mercoledì 31 gennaio 2018

IL GENOCIDIO TRA DIRITTO E STORIA



 
Il genocidio tra diritto e storia:
Un crimine fra difetto di tassativitá della norma e selettivitá eteroguidata
 
Cinque buoni motivi per considerare:
  • La possibilità di espungere dal termine genocidio
  • La sua valenza giuridica
di Claudio Moffa
 
1) L’effetto (dell’accusa di) genocidio
Guillaume Murere: Le terme «génocide» est porteur de violences extrêmes dans la société rwandaise.
Jean Desouter: Génocide signifie dans ce dernier cas (la situazione ruandese, con gli Hutu accusati di questo crimine dai vincitori - ! - Tutsi) un sauf-conduit face auquel personne ne se pose plus de questions.
 
2) 700 mila hutu come riferito da un’Associazione svizzera legata a Carla Ponti sono finiti in carcere, tra gli anni Ottanta e Novanta, con questa terribile accusa. Genocidio di chi da parte di chi ? La Corte penale di Arusha avrebbe processato solo esponenti hutu, con i vincitori Tutsi in Ruanda che ne garantivano il trasferimento presso questo tipico Tribunale ad hoc degli anni Novanta, espressione di una « comunità internazionale» all’epoca – la Russia era in mano a Eltsin - egemonizzata dagli USA (e da Israele). Una intera popolazione perseguitata con questa infamante e infondata accusa (I « genocidiati» vincitori!, come se negli USA dell’800 ci fosse stato un presidente indiano). Un’accusa che, lanciata dai Tutsi contro le loro vittime, ha generato e moltiplicato l’odio tra le due etnie.
 
3) Ma i genocidi denunciati da campagne di stampa faziose e superficiali, sono sempre esistiti?
Genocidio vuol dire alla lettera, uccisione di un intero popolo. Dunque, stando al suo significato letterale, nessun vero genocidio si è verificato nrll’età contemporanea: né degli Armeni, né degli Ebrei; né dei Polacchi, né dei Giapponesi né di alcun altro popolo, tranne forse – in tempi relativamente recenti – gli indiani d’America. Esiste dunque una discrasia evidente tra la terribile accusa e i FATTI. Non è un caso che la codificazione di questa agghiacciante parola, adotta l’escamotage dell’intenzionalità per darle una (presunta?) valenza giuridica. Vedi l'articolo 6 dello Statuto della CPI (2002).
 
Genocide. For the purpose of this Statute, «genocide» means any of the following acts committed WITH INTENT TO DESTROY, in whole or in part, a national, ethnical, racial or religious group, as such:
 
(a) Killing members of the group;
(b) Causing serious bodily or mental harm to members of the group;
(c) Deliberately inflicting on the group conditions of life calculated to bring about its physical destruction in whole or in part;
(d) Imposing measures intended to prevent births within the group;
(e) Forcibly transferring children of the group to another group.
 
4) Ma chi decide della verità dell’intenzione? In genere le etnie e i gruppi religiosi target dell’attacco cosiddetto genocidiario, e i loro alleati nella «comunità internazionale» e nell’apparato mediatico mondiale.
 
5) Quanto detto nei due punti precedenti induce a comprendere il difetto di tassatività della norma nella codificazione del genocidio, quando si passa dalla denuncia meramente mediatica alla codificazione del «crimine», sottoposto al vaglio dei Tribunali ad hoc degli anni Novanta, e della CPI del 2002.

L’intenzionalità di cui al testo sopracitato (art.6 dello Statuto della CPI) è il presunto rimedio a tale difetto. Ma non è vero, è vero il contrario, proprio tale aspetto della codificazione la rende precaria e contestabile alla radice. Il difetto di quanto fin qui argomentato sta nella radicalità e nell’estremismo assurdo della parola «genocidio»: un’arma di propaganda terribile, che però non ha alcun vero fondamento giuridico e che dal linguaggio giuridico dovrebbe essere espunta per sempre. I «crimini contro l’umanità» non hanno bisogno di tale specificazione, sono sufficienti a mettere sotto accusa gli autori di stragi e persecuzioni efferate quali quelle subite per decenni dai palestinesi. La parola genocidio favorisce prevalentemente gli autori occidentali di una volontà «genocidiaria».
 
28/01/2018



venerdì 26 gennaio 2018

LA GRANDE MASCALZONATA


LA GRANDE MASCALZONATA
di Filippo Giannini

 
Dopo le riprovevoli e ripetute rappresentazioni su tutti i “mass-media” avvenute in occasione della
ricorrenza della “Giornata della Memoria” del 27 gennaio, leggo su “Il Messaggero” del giorno successivo:
“Nasce il museo dello Shoah nel cuore di Villa Torlonia”. E’noto che Villa Torlonia fu, per un certo
periodo, la residenza di Benito Mussolini, con questa iniziativa si vuole rafforzare la tesi della responsabilità
del Duce nelle malefatte – reali, supposte o false che siano – di Hitler.
Il 25 aprile 1945 Luigi Longo, uno dei massimi esponenti del Pci e quindi del CLNAI (Comitato Italiano
Liberazione Alta Italia), nell’impartire disposizioni per l’esecuzione della condanna a morte del Duce,
ordinò: <Lo si deve accoppare subito, in malo modo, senza processo, senza teatralità, senza frasi
storiche>.
A distanza di oltre sessant’anni ancora si parla di questo argomento. Perché?
Per avere una visione più chiara della infinita serie di mascalzonate che vengono quotidianamente
“scaricate” su quell’uomo, è necessario partire dal “Trattato di Pace” del febbraio 1947 (indicarlo come
“iniquo” è riduttivo) ricordiamo quanto recita l’articolo 17 (Sezione I – Clausole Generali): <L’Italia, la
quale, in conformità dell’art. 30 della Convenzione di Armistizio, ha preso misure per sciogliere le
organizzazioni fasciste in Italia, non permetterà, in territorio italiano, la rinascita di simili
organizzazioni>. E i “politici” italiani che si sono succeduti dal 1945 ad oggi, si sono piegati
vergognosamente a questo “diktat”, inventando, manipolizando e storpiando la storia, non curandosi


minimamente, per giungere allo scopo prefisso, di infangare la memoria di un morto che operò in modo
completamente difforme dalle accuse di cui è stato fatto carico.
Una qualsiasi persona di media intelligenza si dovrebbe chiedere: “cosa può interessare ad una grande
democrazia (sic), come quella americana se ci sia o meno un movimento fascista in Italia?”. La risposta la
dette proprio Mussolini in una delle sue ultime interviste: “Le nostre idee hanno spaventato il mondo”; per
“il mondo” intendeva quello del grande capitale, la plutocrazia, l’imperialismo liberista. E allora, ecco la
necessità delle grandi menzogne, delle mascalzonate.
“L’operazione demonizzazione del fascismo” è sviluppato su diversi tentacoli; leggiamo, sempre su “Il
Messaggero”, stessa data, pag, 41: <A scuola. Lezioni, mostre e percorsi virtuali nei campo di
sterminio>. In pratica dei nostri ragazzi “il sistema” ne fa degli automi, il cui carburante è la menzogna. E
allora facciamo un po’ di storia, quella documentata e documentabile.
Per costruire il mostro (e i mostri) si è costruita un’accusa che riteniamo la più infamante e la più
menzognera: l’essere stato Mussolini un vessatore e il responsabile della consegna degli ebrei ai tedeschi. I
detrattori, per rendere l’accusa più plausibile hanno coniato il sostantivo “nazifascista”, termine
dispregiativo tendente ad accomunare in un’unica responsabilità fascismo e nazismo sulle atrocità commesse
da quest’ultimo, sempre che queste non siano frutto di una enorme montatura, come molti studiosi
sostengono.
Le diversità dottrinali fra fascismo e nazionalsocialismo sono evidenziate da diversi studiosi e, tra questi,
citiamo un’osservazione di Renzo De Felice (“Intervista sul Fascismo”, pag. 88): <Fra fascismo italiano e
nazismo tedesco ci sono semmai più punti di divergenza che di convergenza, più differenze che
somiglianze>. Infatti, e lo dobbiamo ricordare, anche se l’ebraismo internazionale si era schierato contro il
Fascismo, sia nella guerra civile di Spagna che nel decretare le sanzioni, per continuare poi negli anni
successivi. Mussolini impose per il problema ebraico le leggi razziali (certamente odiose e inique), ma con
l’ordine “discriminare, non perseguire”. Stabilito ciò, e stabilito che <il fascismo fece propria la dottrina
razziale più per opportunità politica – evitare una difformità così stridente all’interno dell’Asse – che
per interna necessità della sua ideologia e della sua vita politica> (ibidem, pag. 102).
Trattare l’argomento “fascismo – ebrei” è stato (e lo vediamo, lo è ancora) un cozzare contro un muro
eretto dall’antifascismo internazionale, muro costruito e cementato da falsità che con la Storia non hanno
nulla a che vedere. Vediamo, allora, di cercare un varco che possa dipanare le nebbie artatamente montate e
avvicinarci a qualche sprazzo di verità.


Un attento studioso dell’”Olocausto ebraico” (specifichiamo “ebraico”, perché di “Olocausti” se ne
dovrebbero ricordare ben altri, dei quali i “nazifascisti” o non ne erano responsabili o, addirittura, ne furono
le vittime), Mondekay Poldiel, scrive: <L’Amministrazione fascista e quella politica, quella militare e
quella civile, si diedero da fare in ogni modo per difendere gli ebrei, per fare in modo che quelle leggi
rimanessero lettera morta>. Per i “duri d’orecchi” Poldiel scrive che TUTTI (anche i fascisti, come sarà
rimarcato anche più avanti) non solo non “perseguirono”, ma neanche “discriminarono”, questo almeno
fino a quando… ma andiamo con ordine.
Per dimostrare quanto fosse lontana dal pensiero mussoliniano la “questione ebraica” è da ricordare che
nel 1934, in occasione dell’incontro con Weizmann , Mussolini concesse tremila visti a tecnici e scienziati
ebrei che desideravano stabilirsi in Italia. Nel 1939 (attenzione alla data) vennero aperte le aziende di
addestramento agricolo, le “haksharoth” (tecniche poi trasferite in Israele) che entrarono in funzione ad
Airuno (Como), Alano (Belluno), Orciano e Cevoli (Pisa). Così, sempre in quegli anni, nei locali della
Capitaneria di Porto, la scuola marinara di Civitavecchia ospitava una cinquantina di allievi che poi
diverranno i futuri ufficiali della marina da guerra israeliana.
Tutto ciò – e tanto altro ancora – può essere un sufficiente esempio per illustrare il criterio delle
applicazioni delle “Leggi Razziali” in Italia.
Quanto sin qui scritto è solo l’inizio della lunga storia che riguarda i rapporti fra fascismo e gli ebrei. La
documentazione più completa è contenuta nel mio libro di prossima pubblicazione, ma desidero porre alcune
domande ai detrattori, ai dispensatori di ingiurie maramaldesche scagliate un po’ per ignoranza e molto per
un bieco, ignobile, servile tornaconto contro un uomo che tutto il mondo ci invidiava:
1) perché non spiegate alle scolaresche e ai telespettatori cos’era la DELASEM? Da chi fu autorizzata?
Che funzioni svolgeva? E, soprattutto, in quali anni operò?
2) Perché gli ebrei tedeschi, austriaci e quelli che vivevano nei Paesi occupati dalle truppe germaniche si
rifugiavano nell’Italia fascista? Eppure, sapete bene che nell’Italia fascista vigevano le leggi razziali?
3) Perché quegli stessi ebrei non chiedevano asilo ai “Paesi democratici” o, meglio ancora, nel
“paradiso sovietico”.
4) Perché non ricordate quanto hanno scritto su questo argomento storici ebrei come Mondekay Poldiel,
Rosa Paini, George L. Mosse, Menachem Shelah, Emil Ludwig? E questo è solo un frammento di
quanto c’è da raccontare e da scrivere, solo se si anelasse alla verità.
5) Perché non parlare sempre di personalità ebraiche come Ludwig Gumplowicz, Cesare Goldman,
Duilio Sinigaglia, Aldo Finzi, Dante Almasi, Guido Jung, Margherita Malfatti e mille altri ancora?
6) Perché non ricordare gli ordini che dette Mussolini al generale Robotti dopo la visita di Ribbentrop?
7) Perché non far presente quando e in quale occasione i tedeschi misero le mani su tanti infelici sino a
quel giorno al sicuro dietro ad uno “scudo protettore”?
8) Quindi, e di conseguenza, sarebbe fuori luogo asserire che gli ebrei furono consegnati alle camere a
gas (sempre che siano esistite realmente) dal primo governo antifascista?
9) Sì, perché, perché. Perché?
10) Ma un altro perché, e non è male ricordarlo, è doveroso porlo, anche se è drammatico e frustrante.
Perché i discendenti del Duce (a parte Donna Rachele) mai nessuno si erse, o si erge a difenderne la
memoria? Eppure le possibilità non erano, e non sono ancora mancate.
E allora: maestri, genitori, per contrastare almeno parzialmente questi vili attacchi, cercate la verità e
parlatene con i vostri scolari, i vostri studenti, i vostri figli.
“Quell’uomo” non merita davvero quanto questo infido sistema, per sopravvivere a sé stesso, opera per
infangarne la memoria.


