La storia ignorata
Di Fabio Calabrese
Alcuni anni fa il principe Otto d'Asburgo allora rettore dell'università di
Urbino, nella sua prolusione d'inizio dell'anno accademico, a proposito
della conoscenza della storia, fece un commento meno banale e più profondo
di quel che può sembrare a prima vista:
“Chi non sa da dove viene”, disse, “non può sapere dove va, perché non sa
dove si trova”.
I concetti che noi abbiamo della storia influenzano l'idea che ci facciamo
del presente, e quindi contribuiscono a determinare le nostre azioni in
vista del futuro; per questo motivo, tutti gli studiosi dei fenomeni sociali
e politici, da Malinsky e De Poncins ad Orwell, hanno messo in rilievo il
fatto che la manipolazione della conoscenza storica è uno degli strumenti
principali dei sistemi che, totalitari o sedicenti democratici che siano, si
propongono di plagiare l'opinione pubblica.
Le democrazie, è noto, non ricorrono ad un sistema dichiarato di censura, ma
al plagio di un potente sistema mediatico, oltre alla sommesione delle voci
dissidenti in un coro continuo di “informazioni” futili e/o irrilevanti.
“E' possibile ingannare tutti per un certo tempo”, recita un detto, “ed è
possibile ingannare qualcuno per sempre, ma non si possono ingannare tutti
per sempre”. Io mi auguro ardentemente che ciò sia vero, e forse non solo lo
è, ma siamo giunti ad un punto di rottura. Se il catalogo di un'agenzia
libraria on line che si occupa di diffondere le opere di piccole case
editrici, che non ha una caratterizzazione politica, somiglia sempre di più
a quello di una libreria revisionista, questo significa che “il potere” pur
con i suoi potenti mezzi sta rimanendo sempre più solo nel ripetere le sue
sempre meno credibili menzogne di stato soprattutto in campo storico, su
tematiche quali fascismo e antifascismo, resistenza, comunismo, guerra
fredda; è una situazione che per certi versi ricorda la glasnost degli
ultimi tempi dell'Unione Sovietica con Gorbacev.
Sarà che di questi tempi il Grande Fratello mondiale non se la passa troppo
bene: l'Irak somiglia sempre di più al Vietnam, Bagdad è peggio di Saigon;
in Afghanistan la resistenza che sembrava schiacciata sta rialzando la
testa, anche in Libano Hezbollah si è dimostrata uno scoglio più duro del
previsto, poi c'è l'Iran che non si piega né alle minacce né ai ricatti, e
come se non bastasse ci sono anche le rogne nel cortile dietro casa: il
Venezuela di Chavez, il Brasile di Lula. Fatto sta che anche nella sin qui
servilissima colonia Italia si comincia a parlare un linguaggio più libero,
cominciando proprio dal revisionismo storico, così temuto dal Grande
Fratello orwelliano e da quello reale. La storia (sin qui) ignorata torna
sotto i riflettori e le sue lezioni possono indurre a rivedere
l'atteggiamento verso il presente.
Parliamo de “La bottega editoriale”, il bollettino, reperibile all'indirizzo
bottegaeditoriale1@soveria.info che recensisce due collane
“dire-fare-scrivere” e “scripta manent” dell'editore Rubettino. Nella prima
troviamo la recensione del libro di Paolo Palma Il telefonista che spiava il
quirinale – 25 luglio 1943, (recensione di Paolo Acanfora), nella seconda La
resistenza demitizzata di Giampaolo Pansa (recensione di Francesco Fatica) e
Compagno cittadino, il PCI tra via parlamentare e lotta armata di Salvatore
Sechi (recensione di Carmine De Fazio).
“Il telefonista che spiava il quirinale” non è un personaggio letterario, è
Giuseppe Mangione, allora appunto telefonista del quirinale e che dopo la
guerra acquisì una certa fama come sceneggiatore, che intercettò e
trascrisse le conversazioni telefoniche del re Vittorio Emanuele III e del
suo entourage attorno al luglio 1943. Le trascrizioni furono poi consegnate
al noto esponente partigiano Rodolfo Pacciardi fra le cui carte sono state
recentemente ritrovate.
