke, non
sapendo che un giorno si sarebbero scambievolmente uccisi sulla "Gotica’’
nella primavera del 1945, quando Badoglio e le circostanze li avrebbero
messi l’uno contro l’altro. Questo mi disse nel dopoguerra Giuseppe Izzo,
quando dovette battersi per salvaguardare il suo dovere di soldato contro
il suo amico Hubner a Grizzano, un camerata che aveva condiviso con lui,
in Egitto, le speranze, l’acqua e le munizioni contro i Tommy’s di Montgomery.
A Grizzano si guadagnò una Movm, ma avrebbe sicuramente preferito
meritarsela a El Alamein battendosi contro gli inglesi. La sua carriera
militare si bloccò a Palermo, nel dopoguerra, allorché rifiutò
di stringere la mano di Pacciardi, Ministro della Difesa, da Lui tacciato
di "traditore della Patria’’. Valletti Borgnini si battè coerentemente col suo dovere militare
contro il reggimento Bomhler sulla "Gotica’’, pur avendo il padre
generale nell’esercito della RSI e il fratello minore Luciano, compagno
di corso dello scrivente alla scuola AA.UU. di Varese, giovane sottotenente
della GNR (morirà a Coltano per malattia non curata dal detentore
USA). Una tragedia familiare, lacerante, in cui il senso del dovere fu
più forte degli affetti privati. Ma forse questi fatti non influiscono
sulla sensibilità del censore intento a spargere l’apartheid
fra i parà, dimenticando che essi furono i primi ad abbracciarsi
a guerra finita, riconoscendosi come fratelli, non come nemici o soldati
di classe inferiore. Ci auguriamo soltanto che quando in futuro vedrà
nelle celebrazioni i paracadutisti della RSI ostentare orgogliosamente
l’insegna di "per l’Onore d’Italia’’, comprenda cosa significò
per centinaia di migliaia di soldati italiani quel motto e quell’impegno
che vide oltre centomila caduti, quarantacinquemila feriti e mutilati,
novantamila imprigionati in campi POW fra Algeria, Francia, Italia e USA
e nelle patrie galere. Oltre trentamila i processati per "collaborazionismo
col tedesco invasore’’ (erano soltanto i nostri alleati con cui avevamo
sottoscritto un patto militare nel 1939). A questi dati statistici aggiungiamo
il milione e mezzo di italiani epurati e messi alla fame, per completare
il quadro; molti i suicidi, migliaia gli emigrati nel mondo, centinaia
i dispersi nella Legione fra Indocina e Algeria "mort pour la France’’,
un intero popolo diseredato da leggi antifasciste volute dal CLN con l’avallo
di Umberto di Savoia che le firmò, mentre i "vincitori’’ si
spartivano fraternamente posti di lavoro, ricevevano lucrose pensioni,
sussidi, elargizioni, premi di smobilitazione, vitalizi, ricompense (anche
al valore militare come accadde per Via Rasella). E gli altri? Alla fame
o proscritti come appestati, come decretato dagli alpini partigiani con
una vergognosa apartheid nostrana immorale e ingiustificata creata
ad hoc. Di certo Noi non abbiamo vestito i panni del nemico di sempre, non
abbiamo avuto l’elmetto a bacinella, poiché era remota per i folgorini,
in quanto inaccettabile, l’ipotesi che un giorno altri parà avrebbero
vestito all’inglese, sarebbero stati da loro armati e si sarebbero schierati
al loro fianco per combattere gli ex alleati ormai nemici, e se capitava
(come in realtà si verificherà) anche altri italiani. Badoglio aveva creato le premesse della guerra civile, provocato una
frattura nelle coscienze, creato una divisione dei corpi e delle anime.
Poi la nemesi storica si riprese la sua rivincita: Badoglio venne estromesso
ed emarginato come cosa inutile ("usa e getta’’ si direbbe oggi);
il suo Re, mortificato, umiliato dai vincitori e malvisto dai partiti del
CLN andò in esilio in Egitto; suo figlio, strumentalizzato dai politici
antifascisti, firmò decine di inique leggi persecutorie contro i
soldati della RSI, poi, anch’egli ormai inutile, venne costretto a lasciare
l’Italia. Tutto ciò non toglie nulla al valore dimostrato in battaglia
dai paracadutisti del sud poiché nomi di località come Ascoli
Piceno e Macerata, Tolentino e Aquila, Chieti e Filottrano, Grizzano e
la Herring furono altrettante tappe di una lacerante partecipazione fra
il dovere militare e la fede, i sacrifici fatti in difficili condizioni
morali. Centinaia i caduti con oltre 400 nominativi, 587 i feriti, 54 i
dispersi, centinaia le decorazioni al valore concesse e fra queste soltanto
sette quelle elargite da americani e polacchi (nessuna da parte inglese).