P.S. Dato che intendo andare avanti su questa strada, saputa la persecuzione cui sono stati oggetto David
Irving, René-Louis Berclaz, Ernst Zündel e altri, prendo a spunto una frase che avrebbe detto “qualcuno”
a la faccio mia: <Ora preparate la mia orazione funebre>.



                                                                                                                                              

lunedì 22 gennaio 2018

IL CONTO DELLA STORIA

Corsi e ricorsi

Il conto della Storia

La storia avrà i suoi tempi ma prima o poi presenta il conto e a pagarlo non sono certo i potenti, ma il popolino che paga le nefandezze di coloro ai quali ha affidato il potere e paga anche, nella fattispecie del popolo italiano, la propria ignavia, la propensione alla tranquillità e al menefreghismo, il ritorno, dopo l'8 settembre e la vergogna di Piazzale Loreto, al “franza o spagna purchè se magna”, in una parola da popolo libero a popolo di servi!
Ora ci ritroviamo a subire un'invasione biblica che rischia di cancellare la nostra già fragile identità di popolo sconfitto e soggiogato dai vincitori del secondo conflitto mondiale, perché questa è la conseguenza della spartizione dell'Europa che avvenne nel febbraio 1945 a Jalta, tra Russi, Americani e Inglesi, che regalò mezza Europa alla comunista Urss, mentre Germania e Italia divennero “colonie” angloamericane.
Adesso la Storia ci presenta il conto e il popolo bue non muoverà un dito, COSA CHE NON SAREBBE MAI POTUTA ACCADERE CON LA GENERAZIONE CHE SEPPUR SCONFITTA ERA CRESCIUTA COL FASCISMO, perché oramai al popolo basta avere per il momento la pancia piena.
Tutti mugugnano per il fatto di avere una Presidente della Camera che antepone agli interessi degli Italiani quelli degli stranieri e tutela solo gli interessi degli immigrati, che è infastidita da monumenti, scritte o altri segni che riguardano o possono ricordare quel Fascismo che è stata l'unica ideologia nella Storia dalla parte degli Italiani mentre loro, i cattocomunisti, non hanno fatto altro che distruggere l'identità italiana, in modo da completare ciò che è sempre stato il sogno, quello di un'Italia asservita o al Vaticano oppure all'internazionalismo socialcomunista.
Per questo hanno voluto il sistema elettorale maggioritario che ha dato vita ad un bipolarismo fasullo, quello dell'alternanza tra coalizioni di eguali che ci ha messo per ben vent'anni nelle mani di un certo Silvio Berlusconi ed ora in quelle del terzetto Boldrini, Renzi e Bergoglio (il Buon Pastore che però non ha mai speso una parola per le “pecorelle” italiane vittime dell'immigrazione selvaggia!), che finora hanno gestito il fenomeno migranti in maniera tanto disastrosa quanto fraudolenta al punto da far rimpiangere agli Italiani immemori i vent'anni di leggi “porcata” o “ad personam” di berlusconiana memoria.
Gli immigrati sono una risorsa dice il terzetto, certo lo sono se limitati, regolati e controllati, altrimenti sono una risorsa solo per le tasche dello Ior (la Banca del Vaticano) e per le cooperative rosse o bianche collegate ai Partiti, per il racket della prostituzione, per la manovalanza di mafia e n'drangheta, per lo spaccio di droga, per i caporalati del Sud e per il lavoro nero, ma non certo per gli Italiani che vivono onestamente e pagano le tasse.
In tanti ci sdegniamo per le uscite della Boldrini e per le intromissioni della Chiesa, ad esempio sul delicato problema dello “ius soli”, ma non riempiamo le piazze per manifestare contro questi atti o per chiedere che, come in altri Paesi, lo “ius soli” sia almeno severamente regolamentato, le riempiamo solo per i concerti o per le sagre paesane, pensiamo di cambiare le cose facendo gli eroi da tastiera o mettendo una scheda in un'urna, non avendo imparato che questa è una democrazia solo di facciata e con le elezioni non si cambia nulla, perché, dopo le solite promesse, i Partiti torneranno a legiferare più a favore dei propri interessi che di quelli degli Italiani, è sempre stato così dal 1947 ad oggi.
Forse solo in un'Unione Europea forte e coesa le cose potrebbero cambiare e questo spiega perché gli euroscettici ed i no-euro trovano tanto sostegno sui media e sulle reti televisive delle lobby contrarie ad ogni cambiamento e al nostro riscatto.
L'unica possibilità per gli Italiani, per riprendersi la loro Patria e tornare ad essere un popolo libero, sarebbe la rivolta, ma la rivolta per …...imbarcare per l'Africa tutta questa Casta corrotta con i suoi annessi e connessi.
Possiamo aspettarci questo da un popolo che, quando si poteva ancora cambiare rotta dopo la contestazione, le stragi “impunite” e gli anni di piombo, scelse di nuovo conformisticamente la DC di Andreotti e il PC di Berlinguer invece del MSI di Giorgio Almirante?
O rivolta o finis italiae. Tertium non datur !
Uno nessuno e centomila 
 




mercoledì 17 gennaio 2018

LIBERO (DAL CERVELLO)


Il solito spocchioso,
onnisciente Feltri, in un
articolo su Libero del 31-12-17 da
indirettamente del coglione
Giuliano Zulin, suo vicedirettore
che non va a votare perché
disgustato dalla politica e
soprattutto dai politici.: “Taci e
non rompere i cordoni che fa
rima con coglioni. Non hai
manifestato la tua volontà? Ti è
vietato pretendere che essa
venga rispettata. Se fai mancare
alla collettività la tua opzione
ovvio che nessuno ne valuterà l'
importanza.”
A noi pare che Feltri pontifichi
con leggerezza, per gusto
polemico, senza pensare e senza
pesare quello che scrive.
Ma se nessuno dei partiti mi
rappresenta né come progetto
ideologico, né, cosa ancora piủ
importante, nei comportamenti
politici ed amministrativi usuali, a
chi cavolo dovrei dare il mio
voto?
Per di piủ, dopo, mi sentirei
corresponsabile dei guai e delle
immancabili corruzioni che coloro
che ho votato combinerebbero..
Ed allora meglio NON votare che
votare tanto per farlo e se tutti
facessero come me la politica
perderebbe ( come ha giá perso
molto sino ad ora dato che quasi
il 50% degli elettori non va a
votare ) l’effettiva
rappresentativitá del popolo e di
conseguenza la legittimitá a
governare.
Certo, seguirebbero dei disordini,
ma forse a Feltri è proprio questo
che fa paura per cui preferisce
starsene al calduccio e tranquillo
in questa situazione politica di
melma che critica, ma che in
fondo gli fa comodo..!
O forse, vedendo l’astio dei
cittadini, la politica potrebbe
prendere in considerazione
l’ipotesi di cambiare e di
redimersi per non morire del
tutto..!
Dato poi che il voto è legalmente
un DIRITTO e NON un DOVERE
( se no chi non vota avrebbe
delle sanzioni legali ) non si vede
per quale motivo gli elettori non
possano esercitare il diritto di non
votare..!
Sempre secondo Feltri:” Se non
partecipi alla partita in quanto
nauseato, poi non hai facoltà
neppure di lagnarti. Ti poni fuori
campo e non sei autorizzato a
dire che lo spettacolo ti fa schifo,
devi subirlo e basta.”
E dove sta scritto che il fatto di
essere spettatore anziché attore
impedisce di potere giudicare
quello che si vede?
Allora chi va a teatro non puó
fischiare o applaudire perché non
sta sulla scena..??
Magari , le critiche possono
portare al risultato di qualche
cambiamento..
Votare significa volere approvare
o cambiare, ma se non si
approva e non si vede alcuna
possibilitá di cambiamento, allora
il votare per chicchessia diventa
un comportamento sciocco
oppure ipocrita e soprattutto
inutile..!


                                                                                              

