Riporto un commento ricevuto che si
occupa di un avvenimento negativo della nostra storia recente. Si tratta
della volontaria cessione dell’Istria alla Youguslavia, sotto la spinta
del partito comunista di Berlinguer. Per chi non lo sapesse (e
probabilmente sono la maggioranza dei giovani d’oggi, l’Istria è stata
italiana per oltre un millennio. Le popolazioni d’Istria e Dalmazia
furono le più fedeli alla Serenissima Repubblica di Venezia. Furono
perseguitate da Tito alla fine dopo la seconda guerra mondiale e, quel
che è peggio, trascurate e perseguitate anche in Italia.
Ecco quanto ho ricevuto:
OSIMO : IL TRATTATO SURREALE
Nella storia dei popoli e degli Stati
esistono eventi che non è possibile rimuovere dalla memoria: da un lato,
per gli effetti immediati di natura politica ed economica, e
dall’altro, per le conseguenze che, unitamente alle loro matrici, vanno a
determinare sugli orientamenti decisionali, e sullo stesso inconscio
collettivo. Il trattato di Osimo non fa eccezione, né potrebbe essere
diversamente, perché ha costituito una novità davvero surreale nella
storia delle relazioni diplomatiche: non era mai accaduto che uno Stato
sovrano rinunciasse alla sovranità su una quota significativa del
proprio territorio, senza alcuna contropartita, come accadde nella
fattispecie.
La firma ebbe luogo
precisamente il 10 novembre 1975, da parte del Ministro degli Affari
Esteri Mariano Rumor e del suo omologo jugoslavo Milos Minic, in un
clima di frettolosa segretezza, motivata da ragioni di opportunità
politica che intendevano nascondere alla pubblica opinione un evento non
certo accettabile sul piano giuridico, e meno che mai su quello etico.
Del resto, anche le trattative erano state condotte in analoghe
condizioni di riservatezza, quasi da consorteria, ed il Governo italiano
le aveva affidate, anche nella fase conclusiva, a soggetti
sostanzialmente inidonei, perchè estranei al mondo diplomatico. Non era
mai accaduto!
Con Osimo, l’Italia volle trasferire alla
Jugoslavia la sovranità statuale sulla cosiddetta Zona “B” del
Territorio Libero di Trieste, che non era mai stato costituito con atto
formale, sacrificando altre migliaia di cittadini, costringendoli a
prendere le vie dell’esilio in aggiunta ai 300 mila che li avevano
preceduti al termine delle vicende belliche, e sottoscrivendo il
trasferimento alla Repubblica federativa di un’area pari al tre per
mille del territorio italiano, su cui insistono aggregati urbani
importanti come quelli di Buie, Capodistria, Pirano, Portorose, Umago.
Naturalmente, la responsabilità politica, al di là di pur giustificati
dubbi sulle reali competenze dei plenipotenziari italiani, guidati da un
dirigente del Minindustria, fu soprattutto del Governo, e con esso, del
Parlamento che ebbe a ratificarne l’operato, sia pure con diffuse
sofferenze.
Oggi, ad un terzo di secolo da Osimo, è
congruo fare il punto sulle ragioni che indussero determinazioni tanto
opinabili, in una prospettiva storica per quanto possibile oggettiva, ma
nello stesso tempo, in un’ottica di inevitabile “contemporaneità”,
tanto più che la prassi “osimante” fece scuola, si tradusse in ulteriori
cedimenti di carattere politico ed economico, e pervenne, quale effetto
di rilievo maggiormente visibile, al riconoscimento delle nuove
Repubbliche indipendenti di Croazia e Slovenia, sorte all’inizio degli
anni novanta dalla dissoluzione jugoslava: anch’esso, come il trattato
del 10 novembre 1975, senza alcuna contropartita. Eppure, i problemi sul
tappeto, molti dei quali lo sono tuttora, non erano di scarsa
consistenza: anzi tutto, il riconoscimento della verità storica, e poi,
la tutela dei monumenti e delle tombe italiane oltre confine, la sorte
dei beni immobili già appartenenti agli esuli, il regime delle acque
territoriali, gli accordi per la pesca in Adriatico, e così via.