Non inferiori quelle meritate dai paracadutisti del nord che ebbero 621
caduti, 316 feriti e 620 dispersi e prigionieri, oltre 400 le decorazioni
meritate fra cui oltre 80 croci di ferro di 1ª e 2ª classe a
riconoscimento del valore da parte dell’alleato germanico sempre prodigo
di elogi e ammirazione per i volontari italiani. Cosa dunque restava della nostra scelta fatta non per tentare di vincere
(la guerra era ormai perduta per la Germania) se non per salvare l’Onore
d’Italia? Fu soltanto un ideale premio morale emerso luminoso fra tante
amarezze e umiliazioni inferte dai vincitori; un valore simbolico, idealizzato
che nessuno potrà mai portarci via o permettersi di discutere. Lo
abbiamo conquistato duramente con innumerevoli sacrifici e se la Storia
ha cambiato in parte, grazie alla RSI, il suo severo giudizio sull’Italia,
lo si deve anche a chi fece di tutto per cambiarlo, sacrificandosi nel
nome d’Italia, riscattandone l’Onore. La piccola differenza fra NOI e Loro è tutta qui! NUOVO FRONTE N. 197 Dicembre 1999.
venerdì 7 gennaio 2022
"MARO' A 16 ANNI"
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sabato 1 gennaio 2022
LE RESPONSABILITA' NELLA GUERRA DI ETIOPIA.
LE RESPONSABILITA' NELLA
GUERRA DI ETIOPIA. LA POSIZIONE INGLESE A DIFESA DEI PROPRI INTERESSI
da BENITO MUSSOLINI, L'UOMO DELLA PACE - DA VERSAILLES AL 10 GIUGNO
1940. Cap. VIII. Guido Mussolini e Filippo Giannini
Il 1935 fu l’anno dei grandi avvenimenti che avrebbero
condizionato la futura politica internazionale. Scrive Amedeo Tosti, nel testo già citato,
a pag.26: "Con il conflitto italo-etiopico e il conseguente urto italo-britannico
si può considerare aperta la crisi che doveva condurre alla seconda
guerra mondiale. I fatti sono noti e non è il caso qui di rievocarli.
Il Governo fascista aveva da tempo mire espansionistiche in Etiopia. Sul
finire del 1934, in seguito ad incidenti di frontiera nella regione Somalia-Ogaden,
abilmente provocati da Roma (?) e, comunque, esagerati dal Governo fascista,
i rapporti fra l’Italia e l’Etiopia entrarono in una fase di acuta tensione.
Della controversia il Governo etiopico volle che fosse investita la Società
delle Nazioni e la richiesta trovò un valido sostenitore nel Governo
britannico, il quale riteneva opportuno combattere, fin dall’inizio, le
chiare aspirazioni imperialistiche di un regime autoritario quale quello
fascista che poteva seriamente compromettere la pace generale, tanto più
che l’Inghilterra si trovava, in quel momento, di fronte ad un grande movimento
di opinione pubblica, in seguito agli atteggiamenti dell’altro Governo
autoritario ed antidemocratico: il nazionalsocialismo tedesco". -----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
È bene, intanto, sottolineare che il libro
di Amedeo Tosti fu scritto negli anni immediatamente seguenti il secondo
dopoguerra e, quindi risente del clima di penalizzare la parte perdente.
E allora, come si svolsero realmente i fatti? Premessa: la prima forma storica dell’impero etiopico
fu il Regno di Axum (dal nome della sua capitale) che si trovava nella
provincia del Tigrè a nord dell’attuale Etiopia e, secondo una vecchia
leggenda, la dinastia regale di Axum discenderebbe dalla regina di Saba. Sino agli inizi dell’attuale secolo, l’Abissinia,
allora dai confini molto ristretti, si accrebbe con una politica di conquiste
intraprese dal Negus Menelik e proseguita da Selassiè, sottomettendo
e annettendo all’Abissinia i territori dei Galla, Sidano, Arusi, i regni
negri di Kaffa e Wolamo, lo Yambo, il Barau, il sultanato di Tiern e, addirittura,
nel 1935 il sultanato di Jimma. È una realtà che queste conquiste
altro non erano che spedizioni per razzie di schiavi. Quel che scrive Tosti (e, come detto, condiviso
da altri): "Il Governo fascista aveva da tempo mire espansionistiche
in Etiopia", non è corrispondente alla realtà o, almeno,
è un’affermazione che va rettificata nel tempo. Infatti, proprio
nel 1923 e proprio il Governo fascista, malgrado la diffidenza inglese,
s’era fatto principale sostenitore dell’ammissione dell’Etiopia nella Società
delle Nazioni, E ancora, nel 1928 era stato firmato un trattato di amicizia
e cooperazione italo-etiopico. Furono, invece, proprio i Governi pre-fascisti ad
avere mire sull’impero etiopico. Analizziamo, pur se sinteticamente, i
fatti: 1882, inizio della politica coloniale. Impianto delle colonie di
Assab. 1885, occupazione di Massaua (Mussolini aveva due anni). 1887, fu inviato sconsideratamente in quelle terre
un reparto composto da appena cinquecento uomini al comando del tenentecolonnello
Carlo De Cristoforis, reparto che fu massacrato da truppe abissine guidate
dal Ras Alula. 1888, spedizione di 20 mila uomini al comando del generale
San Marzano contro l’Abissinia. Il sultanato di Obbia sulla costa dei Somali
diventa protettorato italiano. 1889, Trattato di Uccialli: protettorato italiano
sull’Etiopia. Estensione del protettorato sulla costa dei Somali.