Quello che ne emerge, è un quadro completamente diverso da quel che ci
eravamo abituati a considerare di un episodio chiave della nostra
partecipazione al secondo conflitto mondiale, quale fu quello del 25 luglio
1943, il “ribaltone” con cui fu soppresso il regime fascista, e che doveva
preludere di lì a poco all'altro ed ancor più drammatico ed infamante
“ribaltone”, l'armistizio ed il cambiamento di fronte dell'8 settembre.
Contrariamente a quel che ci è stato fatto credere così a lungo, l'
“arresto” (ma di arresto non si trattò) di Benito Mussolini quando questi,
dopo essere stato messo in minoranza nella seduta del Gran Consiglio del
fascismo si recò dal re per presentargli le proprie dimissioni, non fu per
nulla frutto di una decisione improvvisa di Vittorio Emanuele III, ma
l'esito ultimo di una cospirazione accuratamente preparata, una congiura che
ebbe la sua “anima”, la sua “eminenza grigia” nel ministro Acquarone, un
personaggio che finora gli storici hanno considerato assolutamente di
secondo piano.
Per gli antifascisti di allora, di poi, di oggi, è sempre stato motivo
d'imbarazzo il fatto che la “bieca” dittatura mussoliniana finisse in una
maniera così “parlamentare”, con una votazione, ed ancora il fatto che dopo
essere stato messo in minoranza dal Gran Consiglio, Mussolini si sia recato
tranquillamente ad offrire al re le proprie dimissioni. E' stato questo il
comportamento di un tiranno? O non piuttosto quello di un leale servitore
dell'Italia con la coscienza tranquilla, il cui torto, semmai, è stato
quello di non avvertire la fosca atmosfera da congiura da basso impero
bizantino che altri gli avevano addensato attorno, come spesso accade alle
persone sincere e leali che non sono in grado di comprendere fino in fondo
la malizia altrui? Se invece Mussolini scelse consapevolmente di consegnarsi
nelle mani di chi voleva distruggerlo, può averlo fatto solo nel tentativo
di evitare che per l'Italia alla tragedia del conflitto si sommasse l'altra
tragedia della guerra civile. In ogni caso, la sua statura morale ne esce
ingigantita: un gigante circondato da una torma di squallidi gnomi intenti
solo a cercare di trarre un profitto personale dalle sventure della Patria.
In realtà questo libro aggiunge nuovi tasselli ad un mosaico che il gran
parte conoscevamo già, così come sappiamo che all'uscita dal quirinale
Mussolini non fu arrestato con un atto che avesse qualche parvenza di
legalità, ma rapito e portato via in segreto su di un'ambulanza: è evidente
che i cospiratori temevano una reazione popolare, ed in tal modo
confessavano involontariamente la popolarità di cui ancora godeva Mussolini
a dispetto del disastroso andamento della guerra.
E non parliamo di altri fatti oscuri di quella tragica fine di luglio che
sembrava anticipare sinistramente la guerra civile, come l'assassinio in un
vile agguato di Ettore Muti “il più bello” e sicuramente uno dei più amati
leader fascisti.
In realtà, non è da adesso che sappiamo che fin dall'inizio del conflitto la
monarchia e gli alti gradi militari ad essa vicini tennero un comportamento
ambiguo, “il piede in due staffe”, come si dice, od arrivarono a sabotare lo
sforzo bellico collaborando apertamente con il nemico, al prezzo delle vite
cinicamente sacrificate di migliaia di nostri combattenti.
Poiché la repubblica nata dalla “resistenza” si è sempre preoccupata di non
far conoscere agli Italiani la verità sulla tragedia che li aveva colpiti, e
di nascondere il volto vile e laido dell'antifascismo, quello che fu il
nostro più valido scrittore di cose militari, Antonino Trizzino andò
incontro nel dopoguerra a tre processi per aver affermato e documentato nel
suo celebre Navi e poltrone un fatto basilare ed incontrovertibile: la
condotta della Regia Marina, dei suoi alti comandi, fu, dal punto di vista
dell'interesse nazionale, folle e suicida: i nostri convogli destinati al
nord-Africa furono mandati senza scorta lungo le rotte di un mare dove i
britannici avevano una schiacciante superiorità; le vite di migliaia di
nostri marinai furono sacrificate invano, e nel contempo la penuria di
rifornimenti determinò il crollo del fronte africano che aprì le porte
all'invasione dell'Italia. Non basta, in un altro libro dal titolo
eloquente, Gli amici dei nemici, Trizzino ha documentato i contatti che ci
furono fra i nostri alti comandi ed i britannici che furono costantemente
informati dei movimenti delle nostre truppe e dei nostri convogli. La
monarchia ed il suo entourage, gli alti gradi militari si preparavano a
saltare sul carro del probabile vincitore o (le due ipotesi non sono in
contrasto) vedevano nella sconfitta un mezzo per sbarazzarsi del fascismo.