venerdì 12 gennaio 2018

LA RAPPRESENTANZA PER FUNZIONI

LA RAPPRESENTANZA PER FUNZIONI
di Rutilio Sermonti

Introduzione
Con questo scritto, non intendiamo fare polemica. E questo non perché abbiamo qualcosa contro la polemica in sé, che – a patto di essere in buona fede e nutrita di contrapposizioni ideali – può essere interessante e, persino, costruttiva; bensì perché la polemica in cui ci si vorrebbe, per forza, tirare è stupida ed in malafede. Solo per spiegarci con qualche esempio, dobbiamo vincere non poco disgusto e tedio, e lo faremo, quindi, solo in questa breve introduzione al mero scopo di sgombrare il campo da ciò che non siamo, e che si vorrebbe che fossimo, per fare da comodo bersaglio alle solite indignazioni telecomandate ed agli evocatori di spettri, in materiale sintetico americano. Non ci illudiamo per niente che quando premettiamo abbia il magico effetto di far cessare le definizioni sceme ed i logori aggettivi che i servitorelli del potere continueranno ad affibbiarci, fedeli al compito loro assegnato, né che masse di sprovveduti la smettano di modellare su quelle espressioni le loro cosiddette opinioni sul nostro conto. Ci basti la coscienza di averli chiariti, una volta per sempre, certi punti polemici, per passare, finalmente, ad esporre le nostre autentiche idee ed i lineamenti dello Stato che noi vogliamo realizzare. A chi rifiuterà la discussione su quel terreno – l’unico degno e fecondo – e preferirà continuare a tirar fuori i soliti pupazzetti, per ritardati mentali, opporremo soltanto, per l’innanzi, il nostro silenzioso disprezzo. E veniamo agli esempi di espressioni insensate di cui sopra dicevamo. La prima è:
Nostalgici.
Noi saremmo gli irriducibili nostalgici del passato regime. Perché, i nostri avversari che sono? C’è una differenza, però: che il regime di cui sono tanto nostalgici loro è fallito e fatiscente , ma ha ancora preoccupanti velleità di ripristinarsi, Dio ci salvi, mentre quello di cui auspicheremmo il ritorno è cessato a suon di bombe da tre quarti di secolo e sarebbe oggettivamente impossibile ricostruirlo. Tra l’altro, fu determinato e dominato dalla personalità di Benito Mussolini, assassinato nella notte tra il 27 e il 28 aprile 1945, La nostra azione politica mirerebbe – si pensa – a riportarlo in vita? Ci piace inoltre citare non un politologo ma un insigne filologo: il Prof. Giacomo Devoto, Dizionario etimologico (Le Monnier, Firenze, 1986, voce Nostalgia. (“Dal greco nòstos (ritorno) e algìa sofferenza (per il desiderio) del ritorno”). Ora per ritornare in un tempo o in un luogo occorre, se non erriamo, esserci già stati, e tra i nostri aderenti quelli che sono stati (in età di ragione) in regime fascista non superano lo 0,5%. Sostenere quindi che noi (e non quelli che ci accusano) saremmo i nostalgici, prendendo addirittura di sintetizzare con l’aggettivo i nostri contenuti ideali e politici è per lo meno privo di senso. E diciamo per lo meno. Una variante del tema nostalgici è quella puri e duri. E’ una diabolica stoccata che rinunziamo a parare. In effetti, confessiamo che è proprio quello lo stile che teniamo a imporre a noi stessi, se vuol dire non cedere alle lusinghe dei facili successi e provare un’avversione quasi fisica per compromessi inquinanti, quelli con la propria coscienza. D’altro canto, dopo settant’anni di malefatte del regime di impuri e mosci prodotto dai nostri sagaci etichettatori, non riusciamo a capire che cos’abbiano costoro da sogghignare ed ammiccare gratificandoci dei due predetti aggettivi. E che non afferrano, i poveretti, che le due caratteristiche da loro beffeggiate ci hanno compensato della loro scomodità facendoci dono dell’unica libertà che conta. Una libertà che non somiglia per niente a quella astratta e con la L maiuscola che essi vanno acchiappando in giro col retino da farfalle dei loro immortali principi. E veniamo ad altra bollatura di prammatica:
Antidemocratici.
Che vuol dire? Certo - come meglio chiariremo nelle pagine che seguono – noi siamo, per maturo ragionamento e per sofferta esperienza, decisamente contrari al particolare tipo di democrazia che è stato imposto in Italia dal 1945 in poi e che loro considerano invece sacro e inviolabile per sin troppo trasparenti motivi. Siamo contrari perché rozzo, inefficiente e soprattutto fraudolento. Ma che il potere debba provenire dal popolo e che debba essere il popolo ad esprimere la volontà della Nazione, da realizzarsi dallo Stato; questo lo consideriamo pacifico, e non perché sia scritto putacaso sulle stelle (Treitschke), ma semplicemente perché è ovvio. L’unica alternativa alla democrazia sarebbe, infatti, la teocrazia (Nulla potestas nisi a Deo – San Paolo), e quella ci sembra, nel mondo moderno, del tutto impensabile. Noi ci siamo quindi convertiti alla democrazia: siamo sempre stati nell’ambito di essa, e non accettiamo lezioni in proposito, tanto meno dai fautori della partitocrazia (e cioè proprio della democrazia falsa e alibistica), né ci interessa essere accolti nella eterogenea famiglia di quelle cosche con pretesto ideologico che sono i partiti come sinora intesi. La politica è per noi cosa ben più seria (e cerchiamo di farlo capire agli altri) che il cosiddetto gioco democratico della caccia al potere, magari a fettine (lottizzazione) o una volta per uno (alternanza) in cui i giocatori si arrogano tutti d’accordo il diritto e la capacità di rappresentare il popolo, mentre non rappresentano che la ristretta e parassitaria casta dei politici di mestiere. Ancora una piccola messa a punto sul razzismo, altro burlotto compicciato dagli antirazzisti per cacciarcelo in mezzo a incendiare le nostre vele. Consideriamo il problema razziale, come è fragorosamente posto in Occidente su cliché americano, una fuorviante mistificazione. Noi prendiamo atto dell’esistenza sulla Terra di diverse razze ed etnie, ed abbiamo per tutte il massimo rispetto, come anche delle diverse culture che esse hanno saputo esprimere. E non alludiamo soltanto a quelle complesse e imponenti come la greca, o cinese, o islamica, ma anche a quelle più piccole, più selvagge o più tribali. Un professore occidentale con tre lauree che mancasse di rispetto a un minuscolo capotribù Pigmeo analfabeta, dimostrerebbe soltanto, a nostro avviso, di essere un presuntuoso imbecille. Consideriamo quindi sacrosanta e legittima l’aspirazione di ciascuna razza ed etnia – a seguire le concezioni, a darsi le istituzioni ed attuare il modo di vita più congeniale al proprio spirito e alle proprie tradizioni. In altri termini, a realizzarsi secondo il proprio essere. Di conseguenza siamo nettamente contrari alla cosiddetta integrazione razziale che non è che il protervo e blasfemo tentativo di imporre all’umanità intera il modello di civilizzazione di matrice anglosassone-calvinista portato dall’imperialismo capitalista; modello materialistico ed economicistico che, troncando le nostre radici e quelle altrui, vuol trasformare il mondo in un colossale mercato senz’anima né volto. Tacciare di razzismo, con bigotta indignazione, che non sia integrazionista è quindi un ignobile trucco, attuato da ben noti centri apolidi di potere finanziario. La loro e non altra è la sopraffazione razziale, quel miscuglio contro natura è la causa dell’odio e della stessa esistenza del problema, quello il razzismo perverso contro cui ogni uomo che non abbia l’anima del servo deve combattere. Lo scostumato che picchia un Marocchino perché tale lo consideriamo alla stregua del tifoso che malmena il sostenitore della squadra ospitata fuori dello stadio. Non è razzismo da farsi venire le convulsioni: è solo cattiva educazione.
Un’ultima piccola notazione sulla famosa:
Polemica Fascismo- Antifascismo
Che qualcuno ci invita a superare.
Noi non dobbiamo superare proprio niente, per il semplice fatto che non ce ne siamo mai lasciati coinvolgere. La polemica Fascismo-Antifascismo l’hanno sempre fatta solo gli antifascisti (come confessa il nome), quando di polemica si è trattato e non di una miseria pregiudiziale di comodo a fini consociativi. Comunque non ci riguarda per niente, perché il fascismo che quei signori si affannano ad esorcizzare non ha nulla a che fare con le idee che sono le nostre e che di seguito enunceremo. Non abbiamo nemmeno difficoltà a dichiarare che, se il Fascismo non fosse altro che quello descritto da “lorsignori”, e dalle leggi repressive della Repubblica, noi saremmo i primi antifascisti. Usando il condizionale perché sappiamo che quel Fascismo non è mai esistito, ma qui si tratta soltanto di un giudizio storico: non di una tesi politica attuale. Accettiamo, e di buon grado, la discussione, ma solo su quelli che sono i nostri veri contenuti, e non sulle scempiaggini che non abbiamo mai pensate né dette e che certi ominidi robotizzati più o meno autorevoli ci vorrebbero appioppare. Con tale premessa, veniamo ad enunciare le nostre finalità e le nostre tesi politiche per quanto attiene alla natura e alla organizzazione della rappresentanza popolare. E’ una concezione che, se pur ha lontanissime fonti, mira soltanto ad assicurare al nostro popolo un avvenire migliore del presente. Se poi qualcuno puntasse contro la nostra fiamma il dito inquisitore accusandoci di rifarci al Fascismo storico, non faremmo che invitarlo a leggersi la Costituzione della Repubblica Italiana antifascista e nata dalla Resistenza. Ci troverebbe, all’art. 3. la partecipazione dei lavoratori come tali all’organizzazione politica, sociale ed economica del Paese; all’art. 4 cpv. il lavoro come dovere sociale; il salario proporzionato al lavoro prestato e alle esigenze di vita, unitamente al massimo le ore lavorative all’art. 36. Ancora avanti, all’art. 39 i contratti collettivi validi, erga omines, e al 41 la programmazione economica; al successivo art. 42 la funzione sociale della proprietà; al 44 la bonifica agraria e fondiaria; e – dulcis in fundo – all’art. 46 persino la partecipazione del lavoro alla gestione delle imprese. Bene: nello Statuto Albertino che reggeva la democrazia, parlamentare precedente al ventennio di concetti del genere non v’è la minima traccia, e tutti non uno escluso hanno fatto la loro comparsa in Italia con l’ordinamento giuridico del Fascismo anteguerra e della Repubblica Sociale Italiana.
Non sarà che sia nostalgica pure la Costituzione?