1890, i possedimenti italiani sulla costa africana del mar Rosso vengono
raggruppati in un’unica colonia che prende il nome di Eritrea. 1895, guerra
all’Etiopia. 1896, il Governo Crispi fu il responsabile, per beghe di partito
fra liberali e l’opposizione socialista, del mancato invio dei rinforzi
alla spedizione italiana comandata dal generale Baratieri che, proprio
per le inadeguate forze a sua disposizione, subì una disastrosa
sconfitta ad opera del Negus Menelik ad Adua. Erano eventi che avevano
marcato in profondità la coscienza di almeno un paio di generazioni
di italiani. L’umiliazione di quelle sconfitte era sentita, come sostengono
alcuni commentatori: "al di là di quanto imposto dalla sua
entità sia sul piano militare che politico". Ma gli appetiti
coloniali dei Governi pre-fascisti si svilupparono anche verso il Nord
Africa. Fu infatti il Governo Giolitti a volere l’impresa di Libia che
persino Benedetto Croce, nella sua Storia d’Italia, scritta polemicamente
durante il fascismo, la esaltò come iniziativa di sensibilità
politica. E ancora: 1908, tutti i possedimenti italiani sull’Oceano Indiano
vennero conglomerati sotto l’ unico nome di Colonia della Somalia Italiana.
1911, ultimatum alla Turchia e inizio della guerra italo-turca. Occupazione
di Tripoli. La guerra venne estesa dalla flotta, oltre che in Tripolitania,
anche nel Mar Egeo e nel Mar Rosso. Occupazione delle isole di Stampalia,
di Rodi e di tutto il Dodecanneso. 1912, la Camera approvò con 431
voti su 470 e al Senato all’unanimità la sovranità italiana
sulla Libia. Pace di Losanna tra Italia e Turchia. Istituzione del Ministero
delle Colonie. Né va dimenticato che la riappacificazione della
Libia, avvenuta nel primo dopoguerra, fu condotta, con mano di ferro, dal
liberaldemocratico Giovanni Amendola, allora Ministro delle Colonie. In questo contesto, va ricordata l’Albania. Infatti,
per ordine del Governo Nitti vennero inviati in quel Paese notevoli contingenti
di truppe italiane. A gennaio 1920 i delegati albanesi si riunirono a Lushnje
e costituirono un Governo provvisorio a Tirana, chiedendo la completa indipendenza
dell’Albania e, di conseguenza, il ritiro dei 70 mila soldati italiani,
comandati dal generale Settimio Piacentini, che occupavano il loro Paese.Il
3 gennaio 1920, il Governo provvisorio albanese presentò un ultimatum
al generale Piacentini, ultimatum che venne respinto. A seguito di ciò,
il 5, il 6 e l’11 giugno gli albanesi attaccarono Valona. Le truppe italiane
respinsero l’attacco e nuovi rinforzi vennero inviati in Albania. Se quindi, ci fossero colpe da addebitare al Governo
Mussolini, queste sono di essere riuscito lì dove i Governi pre-fascisti
delittuosamente fallirono. Come si giunse al conflitto italo-etiopico? Dopo i disastri sopra accennnati, sull’Etiopia si
erano concentrati gli interessi, oltre che commerciali anche strategici,
della Gran Bretagna e della Francia. A testimonianza della crescente attenzione,
su quella zona africana, delle potenze europee, è l’attestato dell’accordo,
siglato nel 1906 il quale fissava le rispettive zone d’influenza in Etiopia
fra quelle due potenze e l’Italia. I nostri rapporti con quel Paese africano si andarono
deteriorando nel 1930. Guariglia,(6) in una memoria del 1932 scrisse "Il
problema del nostro rapporto di Potenza con l’Etiopia e della nostra penetrazione
pacifica e militare in essa, s’impose, ripeto, fin dal momento del nostro
sbarco ad Assab". La tensione nei rapporti italo-etiopici si aggravarono
alla fine del 1934, quando un contingente abissino si accampò davanti
al fortino di Ual-Ual difeso dai Dubat, soldati somali fedeli all’Italia,
al comando del capitano Roberto Cimmaruta. Ual-Ual era una località posta al confine,
sin da allora incerto, fra Somalia ed Etiopia, ma mai rivendicato dal Governo
Abissino. Il 5 dicembre di quell’anno, dopo che i Dubat rifiutarono
la richiesta abissina di sgombero, questi scatenarono l’assalto e lo scontro
si concluse all’alba del giorno seguente con la vittoria italiana, ma le
nostre truppe coloniali lasciarono sul terreno 120 morti. Bruno Barrella su Il Giornale d’Italia del 18 luglio
1993, rammentando i fatti di Ual-Ual, scrive: "È l’ultimo di
una catena di episodi di sangue che avvenivano lungo uno dei confini più
labili dell’epoca. Mussolini da tempo aveva deciso di completare la
conquista del Corno d’Africa, ma la difficoltà maggiore era costituita
proprio dall’appartenenza dell’Etiopa alla Società delle Nazioni