Evidentemente, la storia non è maestra di
vita, perché altrimenti non si commetterebbero gli stessi errori del
passato. Nondimeno, l’analisi delle motivazioni che indussero Osimo, e
delle conseguenze che ne derivarono a breve e lungo termine, è
ugualmente importante: se non altro, perché risulta utile a collocare i
problemi di oggi in una dimensione storica esauriente, ed a riconoscere
nella politica estera italiana verso la Jugoslavia ed i suoi eredi la
continuità di una posizione di “debolezza e di scarsa coscienza
nazionale” (1).
1.- Il quadro di riferimento
Alla metà degli settanta, quando il
trattato di Osimo divenne realtà dopo un lungo periodo di incubazione,
le condizioni politiche internazionali, ed a più forte ragione quelle
interne, erano mature per l’evento. Nel quadro mondiale, il primo maggio
1975 si era conclusa la guerra vietnamita con l’abbandono di Saigon da
parte delle forze statunitensi, ma già da diversi anni la politica di
“non allineamento” del Maresciallo Tito, Presidente a vita della
Jugoslavia, era stata premiata dalle attenzioni dell’Occidente,
culminate nella visita di Stato che il Presidente americano Nixon gli
aveva reso a Belgrado sin dal 1971, nonostante la negazione dei diritti
umani da parte del regime, che nello stesso periodo aveva condannato a
sette anni di carcere duro un intellettuale dissidente, Mirko Vidovich,
responsabile di avere scritto alcune poesie critiche nei confronti del
dittatore, e nulla più.
Sempre nel 1971, Tito era stato ricevuto
in Vaticano da Papa Paolo VI assieme all’ultima moglie Jovanka,
completando il processo di riavvicinamento alla Santa Sede che era
iniziato un quinquennio prima, con la ripresa delle relazioni
diplomatiche. La posizione jugoslava, collocandosi in un ruolo
apparentemente equidistante da Mosca e da Washington, acquisiva
crescente credibilità, resa più accentuata dalla tensione col regime dei
colonnelli greci che sarebbe crollato nel 1974, e dall’eliminazione in
pari data di un gruppo sovversivo di ispirazione nazionalista. Tito
valorizzava al massimo la sua “leadership” nel movimento dei Paesi non
allineati, che giunsero ad un massimo di 44, ma con la sola Jugoslavia a
rappresentarvi il continente europeo, e non trascurava di polemizzare
con presunte “organizzazioni irredentiste e revansciste” italiane,
sollecitando nei loro confronti un impegno a tutto campo e trovando
fertile ascolto anche a Roma.
In Italia si vivevano momenti difficili.
Nel 1975 persero la vita non meno di dodici vittime degli “opposti
estremismi”, tra cui gli studenti di destra Mikis Mantakas e Sergio
Ramelli, e la brigatista Mara Cagol, compagna di Renato Curcio. Il
Presidente Leone, poche settimane prima di Osimo, indirizzò un messaggio
al Paese per invitarlo a fare quadrato contro le difficoltà dell’ora,
in un clima di forte disagio che aveva già visto il notevole successo
del Partito comunista nelle elezioni amministrative di giugno,
tradottosi in un avanzamento di oltre cinque punti, e non era stato
estraneo all’abbassamento della maggiore età a 18 anni votato in marzo,
ed al nuovo diritto di famiglia diventato legge in aprile con la sola
opposizione di liberali e missini. Intanto, Pacciardi e Sogno
proponevano l’avvento di una Repubblica presidenziale come possibile
rimedio al male oscuro dell’Italia, tristemente simboleggiato, in
autunno, dal delitto del Circeo e dall’uccisione di Pier Paolo Pasolini.