Capitolo I


Il nostro metodo
Riteniamo assolutamente pregiudiziale alla progettazione di un qualsiasi sistema politico chiarire a noi stessi e agli altri quali debbano esserne gli obiettivi
Fare politica (nel senso nobile della parola) vuol dire ricercare e applicare i migliori sistemi possibili di gestione della comunità nazionale. Ed è sia troppo evidente che non si può giudicare della bontà di un sistema qualsiasi se non in rapporto al fine che con esso si vuol raggiungere.
Il semplice affermare che un ordinamento politico persegua il bene pubblico non basta quindi, se non si pone precisamente in chiaro in che cosa consiste quel bene del quale si potrebbero dare le interpretazioni più disparate e addirittura antitetiche, come, di fatto, avviene. L’insanabile contraddizione tra la nostra concezione e quelle di matrice illuminista e positivista (dal liberalismo al comunismo), che preclude l’accesso a qualsiasi soluzione mista e a reciproche concessioni se non su dettagli di marginale importanza, sta appunto lì: nella diversa individuazione del bene pubblico da perseguire, e quindi nella diversità dei fini. Se uno vuole attraversare un braccio di mare e un altro un deserto non potranno mai mettersi d’accordo sul punto se sia meglio una barca o un cammello, anche se sul piano metodologico hanno ragione tutti e due.
L’osservazione sembra così palmare è ovvia da poter apparire persino superflua. Non lo è affatto, invece, tanto che la principale critica che noi muoviamo al modello di società e di sviluppo che si definisce moderno, ancor più di quella di essere partiti da presupposti finalistici e filosofici errati, è quella di aver finito col formarsi alla cieca per il deterministico e progressivo gioco di fattori a lui interni, dimenticarsi del tutto persino le proprie finalità di partenza. Il risultato è che si diano oggi dai più per scontati obiettivi (come l’omologazione mondiale, la sostituzione del lavoro con macchine o la facilità di accesso all’informazione) che non sono altro che la giustificazione a posteriori delle alterazioni prodotte dai suddetti fattori nell’umanità.
Gli scompensi e le autentiche alterazioni che continuamente si producono sulla Terra non sono rimediabili nell’ambito di quel sistema e sono fatalmente destinati ad aggravarsi, proprio perché si tratta di un ordine esclusivamente di mezzi che nondimeno si sviluppa secondo proprie leggi, senza neppur chiedersi ormai quali fini generali vadano perseguiti, ma solo quelli contingenti di ogni singola azione. Gli stessi uomini e popoli non sono più altro che mezzi, non si sa neppure di che cosa e nessuno si cura di saperlo.
Consapevoli di ciò, noi riteniamo assolutamente pregiudiziale alla progettazione di un qualsiasi sistema politico chiarire a noi stessi e agli altri quali debbano essere gli obiettivi a breve e lungo termine, nell’interesse dell’uomo e della nostra Nazione in particolare. A tal fine dobbiamo necessariamente aver presenti valori che non sono del passato ma sono perenni, in quanto sgorganti dalla più autentica e immutabile natura umana. I nostri continui riferimenti alla Tradizione sono anche espressione di quel bisogno di uscire dal quotidiano ricatto della contingenza odierna, che non conosce altri orizzonti che le proprie deformazioni, per guardarla dalla posizione soprelevata di una saggezza millenaria.
Liberarsi delle pastoie concettuali del tempo, riuscire a non farsene condizionare è indispensabile, quando ci si ponga il problema di scelta dei fini ultimi e delle linee di vetta. Per converso, un attento esame del contesto attuale, della sua eziologia e dei suoi meccanismi è invece di rigore quando si passi allo studio dei mezzi e delle tecniche con cui si possono invertire le tendenze degenerative e intraprendere la marcia in salita nella diversa direzione necessaria.
Nella fase progettuale, dei disegni esecutivi per usare un paragone costruttivo, occorre, infatti, partire dagli uomini quali oggi sono, dalla società quale oggi è articolata, dai mezzi oggi a disposizione delle esigenze (vere e anche false) della comunità in cui operiamo, e persino dagli influssi che su quest’ultima sono pesantemente esercitati. Questo e non altro il metodo di studio e di lavoro che abbiamo prescelto e seguito, né alcuno ha saputo dimostrarci che ne esista uno migliore.
Capitolo II
Il fine dello Stato
La funzione dello Stato e del diritto della nostra concezione politica sarà innanzi tutto quella di favorire lo sviluppo nei singoli e nelle comunità delle qualità inespresse e delle valenze inutilizzate…
Dicevamo sopra che nessuno pone in dubbio che il fine dello Stato debba essere il bene pubblico, e quindi domandarsi quale sia l’obiettivo dello Stato equivale a chiedersi come debba essere concepito quel bene. E’ anche fuor di dubbio che il punto di vista dal quale tale valutazione va fatta sia quello umano, uomini essendo sia gli studiosi che i destinatari.
Ma anche il concetto di uomo – e quindi di umano – pur essendo ben definito dal punto di vista tassonomico – Homo sapiens – non lo è affatto per quanto riguarda le sue caratteristiche e necessità che non siano strettamente fisiche.
Ci corre quindi l’obbligo di chiarezza di accennare all’idea che dell’uomo abbiamo noi, almeno per quanto rileva ai fini della presente indagine, il che è imprescindibile per afferrare il senso di tutta la nostra impostazione politica che rigorosamente ne deriva. E’ una visione su cui non possiamo transigere, perché non si tratta di una nostra peregrina opinione, ma, di un retaggio che umilmente riceviamo da tutta la saggezza augusta che ha illuminato la Terra – la Tradizione, appunto – prima che recente invenzione dellindividuo venisse ad intorbidare le idee ed a propiziare teorie aberranti.
Non possiamo qui svilupparlo, e tanto meno dimostrarlo, quel concetto, e dobbiamo accontentarci di, brevemente, enunciarlo in pochi minuti, sufficienti perché a quello che continui ad equivocare sui nostri contenuti si possa dire: imputet sibi.
  1. Ogni persona umana è dotata di potenzialità tali da lei stessa il più delle volte insospettate, soprattutto ma non soltanto di ordine spirituale, da poter fare della propria vita il proprio capolavoro. Il livello che in concreto riesce a raggiungere, ed al quale si colloca, dipende in massima parte dalla misura e dalla direzione in cui esercita tali potenzialità. Ciò è vero, per i singoli come per i popoli, e spiega come una stessa etnia, senza rilevanti mutamenti genetici, possa aver attraversato, nella Storia, momenti brillanti di potenza, di civiltà e periodi di triste depressione e di dipendenza.
  1. L’uomo non è divisibile e, quindi, ogni concezione politica che consideri e cataloghi gli uomini per una sola delle loro caratteristiche, peggio se puramente estrinseche, espone al pericolo di errori esiziali. Non esistono gli operai, o i pastori, o i ladri, o magari i mancini o gli obesi. Nel senso che ognuno dei così definiti possiede caratteristiche innumerevoli oltre quella espressa dalla definizione, la quale ultima – rispetto alla sua completa personalità – è, quasi sempre, del tutto secondaria. Non si nega che la configurazione di certe categorie, meramente concettuali sa talora utile a determinati fini pratici o di comodità d’espressione; purché non ci se né faccia suggestionare fino a considerarle categorie reali caratterizzanti ed aggreganti. Come pure occorre guardarsi da quegli effetti della specializzazione che minacciano di iperatrofizzare nel soggetto una sola attitudine o, comunque, atrofizzare le altre. Oltre tutto, un avvocato che sia soltanto un avvocato, oltre ad essere mentalmente spostato, non è neppure un buon avvocato.
  1. Una caratteristica peculiare dell’uomo è la sua estrema adattabilità sia fisica che mentale. Un Tuareg del Sahara ed un Eschimese polare sono, biologicamente, identici, eppure si trovano a loro agio in condizioni ambientali agli estremi opposti di vivibilità. L’uomo acquista facilmente abitudini e, con eguale facilità, le perde, soprattutto se collettive. E’ una caratteristica che può essere negativa se si traduce in passività, e scarsa reattività, o se si tratta di acquisizione di abitudini nocive o degradanti, ma può conseguire risultati esaltanti se esse propiziano lo sviluppo delle potenzialità umane di cui dicevo al n.1. E’ il complesso delle sue abitudini assai più che quello delle sue opinioni o della sua opulenza che qualifica il livello raggiunta da un popolo.
  1. Di tutti i catalizzatori che possono favorire in un uomo l’evidenziarsi e l’applicarsi delle sue potenzialità positive, ve n’è uno sovrano: l’esercizio della responsabilità. Altri sono le difficoltà oggettive ed il pericolo. Su tutto ciò che, al contrario, alimenta la pigrizia interiore e cancella l’impulso a scavare nella miniera inesauribile del proprio io emerge invece, per nefandezza, la predicazione dell’uguaglianza intesa come diritto. Essa distrugge l’aspirazione a migliorare la propria qualità e riduce le ambizioni a quelle economiche o tutt’al più sociali, con effetti degenerativi per il singolo e per l’intera comunità. Una società migliore è, infatti, solo quella composta di uomini migliori, e l’ignoralo è la palla al piede di tutti i Socialismi.
  1. Un uomo è libero solo se padrone di se stesso ed autore delle proprie scelte. Ne consegue che l’autorità, che oltre ad essere, in certi limiti, indispensabile per l’ordine civile, condiziona al più la persona nel comportamento, piuttosto che nella scelta delle medesime, i nemici più insidiosi ed implacabili della libertà umana sono il ricatto, che coarta le scelte, e l’inganno, che le falsa nella loro stessa formazione. Obbligo di una sana autorità politica è, quindi adoperarsi perché l’autorità sia liberamente, e consapevolmente, accettata e, soprattutto, sia reso impossibile esercitare sul popolo il ricatto o l’inganno. La funzione dello Stato e del diritto, nella nostra concezione politica, deriva coerentemente dalle affermazioni che precedono. Sarà, quindi, innanzitutto quella di favorire lo sviluppo nei singoli e nelle comunità delle qualità anche inespresse e delle valenze inutilizzate, unica ricchezza inalienabile e garanzia di progresso per la Nazione. Sarà quella di dar modo al popolo di determinare la formazione della volontà statuale con modalità che concedano agli elettori la maggior possibile cognizione di causa e libertà da condizionamenti. Sarà quella di realizzare la piena sovranità nazionale e l’indipendenza dai poteri estranei, ufficiali ed ufficiosi, senza di che non resterebbe al popolo altra libertà che quella dei detenuti nel cortile del carcere. Sarà quindi quella di esprimere, nella comunità internazionale, le autentiche esigenze del proprio popolo e di apportarvi tutte le virtù di esso. Sarà, infine, quella di garantire che le legittime attività economiche, manifestazioni anch’esse delle capacità inventive e realizzatrici della propria gente, da un lato, non umilino, e deprimano, la mente ed il corpo di chi vi si dedica, dall’altro, si svolgano in armonia con le superiori finalità dello Stato medesimo. Vi sono, ovviamente, oltre a queste che sono tipiche della nostra concezione dello Stato, le molteplici mansioni che potremmo definire di ordinaria gestione della cosa pubblica e che tutti, più o meno, gli riconoscono. Ma va avvertito che anche in esse, che ci guardiamo bene dal sottovalutare, il concetto generale di pubblico bene, sopra delineato, non va mai pretermesso, anzi, deve costituirne l’anima vivificatrice.


Capitolo III
Nazione e Democrazia
il cittadino che, in una qualsiasi forma di suffragio, esprime la propria volontà, non esercita un diritto soggettivo ma adempie ad una pubblica funzione.
Non è qui il caso di addentarsi nella questione di priorità tra i due concetti di Nazione e di Stato, dato che ai nostri giorni la giustapposizione tra essi è pressoché universale.
Diciamo che la Nazione è la premessa storica, culturale, biologica, territoriale e – grosso modo – etnica, mentre lo Stato è un prodotto politico e giuridico dello spirito, capace di conferire alla potenzialità – Nazione personalità, organizzazione, responsabilità e capacità di agire unitariamente.
Ciò anche il caso di aggregazioni politiche plurinazionali, come un impero (del passato) o una federazione, con la sua variante dell’esistenza di un solo Stato per più Nazioni.
Il problema democrazia viene quindi a porsi in questi termini:
  1. Finalità dello Stato è il bene della Nazione;
  2. La volontà dello Stato è determinata dal popolo, o più esattamente da quella parte del popolo che è, al momento, maggiorenne (elettorato);
L’elettorato non si identifica con l’oggetto della volontà la (Nazione) in quanto di quest’ultima fanno parte, oltre ai non votanti, anche la storia, le tradizioni, la lingua, la cultura, il territorio e la biosfera (flora e fauna), le risorse naturali, il patrimonio artistico e le opere pubbliche in atto, le acque interne e territoriali e soprattutto le generazioni future, tutti elementi che l’azione dello Stato deve tenere ben presenti, potendo su di essi grandemente incidere sia in senso positivo che negativo: conseguenza che stranamente sfugge ai teorici che sono democratici per convenzione e non per convinzione:
  1. Se una potestà che si esercita nel proprio interesse si chiama diritto e una che sì esercita nell'interesse di altri si chiama funzione ,conseguenza ferrea è che i cosiddetti diritti politici proclamati dal demo-parlamentarismo sono una espressione impropria e forte di equivoci gravi, ed è di funzioni politiche che si deve parlare, cominciando dalla massima che risiede nel popolo.
Chi crede nella democrazia; chi crede cioè che la volontà popolare sia idonea a formare la volontà dello Stato, può accorgersi che il cittadino che, in qualsiasi forma di suffragio, esprime la propria volontà, non esercita un diritto soggettivo ma adempie una pubblica funzione.
Del resto, anche la comune espressione democratica popolo sovrano lo conferma. Anche il sovrano, più assoluto del passato, pur accentrandole tutte in sé, esercitava funzioni pubbliche. Se non era uno sciagurato meritevole di deposizione, doveva regnare non secondo il proprio personale tornaconto ma nell’interesse della o delle Nazioni a lui sottoposte, e sentire tanto più alta la responsabilità quanto più ampio il suo potere. Tutti i giudizi storici formulati sui sovrani del passato non adottano forse un tale metro?
Ma allora a tale coscienza della propria alta funzione non può neppure sottrarsi la sovranità popolare, che per essere collettiva anziché individuale (o magari oligarchica) non ha per questo ragione, natura e finalità diversa dalle altre.
Funzione, quindi, non diritto come quello di proprietà o di credito: non è differenza da poco, anche sul piano effettuale.
Il concetto di diritto politico ammette, infatti, che l’elettore né faccia l’uso che crede indirizzando magari il suo suffragio al conseguimento di un beneficio personale o anche di gruppo; ammette che il candito a qualunque carica elettiva si procuri i suffragi promettendo vantaggi a determinate categorie, ambienti o anche persone, legittima che gli eletti a governare si cavino d’impaccio caricando sulle indifese generazioni futuri i costi astronomici della propria dissennatezza e demagogia.
Ma se, cominciando dal voto che è scaturigine di tutti gli altri poteri, si tratta di pubblica funzione le cose cambiano radicalmente, e i nocivi comportamenti sopra accennati integrano addirittura i delitti colpiti dagli art. 324 e 321 del Codice Penale.
Ma le differenze non si fermano qui
Nessuno può contestare a chi esercita un diritto soggettivo la facoltà di farlo stoltamente, avventatamente o senza validi ragioni. Procurarsi le nozioni e compiere le riflessioni necessarie per agire oculatamente nella sfera privata è affare di chi agisce.
Ciò non vuol dire, si badi bene; che anche nella sfera del diritto privato tutti gli ordinamenti giuridici non considerino illecita ogni azione tendente a falsare la formazione dell’altrui volontà con la frode o la suggestione. Consideriamo, nel nostro diritto, gli art. 640 (truffa) e 643 (circonvenzione) del Codice Penale, nonché gli articoli 1427 e seguenti del codice civile che prevedono l’annullamento degli atti compiuti da chi sia stato indotto in errore. E’ evidente che molto a maggior ragione debbano esser posti fuori legge gli espedienti surrettizi idonei a indurre in errore o semplicemente a suggestionare nel senso voluto dall’agente chi eserciti una funzione politica. Quest’ultimo deve essere messo assolutamente nelle migliori condizioni per operare le sue scelte in piena autonomia e con la maggiore possibile cognizione di causa.
I cosiddetti espedienti propagandistici e le informazioni artefatte, in cui consiste la sottile arte del politologo di professione in questa democrazia soltanto apparente; tutta la manipolazione psicologica dell’opinione pubblica cui i partiti e le forze retrostanti alacremente si dedicano all’approssimarsi delle tornate elettorali non sono quindi l’anima della democrazia: ne sono la precisa negazione.


