venerdì 28 luglio 2017

GELA, 1943 : IL RITORNO DELLA MAFIA IN SICILIA


GELA, 1943 : IL RITORNO DELLA MAFIA IN SICILIA


Di Reporter

Luglio 1943: Gela contro le truppe “anglomafiose”. – la nascita della repubblica italiana e dell’ indipendentismo siciliano.

Gela, 13 lug – Settantadue anni fa nella piazza del Duomo di Gela si respirava aria di morte. Poche ore prima si era consumata nelle strade della cittadina siciliana una battaglia all’ultimo uomo tra le truppe dell’Asse e gli invasori.

La popolazione non rimase a guardare e diede man forte al Regio Esercito e agli alleati tedeschi. È vero la storia ufficiale dice ben altro. Ma, la verità alla fine viene fuori. Sono gli stessi archivi dell’esercito statunitense a confermarci che l’invasione della Sicilia non fu una passeggiata di salute.

Ma, questo dato non basta. Il tema forte, però, è un altro: la collaborazione di Cosa nostra con gli invasori. Proprio per questo ieri l’Associazione Libera (che si batte contro tutte le mafie) avrebbe dovuto organizzare una bella manifestazione per non dimenticare. Ma, forse ciò che andava rammentato faceva paura a Don Luigi Ciotti, leader della sopracitata organizzazione. Il prelato da strada avrebbe dovuto spiegare ai suoi democraticissimi seguaci che i partigiani in Tricania non portavano il fazzoletto al collo, ma preferivano la coppola in testa e la lupara in mano. Insomma la resistenza al nazifascismo era prerogativa dei padrini. Vediamo perché.

Tra il 9 ed il 10 luglio del 1943, iniziò la campagna delle forze alleate per la liberazione dell’Italia dai nazi-fascisti. L’operazione venne denomimata “Husky” (cane da slitta) e vide sbarcare in Sicilia 160 mila uomini tra britannici, statunitensi e canadesi. Ma qualcuno negli anni studiando l’evento ha fornito particolari assai interessanti. Uno di questi è Michele Pantaleone da Villalba, esperto di storia della mafia. Egli raccolse testimonianze e documenti, confermati dalla “Commissione Parlamentare Antimafia” del 4 febbraio del 1976, dimostrando quello che solo i vecchi nostalgici osavano affermare. Vediamo nel dettaglio questa ricostruzione.

La Commissione Parlamentare Antimafia accertò, infatti, che:

“Numerosi emissari dell’Esercito Americano, vennero inviati preventivamente in Sicilia, al fine di preparare psicologicamente l’isola allo sbarco e di prendere contatti con gli uomini di cosa nostra. L’avvocato [ ebreo – NDR ]  Moses Polakoff, difensore del mafioso americano Mayer Lansky, prese i contatti, non solo con quest’ultimo, ma persino con il siciliano Lucky Luciano (per l’anagrafe Salvatore Lucania) a quel tempo in carcere in America. Luciano mise in contatto in Comando Generale Usa, con il capo della mafia siciliana che era allora Don Calogero Vizzini da Villalba. Vizzini si coordinò con gli altri mafiosi siciliani, tra i quali Giuseppe Genco Russo di Mussomeli, al fine di aiutare gli Americani nello sbarco, tra il 9 ed il 10 luglio 1943”.

A sbarrare la strada aperta dai mafiosi, ci pensarono i fascisti. La piana di Gela fu campo di una durissima battaglia, consumatasi tra i tedeschi dell’Armata “Hermann Goering”, egli italiani dell’Armata “Livorno” contro le Forze Alleate.

Stessa durissima battaglia si combatté sul fiume Simeto, dove la VII Armata, riuscì a bloccare l’avanzata degli Americani verso Catania.

Il 17 luglio 1943 gli americani entrarono ad Agrigento, il 22 luglio a Palermo ed il 17 agosto a Messina. Venne quindi insediato il Governo AMGOT, al capo del quale fu designato il Generale Charles Poletti.

Alla ricostruzione dell’accaduto si aggiunge un interessantissimo libro di Andrea Augello “ Uccidi gli italiani. Gela 1943, la battaglia dimenticata”.  Una lettura controcorrente che smentisce lo stereotipo del caloroso welcome dei siciliani agli amici americani.

Augello, infatti, spiega che a Gela si combatté strada per strada.  La propaganda alleata celebrò lo sbarco come “una passeggiata militare, ostacolata solo da qualche coriaceo carro Tigre tedesco, mentre masse d’italiani festanti correvano loro incontro”.  Folle festanti ci furono inizialmente a Palermo e in altre località, con l’attiva partecipazione della Mafia, che poteva così, dopo vent’ anni di Fascismo, riprendere il possesso del territorio.  Augello spiega bene anche il clima che si respirava in quei giorni.

“Le condizioni di vita dei siciliani erano diventate insostenibili dopo mesi di crudeli bombardamenti. La Sicilia e la punta della Calabria furono letteralmente arate dall’aviazione alleata, che provocò il collasso della vita civile e la carestia già prima dell’invasione.  In Sicilia i caccia alleati inaugurarono quel tiro al bersaglio contro esseri umani, animali e cose che sarebbe durato per tutta la Campagna d’Italia.  Ripetuti furono i mitragliamenti a bassa quota sulle colonne di civili inermi in fuga dalle zone di combattimento.  Furono anche impiegate piastrelle incendiarie al fosforo contro boschi e coltivazioni.  In questo quadro, l’occupazione da parte di un nemico dotato di larghi mezzi e risorse e in cui c’erano anche numerosi soldati siculo – americani, diventava il male minore: significava la fine dei bombardamenti, delle vittime, della fame, del caose della sporcizia, l’inizio di un ritorno a una vita normale”.