Peccato che intanto a farne le spese erano, con le loro vite, i nostri
soldati ed i nostri marinai, e tutto ciò ha sempre avuto un solo nome:
tradimento.
Se poi aggiungiamo che la monarchia fece forti pressioni sul fascismo perché
si arrivasse al più presto all'entrata in guerra, essendo Mussolini
riluttante, ed i Tedeschi che conoscevano lo stato d'impreparazione delle
nostre forze armate dopo che l'Italia aveva appena speso tutte le sue
energie in due guerre consecutive in Etiopia e Spagna, nettamente contrari
(non a caso, il giorno scelto per la dichiarazione di guerra fu il 10
giugno, il compleanno del re), è difficile sottrarsi alla conclusione che le
vite degli Italiani e l'avvenire stesso dell'Italia siano stati sacrificati
sull'altare di uno sporco gioco di potere.
Passiamo all'altro libro che bene s'inserisce su questa tematica: La
resistenza demitizzata è per ora l'ultimo anello di una catena che l'autore
ha iniziato nel 2003 con il bestseller Il sangue dei vinti, proseguita poi
con Sconosciuto 1945 del 2005 e La grande bugia del 2006. La resistenza, lo
sappiamo, non fu un'epopea, non ebbe nulla di nobile, fu un carnaio truce e
vile, fatto di attentati e di colpi alla schiena, diretta contro i Tedeschi,
ma soprattutto contro coloro che dopo l'8 settembre 1943 avevano continuato
a combattere lo stesso nemico, e contro quanti minacciavano di essere un
ostacolo alla “rivoluzione socialista” che si pensava d'instaurare a guerra
finita. La stragrande maggioranza dei militi della Repubblica Sociale uccisi
da mano comunista non caddero in combattimento, ma furono trucidati dopo
essersi arresi ed aver ceduto le armi, quando non erano più in grado di
difendersi. Con il 25 aprile 1945 non arrivò la “liberazione” ma la
mattanza. Coloro che per due anni sanguinosi non erano stati capaci di fare
altro che nascondersi sulle montagne, compiere attentati, colpire alla
schiena, ora, vincitori per procura grazie ai bombardieri ed ai tank
americani, sfogavano sui vinti e sugli inermi la loro barbarie bestiale.
La “resistenza” non è stata altro che questo, la pagina forse più vergognosa
della nostra storia bimillenaria. Non questo lo sappiamo, lo sapevamo già
ben prima che Giampaolo Pansa arrivasse a dirlo, tuttavia è un fatto molto
importante che uno storico di formazione di sinistra e quindi antifascista
arrivasse a dirlo, a renderlo noto al grosso pubblico tenuto nell'ignoranza
per più di mezzo secolo.
Giampaolo Pansa ha iniziato questo percorso nel 2002, con un testo sui
combattenti della Repubblica Sociale, I figli dell'aquila, e probabilmente a
questo punto si è trovato di fronte alla verità di cosa è stata la
“resistenza”, un'orrenda faida condotta soprattutto a guerra finita contro
un “nemico” ormai inerme, poteva, come tanti prima di lui, insabbiare tutto,
invece ha avuto il coraggio di rompere il muro dell'omertà. Come La grande
bugia, La resistenza demitizzata è dedicata soprattutto a smentire gli
avvocati d'ufficio della resistenza, i ben pagati megafoni e leccapiedi del
regime che vorrebbero tenere la grande bugia ancora in piedi: Giorgio Bocca,
Alessandro Curzi, Paolo Flores d'Arcais, Sergio Luzzatto, ed altri esemplari
del più lugubre bestiario di quanti vilipendono la storia e prostituiscono
l'informazione.
Chi mente sapendo di mentire, molto spesso finisce per darsi la zappa sui
piedi, e così Pansa ha buon gioco citando un'affermazione di Giorgio Bocca,
il più accanito di quanti vorrebbero confutarlo:
«Il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell’occupante, ma
per provocarlo, per inasprirlo. Esso è autolesionismo premeditato: cerca le
ferite, le punizioni, le rappresaglie per coinvolgere gli incerti, per
scavare il fosso dell’odio. È una pedagogia impietosa, una lezione feroce».