In queste condizioni, la politica di
solidarietà nazionale che aveva coinvolto il Partito comunista nell’area
di governo ebbe buon giuoco nell’incentivare, e poi nell’accelerare le
trattative che condussero ad Osimo: il 20 giugno, Tito avrebbe
incontrato a Brioni il Segretario del PCI, Enrico Berlinguer, tanto che
più tardi fu possibile affermare, al di là della riservatezza a cui fu
improntata la visita, come fossero stati costoro i firmatari sostanziali
del trattato. L’eco si spense presto, nonostante il diluvio di retorica
che fu carattere ricorrente nel dibattito parlamentare di ratifica ma
che non avrebbe impedito alla maggioranza, irrobustita da una sinistra
oltremodo compatta, di giungere ad una rapida approvazione, contrari i
soli missini ed alcuni dissidenti, tra cui i democristiani Barbi,
Bologna, Costamagna e Tombesi, il liberale Durand de la Penne ed il
socialdemocratico Sullo (2), e soprattutto, con l’assenza tattica di
parecchi senatori e deputati che non avevano avuto il coraggio di uscire
allo scoperto, mentre la DC ebbe quello di deferire ai probiviri coloro
che si erano dissociati dalla disciplina di partito.
2.- Effetti e prospettive
Gli accordi di Osimo, che assieme al
trattato vero e proprio comprendevano intese sulla cooperazione
economica, la cittadinanza, i beni culturali ed il traffico di frontiera
(3), rimaste in buona parte sulla carta, produssero vibranti e
documentate proteste nell’ambito giuliano, e più specificamente in
quello triestino, con motivazioni di forte spessore non solo sul piano
etico-politico, ma prima ancora su quello giuridico, che sottolinearono
una lunga serie di inadempienze, se non anche di illegalità, donde la
richiesta al Presidente della Repubblica di non controfirmare la legge
di ratifica; istanza che venne respinta. Il trattato avrebbe potuto
essere impugnato per ragioni di diritto internazionale, ma anche
costituzionale ed amministrativo, puntualmente evidenziate (4), ma non
fu privo di correlazioni penali, potendosi ravvisare nell’approvazione
dei suoi disposti il reato previsto dall’art. 241 c.p., laddove si
puniva con l’ergastolo “chiunque commette un fatto diretto a sottoporre
il territorio od una parte di esso alla sovranità di uno Stato
straniero”.
Le condizioni politiche dell’epoca non
erano tali da ipotizzare l’apertura di un procedimento in tal senso, ma
la violazione della legge rimane un fatto oggettivo, senza dire che
nella fattispecie si tratta di un reato imprescrittibile, a prescindere
dalla depenalizzazione dell’alto tradimento che sarebbe sopraggiunta in
tempi più recenti (5).
Nel 1975 la congiuntura italiana era ben
diversa da quella del 1947, quando aveva dovuto subire il “diktat” ed i
limiti della propria delegazione alla Conferenza della pace, non meno
significativi dell’intransigenza alleata. Ora, l’Italia era nuovamente
un’importante potenza industriale, con fondamentali di gran lunga
superiori a quelli jugoslavi, ma ciò non fu sufficiente, e Tito riuscì a
realizzare il suo ultimo capolavoro, cui non fu estranea la “cupidigia
di servilismo” che Benedetto Croce e Vittorio Emanuele Orlando avevano
bollato con nobili parole durante la discussione per la ratifica del
trattato di pace. Gli effetti non tardarono a manifestarsi: la fuga a
Belgrado del terrorista Abu Abbas promossa da Craxi, l’omaggio di
Pertini alla bandiera con la stella rossa, e l’uccisione del pescatore
Bruno Zerbin nel golfo di Trieste ad opera di una motovedetta jugoslava,
furono episodi tristi, a cui avrebbe fatto seguito, come si diceva, il
riconoscimento senza contropartite di Croazia e Slovenia.
Il trattato di Osimo è rimasto inattuato
in diverse statuizioni, talvolta grottesche se non anche inconcepibili
sul piano economico, come la realizzazione della Zona industriale mista
sul Carso, o la costruzione di una gigantesca idrovia dall’Adriatico al
Danubio, basata su un sistema di chiuse faraoniche per il superamento di
enormi dislivelli. Il rigetto fu dovuto soprattutto a due ragioni: in
primo luogo, la forza delle contestazioni locali, ed in particolare
della “Lista per Trieste” (che conseguì la maggioranza dei voti alle
prime elezioni nella città di San Giusto), vessillifera di una nuova
autonomia in chiave nazionale; e poi, perché la crisi jugoslava,
deflagrata rapidamente dopo la morte di Tito, avrebbe impedito il
perseguimento degli obiettivi di Osimo, limitandone l’effetto
principale, e comunque determinante, al trasferimento della sovranità
sul territorio della Zona “B”.