come Membro a pieno titolo e dalle garanzie che il Negus Hailè Selassiè
aveva da tempo ricercato, e trovate presso gli inglesi, di cui era un vassallo
fidatissimo. Dieci giorni dopo Ual-Ual, il Negus, nonostante la sua piena
responsabilità nella strage, chiede alla Società delle Nazioni
l’avvio della procedura necessaria per un arbitrato internazionale per
dirimere i contrasti con Roma. Mussolini invece pretende le scuse, la punizione
dei responsabili e il riconoscimento della sovranità italiana sulla
regione dove sono avvenuti gli incidenti. Ogni composizione attraverso
gli organismi internazionali, fa sapere, non è desiderata né
accettata. Ed a Pietro Badoglio, allora Capo di Stato Maggiore Generale,
vengono assegnati i piani della guerra. Per risolvere pacificamente il dissidio creatosi
a seguito degli incidenti di Ual-Ual, venne istituita una commissione arbitrale
italo-etiopica, presieduta dallo specialista greco di diritto internazionale
Nicolaos Politis. La commissione il 3 settembre 1935 emetteva la sentenza
attribuendo le cause degli scontri agli atteggiamenti ostili di alcune
autorità locali abissine, escludendo, di conseguenza, ogni responsabilità
italiana. Una testimonianza, forse unica sulle colpe abissine
per gli "incidenti" ai pozzi di Ual-Ual, ci viene fornita da
un lettore de Il Giornale d’Italia, che in data 20/08/1996, quale persona
presente ai fatti, scrive: "Il sottoscritto in compagnia di un maggiore
del Regio Esercito nel territorio di Ual-Ual, vide i 14.000 armati etiopi
che il Negus inviò contro la Somalia italiana, lungo il fiume Uebi
Scebeli (3000 da una riva del fiume ed 11.000 dall’altra riva) e che solamente
dietro intervento dell’aeronautica italiana, in particolare del velivolo
comandato dal M.llo pilota Perego si riuscì a far indietreggiare
il predetto contingente. Purtroppo diversi militari etiopi, disertori o
disgregandosi (così nel testo ndr) rimasero lungo il confine che
imbattendosi con i Dubat italiani, originarono l’intervento Italo-etiopico". Mussolini cercava l’assicurazione che, in caso di
conflitto, Francia e Inghilterra non sarebbero state ostili. Per quanto
riguarda la Francia, nell’incontro di Roma del 4 gennaio 1935 con il Primo
Ministro francese Laval, questi, in cambio di una politica più morbida
dell’Italia nei Balcani e un freno nelle rivendicazioni dei diritti italiani
in Tunisia, assicurò il benestare francese all’iniziativa italiana
in Etiopia. Questi accordi non risultano dai testi ma si svelano
dallo scambio segreto di lettere tra Laval e Mussolini dove risulta, secondo
quanto scrive Renzo De Felice in Mussolini il duce, che la Francia "lasciava
mano libera" all’Italia in Europa. Il testo della lettera di Laval
era volutamente ambiguo e dichiarava che l’interesse francese sarebbe stato
solo di natura economica. In ogni caso, con la Francia, che avrebbe preferito
avere l’Italia al suo fianco contro Hitler piuttosto che avversaria, l’accordo
fu raggiunto. E l’Inghilterra? Scrivono molti storici, piuttosto frettolosamente,
e citiamo ad esempio Max Gallo in Vita di Mussolini, pag. 199: "(Mussolini
ndr) respinge un Piano Eden di compromesso, arringa centomila soldati (...)". Ma cosa veniva ad offrire Eden a Roma il 23 giugno
1935? A mezzo del suo Ministro degli Esteri Antony Eden,
il Governo Baldwin presentò una proposta di compromesso che si articolava
in questo modo: l’Etiopia avrebbe ceduto all’Italia l’Ogaden ricevendo
in cambio dall’Inghilterra il porto di Zeila. Ma questo avrebbe accresciuto
il prestigio dell’Etiopia a danno dell’Italia che, con l’Ogaden, avrebbe
ricevuto kilometri quadrati di sterile deserto. I giornali di allora scrissero
che era una proposta indecente. Guariglia nei suoi Ricordi a pag. 245, attesta:
"Mussolini seppe conservare tutta la sua calma di fronte a questa
manifestazione inglese dove non si poteva dire se predominasse l’ottusità,
l’improntitudine o il disprezzo assoluto non tanto verso la politica italiana,
quanto verso il popolo italiano, fascista o non fascista che fosse, della
cui intelligenza non si faceva, da parte inglese, il benché minimo
conto". Alessandro Lessona, allora Ministro delle Colonie
del Governo Mussolini, nel 1937, così testimoniò: "Io
ho il privilegio d’essere l’unico collaboratore di Mussolini a conoscenza
del suo segreto pensiero e devo, per la verità, dichiarare solennemente
ch’egli si augurò sempre di evitare il conflitto armato con l’Etiopia.