Capitolo IV
Corpora” sociali: 0RGANI DELLA NAZIONE
è concretamente possibile e in che modo far emergere una volontà popolare degna di tal nome?
C’è secondo noi un preciso motivo per cui il Liberalismo, come figlio del Socialismo, non è riuscito a realizzare alcuna democrazia che tale sia effettivamente. Ed il motivo risiede nel suo astratto individualismo, fratello siamese dell’egualitarismo. Le persone reali, infatti, non sono affatto uguali, mentre, gli individui astratti si.
La grossolana concezione di un popolo, come somma aritmetica di tante unità fungibili, doveva inevitabilmente arrivare alla realizzazione della democrazia attraverso il suffragio universale periodico indifferenziato, che è la parodia della democrazia. Una massa ingente di siffatti individui, presupposti senza qualità o qualificazione di sorta, è chiamata ad esprimere la sua volontà che dovrebbe essere vincolante, uno actu, su tutti gli orientamenti che lo Stato dovrà assumere fino alla successiva consultazione. E’ chiaro che non è neppure pensabile sottoporre ad ogni elettore un voluminoso questionario – redatto poi da chi? – dai milioni di risposte dal quale estrarre, poi, magari con un computer, gli indirizzi politici del Paese. E allora ci si limita a sottoporre, all’individuo, nomi o liste di nomi, compilati da incontrollate organizzazioni private che non hanno altro requisito che quello di riuscire a compilare e presentare dette liste, chiedendogli di delegare a qualcuno di quei nomi la scelta degli indirizzi medesimi. Le persone corrispondenti ai nomi sono del tutto sconosciute all’individuo in cabina elettorale se non per vago e generico sentito dire o per le intenzioni da loro dichiarate nelle rispettive propagande, restando ben chiaro che esse non sono appunto obbligate ad attenersi ai programmi esposti, bensì sono legittimate a fare – conseguito il potere – esattamente il contrario.
Tutti sanno, anche se fingono di ignorarlo, che, con un meccanismo del genere, non si esprime nulla che possa seriamente qualificarsi volontà popolare e che la democrazia concretantesi nel sistema vigente, per quanto la si stiracchi e rappezzi, non è che una mera convenzione verbale. Consideriamo la cosa evitando accuratamente le astrazioni e le presunzioni legali di cui si pascono i liberaldemocratici. E’ oggettivamente impossibile – dicevamo – che il popolo, nel suo complesso, possa esprimere una articolata volontà politica. Tutto ciò che si può richiedere ad ogni cittadino è che concorra alla designazione delle persone, che tale funzione dovranno esercitare, facendo quello che in antico faceva l’Aristocrazia, con la sola variante che, anziché nominata dall’alto – semplicemente perché non esiste più nessun alto – essa è espressa dalla base. Cambia l’origine della designazione, ma il fine di essa è sempre lo stesso: scegliere i migliori per quella funzione. Bene può dirsi che una democrazia deve avere un obiettivo aristocratico.
Se bene impostata, e strutturata, essa conseguirà lo scopo, altrimenti, ne scaturirà una classe politica disastrosa come quella che imperversa, in Italia, dalla "Liberazione" in quà. Non se ne può accusare l’avversa sorte: è rigorosamente consequenziale. E pretendere che essa sia legittimata dalla volontà popolare, come oggi è estratta, è solo una mistificazione.Se non che qualsiasi attività organizzata, come è o dovrebbe essere quella dello Stato, è giocoforza che sia attuazione di una volontà o, almeno, di un compromesso tra volontà diverse. Essendo quella popolare, come visto, soltanto un alibi, occorre chiedersi quale altra, o quali altre, volontà siano effettivamente realizzate. La domanda, s’intende, è del tutto retorica, dato che lo sappiamo tutti benissimo, a cominciare dai politicanti democratici di successo.
Chi, malgrado tutto, aspira sinceramente ad una democrazia che sia veramente tale, ed anche efficiente, deve porsi invece altra domanda tutt’altro che retorica: è concretamente possibile, ed in che modo, far emergere una volontà popolare degna di tal nome?
E’ almeno singolare che, a porsi sul serio tale quesito, siamo tacciati, soltanto noi, di antidemocrazia!
Cercheremo qui, compatibilmente col nostro proposito di concisione, di dipanare il filo del nostro ragionamento, attenendoci al metodo scientifico di risalire dal noto all’ignoto.
La volontà è, in natura, un attributo esclusivo della persona umana. Quando si parla di volontà di qualcosa di diverso da una persona, si ricorre i realtà ad una similitudine, o meglio ad una metonimia, usando come parametro la volontà individuale. E’, quindi, sano criterio cominciare con l’osservare come, in una persona, si forma una volontà. Sul piano fisiologico, essa è certamente elaborata dal cervello, ma, è altrettanto certo che un cervello, da solo, non avrebbe nulla da elaborare. Il cervello è un collettore continuo di tutti gli stimoli, le richieste, gli allarmi, le sensazioni di benessere e di malessere che gli pervengono non solo dagli organi di senso ma da tutti gli organi del corpo. Dagli organi ed i tessuti che li compongono, si badi, non dalle singole cellule. Ed ogni organo ha una o più funzioni, le quali interagiscono e possono influire, anche in modo determinante, sullo stesso funzionamento del cervello.
Ecco che la volontà può, a ragione, ritenersi un prodotto dell’intero organismo, ed il principio, trasposto in politica, si chiama democrazia. Non si ignora affatto che, nella formazione della volontà delle persone, influenza, e nei migliori prevalente, abbia l’attività dello spirito, e cioè considerazioni attinenti a valori ed impulsi che trascendono le esigenze materiali dell’organismo pensante. Ma tale verità, tutt’altro che sconsigliare l’applicazione alla politica del paradigma organico, la rende, anzi, come vedremo, ancor più appropriata e feconda.
La trasposizione che proponiamo e anch’essa, beninteso, una similitudine. Ma prende a paradigma l’ordine naturale, che ha nella persona umana uno dei più splendidi esempi, e siamo fermamente convinti che i riferimenti all’ordine naturale siano assai più fecondi di spunti, allorché si tratta di costruire un ordine artificiale, che non intere biblioteche di opinabili filosofie.
Ebbene, la nostra osservazione in umiltà dell’ordine naturale come è espresso nel nostro organismo, manifestazione e specchio di quello sovrannaturale, ci porta a trarre altre precise conseguenze riguardo il nostro problema di dare senso ed articolazione alla volontà collettiva. Comincia col farci giudicare ridicola la pretesa di considerare il soggetto di quella volontà, cioè il popolo, come una somma di individui indifferenziati che possono suddividersi con un qualsiasi criterio convenzionale. Il raggruppamento secondo funzioni e organi diversi è, per le nostre cellule conditio sine qua non per fare dell’insieme di esse un’unità vitale ed armonica che possa possedere una volontà, e, analogamente, che la complessa vita di una Nazione si articola in funzioni. Tali funzioni sono svolte da pluralità di persone, unite nei corpora sociali. Ve ne sono di molti generi, qualificati dalla loro attività che può essere morale, culturale, produttiva, di autodifesa, di educazione intellettuale e fisica, etc. E’ un corpus una scuola come una fabbrica di stoffe, u sindacato come una società sportiva, la polizia come la magistratura; persino le attività criminali tendono, come è noto, a costituirsi in corpora. E corpora di uno stesso genere possono, non solo concettualmente ma effettivamente, formare aggregazioni funzionali più ampie, che chiamiamo corporazioni.
Ci sembra invero che tali corporazioni effettive ed operanti, equivalenti per la Nazione a quelli che per la persona sono gli organi, si prestino molto meglio ad esprimere la volontà dei loro appartenenti destinata a comporre organicamente la volontà generale del popolo, che non gli attuali partiti, voluti e strutturati solo da una esigua parte dei cittadini, in base a bandiere ideologiche sempre più confuse ed indefinite, di cui il generico corpo elettorale non ha che un’idea vaga e fluttuante.
Anche a dimostrazione che non ci lasciamo assorbire troppo dalla metafora di Menenio Agrippa, dobbiamo evidenziare alcune rilevanti differenze tra persone che costituiscono un popolo e le cellule che compongono un organismo vitale. Ne abbiamo, del resto, già accennato a proposito della nostra concezione enunciata al capitolo II, numeri uno e due in particolare.
La prima è che un uomo che si dedica ad una delle funzioni sociali, pur acquisendo in essa particolari abilità e sviluppando talune abitudini piuttosto che altre, è sempre, fortunatamente, molto meno specializzato che le cellule di un particolare organo, onde un filosofo somiglia molto più ad un carpentiere che non una fibra muscolare ad un leucocito.
La seconda è che, per l’indivisibilità dell’uomo integrale, anche per svolgere la funzione più limitata e specifica un uomo impiega la sua intera personalità, compresi gli aspetti e le valenze di essa che nulla hanno a che fare con la funzione stessa.
La terza è che un uomo può svolgere contemporaneamente diverse funzioni, e, quindi, appartenere di pieno diritto a più corporazioni, anzi, questo costituisce il caso più frequente.Un chirurgo che insegni all’Università e pubblichi libri, saggi ed articoli appartiene, evidentemente, a pieno titolo, alla funzione sanitaria , a quella dell’insegnamento ed a quella pubblicistica; Ma anche un modesto operaio che pratica il calcio agonistico sarà legittimato a far valere la propria volontà non solo nella formazione degli organi rappresentativi della propria categoria produttiva, ma, anche in quelli della propria disciplina sportiva.
Ci sembra, però, e meglio lo vedremo in seguito, che differenze del tipo di quelle brevemente accennate, non solo non siano affatto controindicative all’applicazione alla Comunità nazionale del paradigma organismo e cioè della rappresentanza per funzioni, ma ne aumentino anzi considerevolmente i pregi.
Soprattutto la prima e la seconda delle differenze sopra elencate recano a loro volta ad altra differenza molto positiva, che costituisce addirittura, per chi ne comprenda lo spirito, uno dei caratteri peculiari e pregnanti del sistema politico organico.
Osservavamo prima che, nella formazione della volontà di una persona, oltre alle richieste e stimoli provenienti dagli organi e tessuti, gioca un ruolo pervalente il suo spirito, la cui forza determinante dei processi cerebrali si esercita al di fuori del sistema sensoriale e cenestetico, con modalità che la filosofia positiva non potrà mai comprendere e neppure descrivere ma la cui realtà è al di sopra di ogni dubbio.
La trasposizione dello schema organico alla politica non implica però affatto ne ignorare quella fondamentale verità ne escogitarne sostitutivi istituzionali. Se cellule, tessuti ed organi non hanno attività spirituale e quindi il loro concorso alla formazione della volontà deve ritenersi soltanto parziale, gli uomini che compongono i corpora sociali, quali che ne siano le funzioni, tale attività posseggono tutti, se pur in gradi diversi. Quindi il flusso di messaggi che, nell’ordinamento organico da noi proposto, confluirebbe dagli organi, funzioni ai centri decisionali a formare la volontà unitaria dello Stato contiene già in se la componente spirituale. Non solo, ma, essendo i prodotti dello spirito umano molto più omogenei che la miriade di diversi interessi materiali e di punti di vista particolari, in sede di sintesi la loro influenza tenderà necessariamente ad aumentare ancora, con gli auspicati effetti analogici in vista di quel concetto superiore di bene pubblico già prospettato.
Capitolo V
Economia- funzione e Corporativismo economico
Carattere fondamentale e premessa del Corporativismo fascista fu la concezione unitaria dell’economia come funzione nazionale
Quando parliamo di corporativismo, si ritiene ordinariamente che noi si voglia semplicemente riferirci all’assetto economico-produttivo quale fu introdotto ed applicato in Italia tra il 1926 e il 1943, sostenendone la praticabilità attuale e proponendone la restaurazione.
Tale opinione è incompleta, inesatta e gravemente riduttiva.
Nell’affermare questo, ben lontana da noi è l’intenzione di ripudiare quel sistema, i cui caratteri positivi sia in termini di equilibrato e costante sviluppo, sia in termini di pace sociale sono stati conclamati dai risultati conseguiti, che nell’attuale disastro nazionale sembrano sogni dorati ed irreali, sono stati ammirati ed invidiati da tutto il mondo e sono stati male scopiazzati perfino da Roosewelt.
Raramente come a questo proposito l’almirantiano “non ripudiare non restaurare” calza a pennello.
Riteniamo, infatti, che, per parlare oggi di Corporativismo in termini politici e non storici occorra innanzi tutto separare in quell’esperienza del Fascismo- regime ciò che era legato ad irripetibili condizioni di quel tempo, dai principi che conservano validità quali che siano le circostanze nazionali ed internazionali. Occorre poi studiare quali possono essere nell’attuale contesto e problematica i casi ed i criteri di eventuale applicazione di quei principi.