Le conseguenze sono state evidenti, come
detto, sul piano socio-politico, e poi anche su quello economico,
attraverso una serie di protocolli che raggiunse un livello emblematico
nel forte supporto finanziario offerto dal Governo Goria a quello di
Branko Mikulic all’inizio del 1988, e nell’accantonamento di motivate
attese degli esuli giuliani e dalmati circa la questione dei beni
“abbandonati”, ma ad un tempo, in materia di difesa dei valori culturali
e spirituali sacrificati alla logica dell’interscambio, con cui, al
contrario, potrebbero utilmente convivere, in base ai principi
fondamentali di una vera ed effettiva cooperazione internazionale.
3.- Conclusioni
Ad oltre un trentennio di distanza, si
può e si deve affermare che “il trattato di Osimo fu un errore” (6), se
non anche un reato perseguibile a termini di legge, basato sulla fallace
presunzione che la Jugoslavia rimanesse protagonista sul proscenio
internazionale, come leader dei Paesi non allineati, e sulla difficoltà
di prevedere che si sarebbe dissolta in una giustapposizione di Stati
minori; ma prima ancora, sulla cronica carenza di una politica estera di
ampio respiro, e di un ruolo realmente propositivo nello scacchiere
balcanico.
Il trattato aveva nella sua stessa genesi
le matrici di una condanna formale e sostanziale, e si illudeva di
trovare nella Repubblica jugoslava un interlocutore privilegiato per il
solo fatto di avere pianificato la cosiddetta via nazionale al
socialismo, fondata sui fasti dell’autogestione, che avrebbero condotto
al disastro. Ciò, al pari di un’ipotetica collaborazione interclassista
che non poteva basarsi sull’annullamento talvolta fisico delle
opposizioni in campi di prigionia tristemente famosi, o sulle surreali
condanne di sacerdoti che avevano dato alle stampe una piccola immagine
sacra, evidentemente difforme dal verbo ancora dominante nello scorcio
finale degli anni Ottanta.
Ad Osimo sarebbe stato molto difficile
modificare i confini che erano scaturiti dal trattato di pace e dalle
rettifiche del 1954, alla luce delle condizioni politiche di cui si è
detto, e del potenziale coinvolgimento degli altri Stati che avevano
firmato il “diktat” del 1947, ma dopo la dissoluzione della Jugoslavia
le prospettive avrebbero potuto essere diverse, se non altro per alcune
importanti questioni d’interesse plurimo, come quella delle acque
territoriali. L’occasione fu perduta, ed oggi rimane, al massimo, una
generica speranza nell’effetto Europa.
Osimo è un “collo di bottiglia” ormai
irreversibile, non meno di quanto si possa dire per il trattato di pace.
Tuttavia, prescindendo dalla valutazione delle responsabilità, ed
inquadrando lo stato delle cose in una prospettiva che vede la
cristallizzazione degli accordi stipulati nel 1975, quando avrebbero
potuto tradursi da istituti di diritto internazionale venuti meno per la
scomparsa di uno dei contraenti, in semplici riferimenti per nuove
ipotesi d’intesa, si può concludere con l’antico saggio: al di là delle
apparenze, il fiume della storia continua a scorrere.
Ciò significa che Osimo, ampiamente
ridimensionato dalle vicende storiche, ed in primo luogo dall’implosione
jugoslava, potrà essere oggetto di riconsiderazione, nella misura in
cui le sue permanenti lacune di legittimità e di equità inducano
valutazioni costruttivamente consapevoli nella Casa comune europea, ma
prima ancora negli ambienti giuliani ed istriani, e nelle forze
politiche da cui hanno mutuato nuove attenzioni con l’approvazione
pressoché unanime della legge che istituisce il “Giorno del Ricordo”
(fissandolo nel 10 febbraio, quale anniversario del trattato di pace).
E’ sempre valido, anche nella
fattispecie, il pensiero di Benedetto Croce, secondo cui la linea del
possibile si sposta grandemente grazie “all’audacia ed alla forza
inventrice della volontà che veramente vuole”.