Anche quando più decisi erano i preparativi, continuò a coltivare
la speranza che "ritenendolo deciso alla guerra" si potesse giungere
ad una soluzione pacifica. Cadono dunque le illazioni e le responsabilità
che si sono volute addossare sulle spalle di Mussolini per aver voluto
provocare la guerra etiopica ed aver così acceso la fiammella della
seconda guerra mondiale. Se responsabilità vi furono, sono da attribuire
alla testardaggine, all’animosità con le quali Eden condusse le
trattative ginevrine". Ma cos’era in definitiva che spingeva la diplomazia
inglese ad una simile linea? Riteniamo, in primo luogo, una diversa politica
inglese nei confronti del pericolo tedesco; infatti pochi giorni prima
la Gran Bretagna aveva stipulato con Hitler quell’indecoroso accordo navale
del quale sopra abbiamo accennato. Secondo: escluso che alcun inglese si
preoccupasse davvero dell’indipendenza o meno dell’Etiopia, altri e più
sottili timori furono a smuovere il Governo britannico e cioè, una
volta che l’Etiopia fosse stata popolata da milioni di coloni italiani
e dotata di un esercito formato da nazionali ed indigeni, essendo quel
Paese posto in una posizione strategica vitale nel seno dell’Africa, sarebbe
stato un serio pericolo per i possedimenti britannici in quelle aree. Altro motivo probabilmente valido e di cui ne condividiamo
il contenuto, è quello esposto da Luigi Rossi in: Uomini che ho
conosciuto: Mussolini, pag. 335: "Fu proprio la visione anticolonialista
ed antiimperalista di Mussolini (che rompeva gli schemi classici degli
interessi afroasiatici di Londra) ad impressionare sfavorevolmente gli
inglesi. Mussolini, a proposito del problema delle colonie (in rapporto
all’ipotesi di un reintegro dei tedeschi in Africa), aveva sostenuto che
per superare i vecchi schemi (visti i fermenti suscitati dopo la guerra
soprattutto da Gandhi), occorreva un salto di qualità. Era necessaria,
quindi, un’integrazione euro-afro-asiatica per valorizzare globalmente
le tecnologie industriali più avanzate e le risorse di materie prime
dei Paesi inseriti nel circuito coloniale, allargando i benefici comuni
a tutte le popolazioni indigene. Era allora una concezione ardita (...)". Sempre nel citato Volume, Luigi Rossi chiarisce
le motivazioni dell’atteggiamento di Antony Eden, nei confronti dell’Italia,
in forma piuttosto colorita. L’Autore riferisce di un colloquio avuto con
un giornalista inglese dell’Agenzia Reuter, Cecil Sprigge: "Immagina"
disse Sprigge a Rossi "che l’Impero britannico sia una grande automobile.
L’abitacolo è rappresentato dal Regno Unito, l’albero di trasmissione
si snoda attraverso il Mediterraneo per arrivare fino all’estremo Oriente,
ma il motore è rappresentato dai possedimenti imperiali. Ti spieghi
così la ragione per cui Eden è stato sempre così pregiudizialmente
contrario a qualunque politica che potesse rafforzare l’Italia nel Mediterraneo.
E siccome questa politica era spinta avanti con forza da Mussolini, ti
spieghi perché Eden fu sempre un irriducibile nemico di Mussolini
stesso. Diverso invece il rapporto con Hitler, nel cuore dell’Europa, stretto
tra la Polonia e la Francia, premuto dalla Cecoslovacchia e guardato a
vista dai sovietici". "La storia recente" obiettò Luigi
Rossi (eravamo allora nel 1956 e l’Impero inglese era già in briciole)
"ha dimostrato che Eden era miope. Anzi quasi cieco". "Sprigge sorrise e mostrò di apprezzare
la battuta. Infatti Sprigge non era malato di edinite" Gli avvenimenti precipitavano: il 20 agosto Mussolini
inviò una lettera a De Bono, posto a capo del corpo di spedizione
italiano in quel settore: "Io credo che dopo il 10 settembre tu debba
senz’altro aspettare la mia parola d’ordine". Il 20 settembre la Home Fleet entrava nel Mediterraneo
con lo scopo evidente di dissuadere l’Italia da ogni azione in Etiopia;
si trattava di una forza mai vista in tempo di pace: 6 navi da battaglia,
diciassette incrociatori di vario tonnellaggio, il tutto scortato da 53
caccia, undici sommergibili, più una gran quantità di unità
di appoggio. "Mussolini" scrive D’Aroma "viveva
in quei giorni un’alternativa grave di pensieri e di decisioni opposte.
Alle volte gli appariva che l’Inghilterra avrebbe alla fine voluto discutere
e non tagliare i ponti; in certe giornate, viceversa, gli pareva certo
che l’Inghilterra, una volta stremata l’Italia con le sanzioni, subito
dopo avrebbe attaccato il nostro Paese". Su queste considerazioni, il Duce preparò
una relazione e la presentò al Re. Così Vittorio Emanuele
III rispose al suo Primo Ministro: "Sapevo quasi tutto quello che
lei m’ha schiettamente riferito. So pure dell’opposizione, cauta ma viva,
che si è diffusa tra i suoi principali collaboratori. M’hanno informato
e so i nomi di molti generali e ammiragli che paventano e discutono troppo.
Ebbene: adesso proprio che gli inglesi sono nel nostro mare e credono di
averci spaventati, adesso il suo vecchio Re le dice: - Duce, vada avanti.
Ci sono io alle sue spalle. Avanti, le dico!". Ricevuto l’ordine di Mussolini, il 3 ottebre le
truppe di De Bono varcarono il fiume Mareb, che segnava il confine fra
l’Eritrea e l’Etiopia. Il giorno prima, alle 18,30, dal balcone di Palazzo
Venezia, oltre all’annuncio dell’inizio delle ostilità, Mussolini
frà l’altro disse: "Non è soltanto un esercito che tende
verso i suoi obiettivi, ma è un popolo intero di quarantaquattro
milioni di anime, contro il quale si tenta di consumare la più nera
delle ingiustizie: quella di toglierci un pò di posto al sole (...)