Proprio quello che ci proponiamo brevemente di fare, a titolo di presentazione, o ripresentazione, non escludendo, anzi espressamente postulando, la necessità di ben maggiori approfondimenti, studi e dibattiti.
Carattere fondamentale e premessa del Corporativismo fascista fu la concezione unitaria dell’economia come funzione nazionale. Va precisato che l’aggettivo nazionale si riferisce al tipo di società allora in atto e tuttora vigente, stanti gli errori di partenza e le potenti interferenze che hanno sinora purtroppo contraddistinto i conati per la realizzazione dell’auspicabile unità europea; ma qualora a tale meta si giungesse, quelle concezioni sarebbero ugualmente valide riferite all’Europa.
Funzione che diremmo fisiologica delle attività economico-produttive, è quella di assicurare alle popolazioni i mezzi materiali di sussistenza, non riferendosi la parola al solo sostentamento, bensì anche a ciò che forma la qualità e l’ornamento della esistenza materiale. Corrispettivo ed incentivo per chi si dedica a tali attività è l’utile sotto forma di profitto o di retribuzione.
Come è noto, nelle società tradizionali la funzione economica, era considerata necessaria ma di natura subordinata, tanto che nei tipi di ordinamento su quattro livelli, come quello ariio-indiano, gli operatori economici, vaisia, e i lavoratori manuali, sudra, occupavano i due inferiori. Altrettanto noto è come la rivoluzione moderna abbia operato rapidamente l’inversione di funzionalità per cui cessato il predominio e finanche il sostanziale riconoscimento dei valori essenzialmente spirituali che informavano i primi due livelli, non solo la casta dei mercanti, nella quale vennero a prendere il sopravvento i mercanti di denaro, usurpò lo scettro dell’Imperium ma le stesse attività produttive furono private della nobiltà che loro derivava dalla funzione di sostegno di qualcosa di superiore e si ridussero a mere procacciatrici di profitto.
Su una siffatta involuzione della società non è il caso qui di dilungarsi, essendo stata più che esaurientemente esposta da fonti di noi bei più qualificate e che sono, malgrado tutto, abbastanza note e reperibili. Solo per citare un esempio evidente, basta riflettere su ciò che è accaduto all’agricoltura, che fu per millenni l’attività produttiva per eccellenza. Fusione della tecnica col rito, permeata di simbologia sacra, connubio tra l’umanità e la natura, fucina continua di uomini rudi, saggi e frugali, essa è ridotta, oggi, solo ad essere la più misera tra le industrie, tributaria della meccanica e della chimica all’inseguimento di magri profitti in danno della biosfera.
L’economia corporativa fu semplicemente il tentativo di invertire la nefasta tendenza, riportando l’economia al suo ruolo di strumento e materiale supporto del bene della Nazione, impersonata dallo Stato, secondo la superiore nozione di bene di cui dicemmo al capitolo II.
Ma ciò che bisogna anche comprendere è il metodo con il quale il fine predetto si volle istituzionalmente realizzare. Esso non consisteva nel sottomettere la categoria degli imprenditori a quella dei politici burocrati e tanto meno nel sostituirla con questi ultimi (comunismo), bensì nell’esaltare e sviluppare nei produttori stessi, al disopra della loro specificità economica; quelle qualità di uomo integrale cui abbiamo addietro accennato, che potevano consentire loro di essere anche politici. Di aprirsi cioè a quelle valutazioni che-trascendono gli interessi settoriali-possono estendere gli orizzonti mentali e le aspirazioni di ciascuno sino a coincidere con quelli, non soltanto economici, della intera comunità nazionale.
In un Corporativismo interamente realizzato, la programmazione economica, che significa appunto finalizzazione dell’economia ad obiettivi che la trascendono, deve essere compiuta dagli stessi produttori attraverso gli organi che come tali (corporazioni) e non come parti nel rapporto di lavoro (sindacati) li rappresentano. Ciò implica ed implicò allora una profonda riforma-di concezione e di modo più che di struttura anche dei corpora i cui i produttori si raggruppano, sia di carattere categoriale (sindacati), sia in seguito di carattere produttivo (imprese).
Fin dai primi passi, comunque, le imprese furono considerate come reparti del pacifico esercito della produzione nazionale unitariamente intesa, e i sindacati, depurati da ogni aspetto di lotta di classe, come sostanziali organi dello Stato, tanto da riconoscere loro il potere di emanare, congiuntamente con quello dialetticamente contrapposto, sostanziali norme di diritto obiettivo come i contratti collettivi di lavoro. Autentici organi dello Stato erano per le Corporazioni (e il loro Consiglio Nazionale, cui era affidata proprio la programmazione economica, e che erano composte dalle rappresentanze paritetiche della parte datoriale e quella lavoratrice relative al settore produttivo che alla corporazione faceva capo.
Si è obiettato da qualche critico che tale conduzione, indubbiamente democratica, dell’economia fu contraddetta da una realtà di fatto in cui le nomine anche sindacali (e di riflesso corporative) erano influenzate – o per gli alti gradi addirittura compiute – dal Partito Nazionale Fascista agli ordini del suo Capo.
Ciò è in gran parte vero, ma non è un’obiezione. Basti pensare che l’arco della intera esperienza corporativa, dalla legge 3 aprile 1926 al 25 luglio1943, durò appena 17 anni, di cui cinque di guerra senza contare la Spagna, e che una profonda trasformazione delle mentalità e delle coscienze qual’era quella necessaria perché il sistema potesse funzionare senza correttivi non si può ottenere se non nell’arco di una generazione almeno. Operare una seria rivoluzione pubblica ed economica, completamente nuova ed inedita (senza un retroterra, quindi, di esperienza) sul corpo di una Nazione moderna, i cui meccanismi non si possono fermare un attimo senza provocare un disastro, è più o meno come apportare geniali migliorie a un motore di auto mentre la stessa continua a camminare quotidianamente. E’ una ben ardua impresa, e che il Fascismo storico sia riuscito a compiere le sue riforme senza provocare crisi produttive, neanche nel 1944 come i Tedeschi invece temevano, è un punto a favore di esso a torto dimenticato.
Anche un uomo, peraltro, non diventa autosufficiente appena nato, ed abbisogno per non pochi anni di una Patria potestà, che lo guidi, né si ritiene ciò contrario al principio di libertà. E’ quindi da comprendere come Mussolini e i suoi collaboratori nell’ideazione e impianto del sistema corporativo ancora in fase sperimentale, lo tenessero in certo modo sotto controllo. Un costruttore che togliesse le casseforme appena colato il cemento sarebbe un bello sciocco.
Comunque anche a voler ammettere che le protesi prettamente politiche al sistema corporativo del ventennio fossero un difetto anziché una giustificata e temporanea precauzione, non c’è dubbio che oggi tale difetto non potrebbe riprodursi e che se di protesi ovvero casseforme vi fosse nuovamente bisogno, - come è prevedibile – esse dovrebbero essere di tutt’altro genere.
Quello che invece è importante costatare è che il sistema di rappresentanza democratica per funzioni proprio del Corporativismo, si limitò nel periodo fascista – come estensione se non come finalità – al campo economico – produttivo.
Vedremo nel capitolo VII se tale limitazione fosse insita nel metodo stesso o se fosse invece conseguenza soltanto delle particolari e irripetibili circostanze storiche di allora.
Capitolo VI
La riforma dell’impresa
Avendo seguito senza pregiudizi la nostra esposizione che precede, si dovrebbe agevolmente comprendere come i Decreti RSI del febbraio-ottobre1944, non solo non rappresentassero alcuna svolta rispetto al Corporativismo, dualistico dell’anteguerra ma fossero di esso la successiva e coerente fase…
La nostra indagine sulle valenze attuali e future dell’idea corporativa sarebbe gravemente carente se non dedicassimo la dovuta attenzione all’ultima applicazione di essa, sia in ordine logico che di tempo. Alludiamo alla riforma del rapporto d’impresa che, preannunciata sin dal primo programma fascista del 1921, fu in realtà, secondo noi, alquanto anticipata rispetto ai tempi fisiologici della propria maturazione, a causa del precipitare della situazione militare.
Per comprendere il significato profondo e la portata innovatrice non solo economica di quella riforma, comunemente detta socializzazione bisogna completamente prescindere da abusate espressioni come più alta giustizia sociale (concetto talmente vago che lo usano tutti, e come tale è da accantonare) e non farsi ipnotizzare dal beneficio per i lavoratori consistente nella partecipazione agli utili.
Se è veramente prevedibile che dalla riforma sarebbe derivato anche un reale beneficio in termini di introiti per i lavoratori, esso sarebbe stato conseguito in forza del miglior rendimento dell’impresa grazie al maggior impegno delle maestranze diventate partecipi, alla impossibilità di scioperi, agitazioni e sabotaggi, all’acquisirsi del senso di responsabilità di ognuno; non certo alla diversa distribuzione del famoso plusvalore marxiano.
Anche nella applicazione integrale del principio partecipativo, che era dichiaratamente destinata a succedere a quella paritetica del 1944, e cioè nella totale esclusione del capitale della gestione delle imprese, con trasformazione del capitale azionario in obbligazionario, dall’utile di impresa si sarebbe comunque dovuto sottrarre il pattuito interesse agli obbligazionisti (che non oscilla come i dividendi, ma vanno pagati anche negli anni magri) e la parte da rinvestire in migliorie tecniche: Si aggiunga la retribuzione partecipativa dell’imprenditore (diventato Capo dell’impresa) e l’aliquota di utili da versare necessariamente a una Cassa comune, di natura assicurativa, destinata a garantire comunque ai lavoratori-partecipanti un minimo mensile di introiti anche in crisi settoriali o aziendali, e si comprenderà come gli utili da distribuire oltre l’assegno fisso non possono andare al di là di un premio di produzione.
Quella che conta, enormemente conta, è la partecipazione alla gestione, destinata – come dicemmo – a diventare gestione totale.
Utile per un equivocare sulla vera essenza di usare il termine socializzazione, sostituendolo con l’espressione completa socializzazione delle imprese. Una socializzazione era, infatti, già in atto nel sistema capitalistico, al punto che ormai gestioni individuali si registravano soltanto nell’artigianato e nella piccolissima industria. MA ERANO SOCIALI GLI IMPRENDITORI, NON L’IMPRESA! Si finiva anzi, attraverso il mercato delle azioni col realizzare la separazione della figura dell’imprenditore da quella del capitalista, iniziandosi così già spontaneamente il processo portato a termine coi provvedimenti socializzatori, che trasferivano, con felice strappo giuridico, l’imprenditore diventato capo dei lavoratori nella categoria di questi ultimi.
Il regime capitalista, però, quella separazione aveva permesso l’irruzione trionfale del potere finanziario nella gestione della produzione, colle conseguenze distorcenti già accennate sulla funzione della medesima.
L’uomo della strada definisce, ch’esso, la Lancia come una fabbrica di automobili, ma commette un grave errore giuridico ed economico. La Lancia è solo una società (per azioni) proprietaria di una fabbrica di automobili, che potrebbe benissimo vendere come un oggetto, lavoratori inclusi, senza la minime cessione di azioni. Il fatto che io possieda una pipa non fa di me una pipa!
Tutta la comunità umana che coordinatamente e gerarchicamente si dedica a vari livelli alla produzione e dalla cui attività dipende la qualità della produzione stessa, rimane, nell’impresa capitalistica, estranea all’impresa stessa e legata ai titolari (di regola una S.p.a. o una S.r.l.) da un mero rapporto contrattuale (rapporto di lavoro). In questo è l’aberrazione.
Si badi bene che il neo-capitalismo, pilotato dai fabbricanti di denaro fasullo, non tende affatto di per sé a deprimere il costo del lavoro, e questo non in virtù delle cosiddette battaglie sindacali, bensì per la necessità del primo di continuo incremento dei consumi, che ha trasformato i proletari di una volta in borghesi (e, con l’aggravarsi della crisi, in disoccupati).
Così stando le cose, si dovrebbe agevolmente comprendere come i Decreti del Duce del febbraio e dell’ottobre 1944, non solo non rappresentassero alcuna svolta rispetto al Corporativismo dualistico dell’antiguerra, ma fossero di esso la successiva e coerente fase, anch’essa intermedia e graduale rispetto alla realizzazione finale: tutta la gestione a tutto il lavoro.