In poche parole, il solco di ostilità fra la popolazione ed i Tedeschi e i
combattenti repubblicani fu creato artatamente, con attentati che aveva lo
scopo di provocare le rappresaglie secondo la logica del “tanto peggio,
tanto meglio da parte di chi mirava a fare “la rivoluzione” e non aveva
alcuna preoccupazione di quanto questa logica aberrante sarebbe costata
all'Italia in termini di morti e distruzioni.
Nel libro è contenuto un omaggio doveroso ad un uomo che ha cercato invano
di raccontare agli Italiani la verità: Giorgio Pisanò, autore di volumi come
Storia della guerra civile in Italia e Gli ultimi in grigioverde che,
nonostante un'indiscussa competenza, serietà e probità come storico non
riuscì a trovare un editore abbastanza coraggioso da pubblicare la verità
sul periodo più buio della storia d'Italia, allora divenne egli stesso
editore, e la cui tipografia fu distrutta per ben quattro volte da quattro
attentati rimasti rigorosamente senza colpevoli e che non ebbero alcuna eco
sui mezzi “d'informazione”.
Da parte mia, aggiungerei un punto che sembra finora sfuggito a Pansa ed
alla gran parte degli storici che si sono occupati di questi fatti. A
sinistra è diffusa la leggenda, che ha sicuramente meno fondamento di quella
dell'esistenza del mostro di Loch Ness, che la “liberazione” sarebbe stata
opera dei “resistenti”, dei partigiani, e che gli angloamericani arrivati a
cose fatte, si sarebbero limitati a togliere loro di mano il frutto della
vittoria. Questa leggenda comporta una confusione fra attentati,
pistolettate alla schiena nei vicoli, atti di terrorismo ed azioni militari.
C'è poi da stupirsi se qualcuno cresciuto in questo tipo di “cultura” abbia
poi pensato di riprendere “la lotta rivoluzionaria” con gli stessi metodi?
Diciamo la verità una volta per tutte: le Brigate Rosse sono state figlie
legittime della “resistenza” e della “cultura resistenziale”!
In questo discorso, ben s'inserisce il terzo libro citato, Compagno
cittadino, il PCI tra via parlamentare e lotta armata di Salvatore Sechi. In
questo caso, non si tratta per la verità di un testo organico ma di una
raccolta di saggi, ma questo non muta in nulla la sostanza delle cose, che è
semplicemente questa: il PCI ha sempre posseduto una struttura paramilitare
segreta pronta ad intervenire per instaurare con la forza anche in Italia un
regime comunista non appena le circostanze di politica interna e soprattutto
internazionale l'avessero reso possibile, quella cui si è ripetutamente
alluso come “Gladio rossa”.
La prima cosa che Sechi e De Fazio sulle sue orme ci fanno notare, è
l'estrema difficoltà che esiste ancora oggi nel raccogliere informazioni su
questo argomento, stante il clima omertoso, il “muro di gomma” che ancora
oggi circonda tutto ciò che riguarda il Partito Comunista, eretto con
l'attiva complicità di giornalisti e sedicenti intellettuali di sinistra:
“Il “muro di gomma” che esiste sull’argomento sembra essere stato messo in
piedi per nascondere qualsiasi tipo di ricerca della verità storica da
intellettuali faziosi e direttamente controllati dalla struttura partitica.
Questa componente rappresenta un altro elemento di critica di Sechi, quello
cioè, che la sinistra in generale (il riferimento è al Pci ma anche al Psi)
avesse sempre avuto dalla sua parte, gestendo con molta attenzione una
cerchia di giornalisti, scrittori e intellettuali che avrebbero permesso una
“scrittura”, appunto, della storia relativa a questi partiti soprattutto,
poco veritiera o strettamente di parte”.