noi faremo tutto il possibile perché questo conflitto di carattere
coloniale non assuma il carattere e la portata di un conflitto europeo". Il 7 ottobre l’Italia fu dichiarata Paese aggressore
e il 10 ottobre 1935, in virtù dell’art. 16 dello Statuto della
Società delle Nazioni, il Ministro britannico riuscì a mettere
insieme una maggioranza di 51 Stati su 54 che votarono a favore dell’applicazione
di sanzioni economiche contro l’Italia. Era la prima volta, dalla costituzione
della Società delle Nazioni, che tale procedura veniva applicata;
iniziava quella fase che avrebbe fatalmente portato l’Italia a schierarsi
dall’altra parte (come vedremo più avanti) e questo per la difesa
di un Paese che, come disse poi il Segretario degli Affari Esteri inglese,
Lord Simon alla Camera dei Comuni il 24 giugno 1936: "Io non ero disposto
a veder andare una sola nave in una battaglia navale anche vittoriosa per
la causa dell’indipendenza abissina". E allora, perché le sanzioni? Questa domanda assume un aspetto ancor più
inquietante leggendo quanto disse un altro membro della Camera, Lord Mottiston,
rispondendo alla domanda perché non si opponeva all’impresa italiana
in Abissinia: "Volevo distruggere la ridicola aberrazione per cui
sembrava una cosa nobile simpatizzare per le bestie feroci. La legge abissina
era di mutilare i vivi e poi seppellirli nella sabbia affinché morissero.
C’era allora un milione di questa genia; io speravo che coloro i quali
volevano indire manifestazioni contro gli italiani si ricordassero che
i prodi figli d’Italia affrontavano proprio allora quegli sciagurati (...).
Avevo telegrafato al generale De Bono sul problema della schiavitù
in Abissinia, rispose che le truppe italiane erano state accolte col più
commovente entusiasmo non solo da quelli che erano stati ridotti in schiavitù
ma anche dalla popolazione media (...). Rivelai tutto ciò alla Camera
dei Lords il 23 ottobre 1935. Io dissi che era un’infamia mandare armi
o cooperare all’invio di armi ai brutali, crudeli abissini e negarne agli
altri che combattevano con onore (...). Il comandante italiano in Abissinia
aveva telegrafato a Mussolini: "Come sapete ho viveri e vestiario
sufficiente per le truppe per i prossimi mesi, ma non vedo come potrei
nutrire anche 120 mila uomini, donne e bambini che vengono a porsi sotto
la nostra protezione". Mussolini rispose: "Dobbiamo assumerci
tale rischio. Continuate a nutrire la popolazione indigena come prima"
(...)". Iniziava così l’avventura etiopica che, come
disse Churchill a pag. 192: "Il ricordo della disfatta umiliante che
l’Italia aveva subito quarant’anni prima ad Adua, e della vergogna quando
il suo esercito era stato non solo distrutto, ma i prigionieri erano stati
oscenamente seviziati, si annidava esacerbato nella mente di tutti gli
italiani". In ogni caso, mai il consenso del popolo per Mussolini
fu più alto; per rispondere alle inique sanzioni, fu indetta la
Giornata della Fede, tendente a raccogliere oro per far fronte alle difficoltà
dovute al provvedimento della Società delle Nazioni. Solo a Roma
250 mila spose donarono le loro fedi, 180 mila a Milano. Tutta l’Italia
fu percorsa da un’ondata di entusiasmo come mai si verficò nei secoli
passati. Si può dire che l’Italia aveva, finalmente, il suo popolo
omogeneo, da Nord a Sud. Gli stessi antifascisti si allinearono alla politica
mussoliniana: Benedetto Croce donò la sua quantità d’oro
e la sua medaglia di senatore, seguito dal liberale ed ex direttore del
Corriere della Sera Albertini; nello stesso modo agirono Vittorio Emanuele
Orlando e il socialista aventiniano Arturo Labriola, rientrato in Italia
dal suo esilio a Bruxelles, dopo aver comunicato la sua solidarietà
all’Italia fascista. Gli stessi comunisti lanciarono il loro appello
ai fratelli in Camicia Nera. La dichiarata tradizionale amicizia italo-britannica
era in frantumi. Il Governo inglese agiva come se la pace europea si difendesse
nel Corno d’Africa e non, invece, per quanto stava accadendo in Europa. Molto acutamente Trevelyan nella sua Storia d’Inghilterra,
a pag. 834: "E l’Italia, che per la sua posizione geografica poteva
impedire i nostri contatti con l’Austria e coi Paesi balcanici, fu gettata
in braccio alla Germania dalle - sanzioni economiche - decretate e si e
no applicate per l’aggressione di Mussolini contro l’Etiopia (1935-1936).
In questo disgraziato episodio, l’Inghilterra non ebbe la risolutezza né
di rifiutare il suo intervento né di intevenire sul serio. Si sacrificò
l’Europa all’Abissinia, senza salvare l’Abissinia". "Fu gettata nelle braccia della Germania (...)"
Questa frase richiama singolarmente quella di Churchill, citata all’inizio
del presente lavoro: "Adesso che la politica inglese aveva forzato
Mussolini (...)". Tutto ciò non era che la logica conseguenza
dei fallimenti di tutte le iniziative per il disarmo e le soluzioni negoziate,
fallimenti dovuti agli egoismi e alla cecità che generarono dal
famigerato Trattato di Versailles. Alle sanzioni non aderirono Stati Uniti, Giappone
e Germania. Fu quest’ultimo Paese i cui diplomatici, approfittando della
singolare situazione politica europea, furono abili nel cogliere il momento
favorevole e sfruttarlo a proprio vantaggio. Nel tentativo di esporre le ragioni del Governo
italiano, Guglielmo Marconi si recò a Londra, ma non solo cozzò
contro l’intransingenza britannica, ma la Corona inglese giunse a tal punto
d’arroganza da offrire al nostro grande scienziato un titolo nobiliare
purché si astenesse dal dimostrare la sua adesione all’impresa etiopica.