Metà di tutto l’ordinamento economico fascista fu, infatti, come s’è visto, quella di restituire all’uomo (integralmente inteso): non l’inesistente (homo oeconomicus) la titolarità e la conduzione dell’attività produttiva, proprio perché solo in tal modo si poteva ricondurre l’economia al suo ruolo di strumento al servizio degli interessi globali della comunità, soprattutto quelli di ordine superiore, che l’uomo come tale può percepire, l’economia di mercato no.
Ci vuole poi molto a capire che, finché sono le forze economiche a controllare anche la politica, si può anche straparlare di democrazia ma farne una vera è impossibile?
Quanto al metodo, esso fu costantemente quello della gradualità delle riforme (dall’ordinamento sindacale di diritto, 1926, alla rappresentanza, corporativa, 1933-39, alla socializzazione delle imprese, 1944) necessaria come vedemmo perché l’attuazione di esse non provocasse alcuna crisi, scopo che fu pienamente raggiunto anche in Repubblica Sociale, la cui saldezza economica anche fra tante rovine sbalordì addirittura i liberatori giunti dal Sud.
La socializzazione delle imprese, che trasformava la componente umana delle aziende (oggetto e non soggetto diritto) in imprese socializzate aventi personalità giuridica (sia pure con la partecipazione paritetica degli azionisti-capitale privi peraltro di rappresentanza sindacale), il rapporto di lavoro subordinato in rapporto associativo e la mercede in acconto fisso sugli utili, rappresentava quindi un proseguimento rettilineo sulla strada della libertà e della dignità umana.
Tra l’altro, essa aveva l’effetto di aumentare ulteriormente l’estensione è l’incidenza del potere popolare (che sono i produttori se non popolo?) sulla gestione effettiva della cosa pubblica, attraverso il peso determinante che nell’emendata costituzione, sviluppatosi il principio della Camera dei Fasci e delle Corporazioni (1939), avrebbe esercitato la Confederazione Generale del Lavoro, della Tecnica e delle Arti.
Era quindi anche la socializzazione un’affermazione essenziale di reale democrazia, e, infatti, il primo atto dei vincitori fu quello di revocarla, dimostrando ancora che il vero nemico della democrazia non è la demonizzata dittatura ma la falsa democrazia.
Venendo all’attualità, del principio partecipativo, basterà considerare come i mali che con esso si intendeva scongiurare, e cioè l’incontrastato dominio sui popoli della cinica plutocrazia apolide, si siano oggi gravemente incancreniti (i belati umanitaristici ed ecologisti da salotto o da scoop giornalistico lasciamo com’è noto il tempo che trovano), mentre la loro logica subumana arriva, persino ad inquinare gli ambienti di coloro che sino a ieri se ne dichiaravano oppositori.
Ci sembra quindi che per noi rimasti in piedi e immedesimati nella missione, che non temiamo di definire sacra, del riscatto dell’uomo, una riforma dell’impresa nel senso inviato come ultimo messaggio da Mussolini sia uno dei punti assolutamente irrinunciabili.
Capitolo VII
Lo Stato organico
la democrazia non è per noi un principio religioso: è solo un metodo (anzi un’espressione estensibile a tutta una serie di possibili metodi) per designare e legittimare l’aristocrazia politica della Nazione.
Registravano, a conclusione del V capitolo, che le realizzazioni corporative nel ventennio si limitarono al campo del lavoro e della produzione, del quale tendevano ad attuare la rappresentanza organica anche nell’organo legislativo (Camera del Fasci e delle Corporazioni).
Noi pensiamo che tale limitazione derivasse non da una proprietà del sistema ma da una contingenza storica. Il Fascismo aveva conquistato tutto il potere in due tempi (1922 e 1925 e l’esperienza corporativa era cominciata solo l’anno successivo con la legge sindacale 563. Tutta l’area politica era quindi occupata dal Fascismo e dal suo Capo, che indubbiamente poteva vantare un consenso popolare senza precedenti, non solo in termini numerici (98,33% nelle elezioni 1929 e 99,84% in quelle del 1934), ma soprattutto in intensità e convinzione. Mussolini era certo (e quasi tutti gli italiani di allora con lui) di interpretare ed esprimere rettamente la volontà politica della Nazione, senza che neppure esistesse il problema di come distillarla dalla volontà del popolo (abbiamo visto come i due concetti non si identifichino). La volontà economica, conservando essa, più nella univocità dei fini ultimi, vastissimi margini di opinabilità, era espressa, col sistema organico per funzioni, dagli organi corporativi, peraltro anch’essi sotto sorveglianza.
Non comprendiamo – sia detto per inciso – come i liberaldemocratici, di vecchia fede o catecumeni, possono menare tanto scalpore di ciò, dato che loro giunsero al potere in Francia nel 1789, e si ebbero in seguito prima una serie di sanguinose (quelle sì!) dittature, poi l’autocrazia napoleonica e finalmente, dopo la parentesi della Restaurazione, la Francia cominciò a funzionare…liberalmente (e poi democraticamente) solo oltre mezzo secolo dopo la presa della Bastiglia. Il Fascismo, dall’inizio del regime alla sua violenta soppressione ebbe solo, includendovi la R.S.I., vent’anni a disposizione.
Ora quelle condizioni storiche sono cessate e la volontà della Nazione è tutta da determinare. La difficoltà che una democrazia deve affrontare e superare è quindi lo studio di un metodo di espressione della volontà popolare e di assunzione di essa come volontà dello Stato che dia le migliori garanzie di sincerità e di efficacia.
Per quanto attiene alle funzioni produttive, il metodo corporativo antiguerra può essere assunto come paradigma con minime varianti, anche per le questioni di inquadramento, e cioè per la fissazione dell’ambito e composizione delle corporazione.
Non così per le funzioni non produttive, ma non meno importanti se, attraverso la volontà popolare, si vuole esprimere l’anima della Nazione in metodo completo. Nel sistema tra le due guerre, per i motivi esposti, le valenze prettamente spirituali o politiche erano affidate per l’espressione al Partito Nazionale Fascista e alle sue filiazioni Opera Nazionale Dopolavoro, Opera Nazionale Balilla (poi G.I.L.), Opera Nazionale Combattenti, Opera Nazionale Maternità e Infanzia, Accademia d’Italia, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Comitato Olimpico Nazionale Italiano ed altre minori, con una copertura di campo abbastanza completa.In parte, contribuiva alla espressione di valenze nazionali non produttive anche la Confederazione Fascista dei Professionisti e Artisti. Ora, né l’uno né l’altra, esistono più, né esiste un’imposizione politica unitaria già determinata. Noi siamo convinti che il sistema della rappresentanza per funzioni sia il più consigliabile anche per il settore extraeconomico, e abbiamo già accennato e spiegheremo nell’ultimo capitolo il perché. Si tratta di strutturarlo, e il compito non è facile, sia perché si pone per la prima volta, sia perché esistono categorie morali che presentano notevoli difficoltà a volerle inquadrare in corporazioni. Basti por mente a quella fondamentale sia come soggetto che come oggetto di politica che è la funzione delle casalinghe.
Anche quelle difficoltà però, con impegno intellettuale e cauta sperimentazione andranno superate.
Quel che è certo è che fare della sovranità popolare un sacro principio, dinanzi al quale bruciare incenso a profusione, e poi attuarla col semplicistico e sospetto sistema del suffragio universale indifferenziato e delle liste partitiche, collegi uni-o-plurinominali, presidenzialismo o parlamentarismo, maggioritario e proporzionale, vuol dire screditare la democrazia, non realizzarla, e vuol dire lasciare lo Stato in preda di poteri arbitrari e incontrollati, estranei sia alla volontà popolare che agli interessi nazionali e ai quali la pseudo-democrazia funge soltanto da compiacente paravento.
Quando Sorel affermava: La democrazia è il Paese della cicogna dei finanzieri senza scrupoli, non alludeva certo al principio del governo fondato sulla volontà del popolo, ma alla forma partitocratrica a suffragio indifferenziato che aveva sotto gli occhi. E la realtà attuale proclama con terribile evidenza quanto il pensatore di Cherbourg, già quasi un secolo addietro, avesse ragione.
Noi, che in fatto di metodi politici non abbiamo religioni ma solo convinzioni, sentiamo in compenso troppo rispetto per il nostro popolo per continuare a propinargli tra inchini e salamelecchi una siffatta patacca.
Sta bene la sua volontà e non si vede a quale altra volontà ci si potrebbe riferire, ma che sia autentica volontà, analoga nella sua funzione a quella che guida le azioni di un essere umano e non astrazione cabalistica, e che sia idonea a coprire l’intero campo delle manifestazioni di ogni tipo e livello di cui si compone la vita e in cui si manifesta la validità di una Nazione. Che sia autonoma e non condizionata o estorta; qualificata e non vaga e generica; e infine che la classe politica risultantene sia veramente tenuta ad attuarla e non possa, previe le genuflessioni l’uso, metterla da parte e farsi i propri comodi.
Solo da tale punto di vista, il fallimento evidente e rovinoso delle istituzioni introdotte in Italia dalla Liberazione non è un fallimento della democrazia, bensì soltanto di uno di quei metodi, purtroppo tuttora vigente con insignificanti ritocchi. E solo in tale ottica non è necessario abbandonare il principio generale del fondamento popolare del potere per realizzare un sistema politico che sia elemento essenziale di progresso e non causa di degradazione.
Senza affrontare la problematica tecnica, ci preme qui almeno fissare i criteri fondamentali che a nostro avviso dovrebbero presiedere all’adozione di una rappresentanza democratica per funzioni:
  1. Non si tratta di una rappresentanza di interessi. Ogni membro del parlamento delle Funzioni, anche se tale diviene di diritto per l’elezione alla sua carica da parte della corporazione di appartenenza rappresenta tutta la Nazione, analogamente a quanto dispone l’art. 67 della Costituzione vigente; solo egli apporta all’attività legislativa l’opinione qualificata e l’esperienza specifica della funzione che lo ha espresso, e ciò non nell’interesse di quella categoria ma della Nazione intera.
  1. La designazione del proprio presidente nazionale (o come altro sarà denominato) e degli altri suoi rappresentanti al vertice da parte di ogni corporazione avverrà secondo le regole, nelle ipotesi ed eventualmente secondo le cadenze previste nello Statuto liberamente datosi dal corpus medesimo, che dovrà al massimo rispettare alcuni requisiti generali da fissarsi per legge.(**) La stessa elezione da parte della corporazione farà acquistare però automaticamente all’eletto la qualifica di membro del parlamento. Ogni corporazione potrà sostituirne uno o più a norma del proprio Statuto, in ogni momento.
  1. La quantità dei deputati (si chiamino così o altrimenti) assegnati ad ogni corporazioni non potrà ovviamente essere commisurata al numero dei rispettivi iscritti, dato questo del tutto rilevante per chi abbia afferrato lo spirito della riforma proposta, bensì all’importanza della funzione relativa nella vita della Nazione.
  1. Siamo contrari all’ipotesi di due camere, l’una economica e l’altra politica, sia per la dipendenza gerarchica dell’economia rispetto alla politica, sia perché la valenza politica, e cioè quella di ragionare uti cives e parte integrante della personalità di ognuno, anche se espresso da una corporazione produttiva. Il nostro sistema punta a valorizzare la polivalenza dell’uomo, non le sue specializzazioni deformanti.
  1. Le elezioni nei singoli settori corporativi dovrebbero avvenire per gradi territoriali, preferibilmente che per sub-categorie. Per esempio, gli agricoltori della provincia di Pesaro parteciperebbero tutti, nella loro pubblica funzione di elettori primari, all’elezione del loro direttivo corporativo, che a sua volta eleggerà il suo rappresentante all’assemblea regionale di settore. A questa spetterebbe, tra le altre mansioni, l’elezione del proprio rappresentante dell’organo direttivo della corporazione nazionale, che dovrebbe a sua volta eleggere nel proprio seno i deputati degli agricoltori al parlamento nazionale.
Elezioni primarie potrebbero essere previsti dagli Statuti di corporazioni molto numerose anche per subcategorie produttive.
  1. Sarebbe, con tale sistema, con i capi delle assemblee nazionali di corporazione e non con i segretari dei partiti che il Capo dello Stato o il Presidente del Consiglio designato dovrebbero consultarsi per la scelta dell’esecutivo.
  1. I sindacati, finché permanesse la struttura dualistica dell’impresa, conserverebbero la loro funzione di parte nelle controversie collettive di lavoro e tenderebbero probabilmente alla unificazione, una volta vanificato il loro collegamento colle diverse parti politiche, e cioè i partiti. Cessata, infatti, per questi ultimi ogni presunzione rappresentativa, essi si ridurrebbero a circoli per la diffusione di idee e orientamenti, e potrebbero perfino diventare utili.
(*) Obbligo di deposito e controllo di legittimità da parte del Consiglio di Stato.