Una delle poche cose che appaiono sicure al riguardo, è che questa struttura
non sarebbe potuta esistere senza la disponibilità di grandi quantità di
denaro, di origine certamente illecita. La fonte principale sembra essere
stato il sistema di tangenti imposto dal PCI alle aziende italiane che
intendevano commerciare con i Paesi comunisti, ossia proprio quel sistema di
“pizzo” mafioso che tutti conoscevano fino alla fine degli anni '80 e di cui
l'inchiesta “mani pulite” non ha voluto trovare traccia:
“A fianco delle grosse capacità di gestione e mantenimento del sistema
partitico, c’era un apparato che prendeva sostentamento dalle ingenti
quantità di denaro che il Pci riusciva a cooptare dai grandi mercati
internazionali e che, a dire dell’autore, ne faceva il punto di riferimento
del mercato import-export verso e dai paesi europei sotto l’orbita sovietica
e anche verso il mercato “rosso” orientale rappresentato dalla Cina.”
C'è una considerazione che merita aggiungere: il nomignolo di “Gladio rossa”
attribuito alla struttura paramilitare clandestina del PCI che, c'informa
Sechi, non cessò di essere operativa prima degli anni '80, è del tutto
improprio. “Gladio”, ovvero “Stay Behind” era una struttura segreta ma
pienamente legittima costituita in ambito NATO con il compito di organizzare
la resistenza dietro le linee in caso d'invasione sovietica. L'esistenza di
tale struttura fu resa di dominio pubblico, vanificandone la funzione,
dall'allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti con un atto contrario
alla sicurezza nazionale, per ingraziarsi il PCI. Se qualcuno agì in modo
illecito ed in danno dell'interesse nazionale nella vicenda “Gladio” fu lo
stesso Andreotti, un individuo che, non solo per questa vicenda, ma si pensi
ad esempio alla sua implicazione nell'assassinio del giornalista Mino
Pecorelli e ai suoi legami con il boss mafioso Totò Riina, dovrebbe sedere a
vita non sui banchi di Palazzo Madama ma sul tavolato di una cella.
Quello di “Gladio” non fu il solo caso nel quale una struttura del tutto
legittima che svolgeva attività anticomunista, fu criminalizzata e fatta
passare per golpista; un altro esempio allucinante fu la vicenda di Edgardo
Sogno, a capo di una struttura che si occupava di fornire assistenza a
quanti cercavano di fuggire od erano fuggiti dai “paradisi” comunisti
dell'Est. Il PM Luciano Violante imbastì contro di lui una montatura
giudiziaria “golpista” che non aveva nessun riscontro nella realtà. Per
Sogno iniziò una lunga ed allucinante vicenda giudiziaria che è poco
definire kafkiana, e per Violante una rapida carriera politica che lo ha
portato fino alla presidenza della Camera. Dovremmo seriamente interrogarci
sul vero significato di una democrazia che tratta da criminali coloro che
difendono la libertà, e porta ladri, assassini e farabutti di ogni specie ai
supremi vertici dello stato.
La cosiddetta “Gladio rossa”, invece, era un'organizzazione del tutto
illegale con compiti di sovversione e, presentandosi l'occasione, di presa
del potere con la violenza o di fiancheggiamento di un'eventuale invasione
sovietica. Tutto ciò nell'ormai desueto linguaggio dei nostri padri aveva un
nome preciso: tradimento.
Indipendentemente da quali fossero le sue finalità, la “Gladio rossa” era
un'organizzazione illegale di per sé, poiché in Italia c'è una legge, la
legge Scelba che proibisce ai partiti di dotarsi di organizzazioni
paramilitari, ma siamo sinceri, nessun PM avrebbe mai incriminato né tanto
meno nessun giudice avrebbe mai condannato il PCI in base alla legge Scelba,
perché la democrazia ha un'altra stranezza, certe leggi sono “strabiche”,
colpiscono una parte politica (e sono fatte apposta per colpirla), ma non le
altre. Un esempio recente di ciò è anche la legge Mastella da poco
introdotta che introduce il reato di “istigazione al genocidio”, ma possiamo
essere matematicamente sicuri che essa non colpirà mai gli esaltatori delle
foibe; ed io che vivo a Trieste, una città dove c'è una minoranza slovena
che ha mantenuto intatto tutto il suo sciovinismo antiitaliano, vi posso
assicurare che ce ne sono.
Il muro delle menzogne comincia a mostrare le prime crepe, ma non ci
dobbiamo illudere: l'era degli inganni non è finita e non finirà né domani
né dopodomani, ma un giorno la gente non ne potrà più di coloro che non
hanno fatto altro che ingannarla, e sulla menzogna hanno fondato il loro
potere.