È superfluo aggiungere che Guglielmo Marconi rifiutò sdegnato
l’oltraggiosa offerta. Chi si avvantaggiò di questa situazione fu
Hitler che vedeva prendere sempre più forma il suo disegno tracciato
nel Mein Kampf: un’alleanza politico-militare tra Italia e Germania. A
tal scopo mobilitò abilmente la stampa tedesca che, sull’onda emotiva
delle sanzioni, si prodigò in dichiarazioni di simpatia e di amicizia
per il nostro Paese e, in particolare, per Mussolini. E Mussolini si trovò
a subire il dinamismo hitleriano in quanto i margini di manovra per altra
politica si erano paurosamente ristretti, ma anche perché e soprattutto
perché l’Italia dipendeva principalmente dalla Germania per le forniture
delle materie prime. Peraltro, anche durante il conflitto italo-etiopico,
Mussolini non dette mai seguito agli inviti che venivano da oltr’Alpe.
Come disse giustamente, a nostro avviso, Renzo De Felice in un’intervista
rilasciata in occasione del cinquantenario dell’entrata in guerra dell’Italia:
"Mussolini aveva un’atavica paura dei tedeschi". In quest’ottica,
riteniamo, va letta la politica estera mussoliniana nella seconda metà
degli anni ’30. La sera del 5 maggio 1936, di fronte a una folla
immensa, dal balcone di Palazzo Venezia, Mussolini annunciò la vittoriosa
conclusione dell’impresa africana e, fra l’altro, proclamò: "Nell’adunata
del 2 ottobre, io promisi solennemente che avrei fatto tutto il possibile
onde evitare che un conflitto africano si dilatasse in una guerra europea.
Ho mantenuto tale impegno e più che mai sono convinto che turbare
la pace in Europa significa far crollare l’Europa". Poche volte una
profezia si è trasformata in storia come nel caso appena citato. Il 9 maggio dello stesso anno, tra le 22,30 e le
22,45, Mussolini pronunciò un altro discorso: "Il discorso
della proclamazione dell’Impero". Quando si affacciò al balcone
un urlo immenso si levò dalla folla: "Anche stavolta l’adunata
oceanica è impressionante" "(...) L’Italia ha finalmente il suo Impero,
Impero fascista, perché porta i segni indistruttibili della volontà
e della potenza del Littorio romano, perché questa è la meta
verso la quale durante quattordici anni furono sollecitate le energie prorompenti
e disciplinate dei giovani, gagliarde generazioni italiane. Impero di pace,
perché l’Italia vuole la pace per sé e per tutti e si decide
alla guerra soltanto quando vi è forzata da imperiose, incoercibili
necessità di vita. Impero di civiltà e umanità per
tutte le popolazioni d’Etiopia. Questo è nelle tradizioni di Roma,
che dopo aver vinto, associava i popoli al suo destino". Questi principi di civiltà sono confermati
da Renzo De Felice ne: Intervista sul fascismo, pag. 52: "Non si tratta
di imperialismo di tipo inglese o francese: è un imperialismo, un
colonialismo che tende all’emigrazione, che spera cioè che grandi
masse di italiani possano trapiantarsi in quelle terre per lavorare, per
trovare quelle possibilità che non hanno in patria. Insomma non
si parte tanto dall’idea di sfruttare le colonie, quanto soprattutto dalla
speranza di potervi trovare terra e lavoro". È quello che francesi e inglesi non intendevano
tollerare: sarebbe stato un esempio pericoloso per la politica coloniale
di quei Paesi che non volevano saperne di cambiare, cioè mantenere
il principio che le colonie erano terre da sfruttare. Cessata la guerra in Africa, cessò anche
a Ginevra: qui il 30 maggio 1936 Hailè Selassiè avanzò
una proposta tendente a non far riconoscere la conquista italiana; venne
respinta con 28 voti contro 1 e 25 astensioni. Il 4 luglio successivo l’Assemblea,
quasi all’unanimità votò per la fine delle sanzioni. Fu un
innegabile successo di Mussolini, ma una sconfitta del buon senso. Osserva Trevelyan in Storia d’Inghilterra, pag.
834: "Gli storici futuri avranno lo sgradevole compito di ripartire
la colpa dei molti errori commessi fra i successivi Governi inglesi e l’opposizione
e l’opinione pubblica i cui umori mutevoli sono stati spesso accarezzati
dai Governi con troppa docilità". Infatti il danno era compiuto: Inghilterra e Francia
avevano mostrato la propria ostilità al Governo fascista. Ma altri
errori, forse (semmai possibile) ancora più gravi, saranno posti
in atto addirittura nelle settimane successive. Anche la Chiesa di Roma elogiò l’impresa
etiopica: il gesuita Antonio Messineo su Civiltà Cattolica plaudì
con due saggi intitolati: L’annessione territoriale nella tradizione cattolica
e Necessità economica ed espansione coloniale. Fu il Cardinale Ildefonso Schuster a richiamare
la volontà divina: "Cooperiamo con Dio in questa missione nazionale
e cattolica in bene, in questo momento in cui sui campi d’Etiopia il vessillo
d’Italia reca in trionfo la Croce di Cristo, spezza la catena degli schiavi,
spiana la strada ai missionari del Vangelo". Pochi anni dopo, nel momento del maggior bisogno,
tutto sarà nascosto e dimenticato. Il clero anglicano prese posizione ma, al contrario
della Chiesa cattolica era allarmato dei successi italiani (e aveva fondati
motivi per preoccuparsi) perché l’Italia cattolica (che non era
più l’Italietta) minacciava di erodere l’impero britannico anche
per mezzo della religione. Scrive in merito Franco Monaco a pagina 76 del
Quando l’Italia era Italia: "Di qui le prediche contro l’Italia, feroci
e calunniose, del primate Arcivescovo di Canterbury e del Vescovo di York.