Capitolo VIII
Una democrazia realizzata
Sarà veramente la sua opinione (del cittadino) a determinarlo, in un ambito a lui ben noto, e non quella fabbricata dagli opinion makers stipendiati.
Esposti così per linee generali i fini, i principi e i metodi di consultazione popolare per funzioni, che costituiscono parte rilevante dei nostri contenuti politici, concludiamo questa rapida dichiarazione d’intenti esponendo i vantaggi (in parte già accennati passim nell’esposizione) che secondo noi la rappresentanza corporativa o per funzioni presenta, nell’interesse della comunità nazionale di oggi e di domani, rispetto ai meccanismi di consultazione popolare attuali, e a cagione dei quali vantaggi la riteniamo l’unico tipo di soluzione praticabile dei problemi che invece limitandosi alle variazioni sul tema del parlamentarismo e del suffragio universale indifferenziato – si presentano come insolubili.
I - Scegliere, da parte dell’elettore primario, nell’ambito provinciale, il proprio collega che ritiene più idoneo sia quale presidente della locale corporazione che quale rappresentante di essa a livello regionale è cosa ben diversa che, da parte dell’elettore attuale, scegliere in funzione di rappresentanza generica nell’intera popolazione, tra persone o liste di persone che non conosce se non dalle faccione sorridenti stampati sui manifesti, o al massimo dalle intenzioni da loro dichiarate (senza impegno). Non ci sembra occorra dimostrare come, nel primo caso, egli sia in grado di compiere una valutazione e una scelta più autonoma, più motivata e con maggiore cognizione di causa. La sua scelta sarà di conseguenza assai meno influenzabile e pilotabile da abili espedienti subliminali, da informazioni manipolate o da presentazioni faziose da parte dei mass-media asserviti, come si sa, a lobbies di coscienza nazionale assai dubbia, che la libertà di stampa e di antenna, per quanti correttivi le si possono trovare, esonera da qualsiasi obbligo di sincerità ed obbiettività.
Gli elettori di secondo e terzo grado, a loro volta, dovranno operare le loro scelte fra canditati che personalmente conoscono e possono direttamente valutare dall’acume, l’equilibrio e la preparazione dimostrata durante le sedute dell’organo collegiale di appartenenza.
E’ quindi prevedibile che, procedendo per vari gradi di elezione, mentre nel primo sarà prevalente criterio di scelta la serietà e il prestigio professionale, nei gradi successivi andrà acquisendo sempre maggior peso la valutazione delle capacità politiche, che chi deve rappresentare al vertice una intera funzione nazionale deve possedere.
2° - Un rappresentante di corporazione nazionale, di diritto membro del parlamento, risulterà in tal modo da una selezione di qualificazione crescente.Se canone basilare della democrazia è la convinzione che il popolo abbia la capacità di conferire saggiamente le proprie deleghe, deve, discenderne la convinzione che uomini provenienti dalle varie funzioni e così selezionati siano di gran lunga preferibili ai cosiddetti politici professionali, la cui responsabilità non consiste nella qualificazione a legiferare, ma nell’abilità nel farsi eleggere e nel restare a galla con qualsiasi mezzo.
3° - Il sistema di elezione graduale, capillare e differenziata, svolgentesi con continuità in una miriade di piccole assemblee di categoria senza clamore né kitsch e senza imbrattamento di muri né slogan azzeccati verrebbe a rendere estremaamente problematico se non impossibile influenzare le candidature o il successo di esse con l’uso spregiudicato dei grandi mezzi di diffusione stampati o radiotelevisivi da parte delle potenze che li controllano col denaro o il ricatto. L’accusa da più parti rivolta alla democrazia non avrebbe più fondamento, essendo in realtà rivolta non alla democrazia in sé ma alla semplicistica e in autentica forma di democrazia in atto, che si presta a tutte le manipolazioni da parte di chi ne conosca i riposti segreti.
4° - Il ricambio continuo e permanente nella composizione degli organi elettivi (anche alle elezioni regionali o comunali potrebbe applicarsi identico sistema, utilizzando le stesse articolazioni per funzione) segnerebbe la fine delle carnevalesche e dispendiosissime campagne elettorali, le cui conseguenze negative sono a tutti note, a cominciare dalla necessità da parte degli eletti assunti al potere di rimborsarsi nell’esercizio di esso degli esborsi sopportati per conseguirlo o di onorare gli impegni verso chi ha pagato per loro. La colossale macchina della corruzione politica si incepperebbe presto per mancanza di clienti, oltre ché dello spazio di manovra cui oggi è abituata.
Lo Stato guarirebbe, inoltre del singhiozzo periodico delle nefaste legislature, con la possibilità già notata di formulare e attuare piani di lungo respiro, senza che i prodotti della politica nascano già marchiati col timbro maligno della precarietà. Non parliamo poi della famosa alternanza da qualche sprovveduto addirittura auspicata, che può avere un grossolano senso (un po’ per uno non fa male a nessuno) solo se si capisce il potere come un premio e un privilegio, ma se le mansioni politiche sono rettamente sentite come un gravoso compito e responsabilità al servizio della Nazione è addirittura insulsa. E’ una ben strana etica democratica quella consistente solo nelle regole deontologiche per lo sport dell’assalto alla stanza dei bottoni.
5° - La suddivisione dell’elettorato non in base alla collaborazione politica, spesso assai sbiadita o inesistente, ma in base alla funzione svolta nella vita della Nazione, insieme all’assegnazione di un numero determinato di parlamentari a ognuna di dette funzioni, stroncherebbe finalmente il pernicioso gioco del formarsi o sciogliersi di coalizioni e delle altre manovre parlamentari, cui la volontà degli elettori è del tutto estranea e che ostacolano gravemente la serietà e tempestività degli interventi legislativi e la loro finalizzazione soltanto all’interesse generale.
6° - I partiti, privati di una funzione rappresentativa puramente usurpata, sarebbero concepiti soltanto come centri di elaborazione e diffusione di dottrine e di metodi, giudicati dal pubblico più sensibile e interessato alle problematiche politico-sociali in base alla attendibilità delle rispettive tesi e al livello dei loro esponenti, dando in tal modo (quelli che sopravvivrebbero) alla libertà di pensiero e al pluralismo la giusta funzione e collocazione nel piano generale, che è quella di stimolare nell’elettorato la riflessione e le facoltà critiche.
7° - La politica attiva perderebbe il carattere ludico di competizione fra fazioni intene a sopraffarsi a vicenda, inutile sperpero di energie annullatesi a vicenda i cui risultati abbiano sotto gli occhi, e diverrebbe finalmente quello che deve essere: LO SFORZO DI SODDISFARE LE AUTENTICHE ESIGENZE DELLA NAZIONE, ESPRESSE DAL POPOLO ATTRAVERSO I CORPI INTEMEDI CHE NE’ ASSOMMANO E ARTICOLANO LE FUNZIONI VITALI, TRASFORMATE IN VOLONTA’ DELLO STATO. SAREBBE ATTUATA COSI’ L’UNICA DEMOCRAZIA VERA E COMPIUTA: LA DEMOCRAZIA ORGANICA.
Siamo perfettamente consapevoli delle difficoltà di realizzare il progetto che precede, in presenza di una classe politica come l’attuale, rissosamente discordie in superficie ma massicciamente concorde nell’intenzione di mantenere le attuali istituzioni, stiracchiandole tutt’al più in un senso o nell’altro a seconda delle varie e contrastanti furberie.
Vi si potrà comunque arrivare soltanto per gradi, se il popolo italiano –a sua volta unanime nell’averne fin sopra ai capelli di costoro – prenderà compiuta coscienza che, perdurando gli strumenti politici attuali, ogni possibilità di esprimersi gli è sottratta.
Di un’altra cosa siamo però anche consapevoli: che tanto più il ripudio dell’attuale democrazia-truffa sarà procrastinato per l’influenza dei poteri spuri cui essa è propizia, tanto più grave sarà il danno per la nostra Patria e più doloroso e drammatico sarà il trapasso. E’ quindi nostro dovere verso i morti, e ancor più verso i nascituri dedicare ogni nostra forza a che quella presa di coscienza avvenga il più presto possibile.
Rutilio Sermonti