Agli inglesi non si poteva dare torto. In effetti le nostre aspirazioni
andavano molto più in là delle loro stesse paure. Un giorno
tutta intera la fascia orientale africana, con l’Egitto, il Sudan e giù
giù fino all’Uganda e al Kenya, avrebbe potuto vederli finalmente
partire per sempre. L’Etiopia non era che il primo passo, il primo di un
cammino non solo politico: poiché la Nazione giovane portava nel
suo seno il cuore del Cattolicesimo e le due forze si integravano (...)". Certamente i timori britannici erano fondati; si
consideri, oltretutto, che il Governo italiano prevedeva di inviare in
Etiopia ben 15 milioni di coloni e all’uopo stava predisponendo grandiosi
lavori strutturali. Per il leone britannico era troppo! Anche se l’argomento sarà trattato con maggior
rilievo nel volume Uno scudo protettivo - Mussolini, il Fascismo e gli
ebrei, è opportuno rilevare in questa sede, che la conquista dell’Etiopia
e la successiva proclamazione dell’Impero, furono salutate dalla stampa
ebraica e dalla stragrande maggioranza degli ebrei italiani, con esultanza. Su Israel del 10 ottobre 1935, in occasione del
Kippur, i Rabbini invocarono il favore divino "in quest’ora storica
e su chi regge i destini e sui valorosi soldati italiani". In ampie zone dell’Etiopia, fra Gondar e il lago
Tana, vivevano popolazioni di religione giudaica: i falascià. L’Unione
delle Comunità giudaiche, nel 1936, prese contatto con il Ministro
delle Colonie, Lessona, allo scopo di assistere e organizzare gli ebrei
etiopici. Da parte del Ministro ci fu la massima disponibilità. L’incarico di questa operazione fu assunto dal Rabbino
Carlo Alberto Viterbo. A fine luglio 1936 C.A. Viterbo partì per
l’Africa Orientale e il 22 agosto successivo si incontrò ad Addis
Abeba con il Maresciallo Rodolfo Graziani "che gli manifestò
la sua comprensione e simpatia per gli israeliti" e lo assicurò
che: "le popolazioni falascià, note per il loro spirito laborioso,
avrebbero ottenuto la particolare benevola attenzione del Governo". Uno dei risultati di questa iniziativa fu che molti
ebrei etiopici vennero a studiare, negli anni successivi, in Italia. Prima di chiudere l’argomento del conflitto italo-etiopico,
non è male riportare quanto in questi giorni (febbraio 1996) alcuni
giornali titolano: Il Duce in Etiopia usÒ i gas. Sono scoperte ripetute
da Denis Mac Smith e immediatamente ampliate da Angelo Del Boca. Le smentite
vengono proprio da coloro che erano sul posto e sono innumerevoli. Ne riportiamo
solo due perché racchiudono nei concetti le motivazioni delle altre. Il Signor Toni Summanga di Venezia, l’8 maggio 1991
su Il Giornale fra l’altro ricorda: "Francia e Inghilterra deluse
del mancato fallimento dell’operazione diffusero subito la voce che gli
italiani avevano usato i gas. Io in Africa Orientale ci sono stato. Appena
arrivato ad Addis Abeba, mi fu chiesto da un commerciante francese che
risiedeva sul posto se avevamo usato i gas. Da Massaua ad Addis Abeba,
non ho mai visto né sentito parlare di maschere che pure avremmo
dovuto usare se avessimo lanciato i gas. Abbiamo impiegato le armi convenzionali
(moschetto, cannone, qualche velivolo e truppe coloniali (...)". Per avere un altro giudizio più diretto,
l’8 febbraio 1996 abbiamo contattato il generale Angelo Bastiani, presidente
del gruppo Medaglie d’Oro del Nastro Azzurro. Oggi DECEDUTO, all’epoca
della guerra in Africa Orientale era un sottufficiale al comando di una
banda coloniale. Il generale Bastiani ci ha detto: "È una vigliaccata,
rieccoci con le carognate. Io e i miei indigeni eravamo le avanguardie
di ogni assalto, ci avrebbero dato almeno le maschere antigas… Alla battaglia
conclusiva di Maiceo, al lago Ashraghi, quella a cui partecipò anche
il Negus… a proposito del Negus: perché lui che ne avrebbe avuto
tutto l’interesse, mai disse che lo combattemmo coi gas?". (…) da BENITO MUSSOLINI, L'UOMO DELLA PACE - DA VERSAILLES AL 10 GIUGNO
1940. Guido Mussolini e Filippo Giannini Anno di Edizione: 1998. Greco&Greco editori. (Indirizzo
e telefono: vedi EDITORI)