Detto questo, chi avesse dei dubbi sul rapporto tra la mafia e il Fascismo può trovare delle risposte.

La mafia fu da subito in prima linea sul fronte antifascista. Arrivò prima del Re, di Badoglio, dei partigiani e di De Gasperi. Cosa dovrebbe dire oggi Don Luigi Ciotti a Gela? Nulla ,,,,,,, infatti preferisce parlare di mafia capitale.

Del resto, non va dimenticato che senza l’ apporto della Mafia trapiantata nella democratica America, lo sbarco in Sicilia degli invasori yankee sarebbe stato impossibile : fa parte dei libri di Storia l’ accordo – quella volta ancora segreto – fra governo statunitense e Mafia : la mafia avrebbe fornito tutto il supporto – anche spionistico – possibile per permettere agli americani di sbarcare in Sicilia. In cambio avrebbe avuto la possibilità di reimpiantarsi in Sicilia, da dove era stata sradicata dall’ azione del prefetto di ferro Mori, che Mussolini incaricò di debellare la Piovra in Sicilia, con tutti i mezzi. Per sovrammercato, la Mafia chiese anche di avere la gestione della Sicilia a mani libere ..

Entrambe le parti, da veri galantuomini e uomini d’ onore stettero ai patti e noi oggi ne paghiamo le conseguenze : siamo sudditi degli americani ( che a settant’ anni dalla fine della guerra non se ne sono ancora andati) e la Mafia controlla totalmente la autonoma regione siciliana  e la intiera vita politica ed economica nazionale… D’ altro canto, sanno tutti che dietro i moti indipendentisti siciliani vi era la longa manus delle neocostituite cosche e ‘ndrine criminali che non gradivano il ritorno dello Stato nelle terre sicure appena liberate…

Però, qualcuno ha voluto commemorare quegli eventi. Il 10 luglio 2013, l’ambasciatore statunitense in Italia, David Thorne, celebrò il settantesimo anniversario dell’invasione della Sicilia per ricordare che Gela è stata la prima città europea ad esser “liberata dalla dittatura nazifascista”. Il diplomatico ha dimenticato di dire qualcosa. La Sicilia liberata dalle potenze dell’Asse verrà stretta dai tentacoli dell’Octopus Vulgaris, per gli amici Piovra.

Nacquero cos’ la repubblica italiana e la regione autonoma siciliana : autonoma dallo Stato, ma non dalla mafia…

Reporter 

                                                                                                                                       

lunedì 24 luglio 2017

La Risiera di San Sabba Un falso grossolano

Carlo MATTOGNO
La Risiera di San Sabba
Un falso grossolano



SENTINELLA D'ITALIA
Monfalcone, 1985
EDIZIONI DELL'AAARGH
Internet, 2004


INTRODUZIONE
Negli ultimi anni la storiografia sterminazionista si è arricchita, di un nuovo «campo di sterminio»: la Risiera di San Sabba. Nel Gennaio 1979 è apparsa una delle opere più importanti dedicate a tale tema: «La Risiera di San Sabba», di Ferruccio Fölkel. (1)
L'Autore intende dimostrare che la Risiera fu un «Vernichtungslager» («campo di sterminio») definizione da lui stesso, usata quattro volte (p. 18, 50, 132 e 157) ovviamente provvisto di forno crematorio e «camera a gas».
Sebbene venga presentata come frutto di «puntigliose ricerche durate oltre tre anni» (p. 2 di sopracoperta), l'opera è di un livello decisamente mediocre.
La descrizione contorta e contraddittoria di forno crematorio e «camera a gas» non occupa complessivamente più di una pagina, sommersa da una marea di disgressioni e di divagazioni che spesso rasentano il pettegolezzo e che non hanno alcuna connessione con lo «sterminio» pretesamente perpetrato, alla Risiera.
Il metodo dimostrativo del Fölkel è superficiale e dilettantesco, sia nel procedimento dimostrativo vero e proprio, arbitrario e infondato, sia nell'uso di testimonianze di seconda mano, sia infine nel riferimento alle fonti, spesso lacunoso o addirittura inesistente. Da tutta l'opera traspare [6] inoltre una crassa ignoranza in tema di storiografia sterminazionista.
Nonostante ciò, l'opera a quanto pare è stata presa sul serio. In una recensione non propriamente oculata, Giuseppe Laras, direttore della rivista La Rassegna Mensile di Israel, la presenta come segue:
    «Del tragico luogo di tortura e di morte, noto come la "Risiera di San Sabba", fino a pochi anni fa se ne sapeva ben poco. La rivelazione che la "fabbrica della morte" nazista aveva svolto il suo orribile lavoro anche da noi inquietò profondamente l'opinione pubblica del nostro paese. ...
    Il processo penale, tuttavia, ha lasciato troppi interrogativi insoluti e troppi problemi irrisolti. Di gettare maggior luce su tale inquietante vicenda si è incaricato Ferruccio Fölkel, di padre viennese e madre triestina, il quale, attraverso lunghe e minuziose indagini, è riuscito a ricostruire quanto avvenne a San Sabba, a Trieste e nel litorale adriatico durante gli anni crudeli dell'occupazione nazista.
    Sulla scorta di testimonianze di ex prigionieri e di documenti inediti, il Fölkel ricostruisce una vicenda angosciosa di morte e di sofferenze, che tutti abbiamo il dovere di non ignorare, oltreché per un insopprimibile moto di riconoscenza e. di pietà verso la memoria delle vittime, per rafforzare in noi il disgusto e il rifiuto della dottrina nazista e di qualsiasi ideologia liberticida» (2).

In realtà La Risiera di San Sabba, più che opera storica, e un libello pseudoscientifico, come ci accingiamo a dimostrare in questo studio.




[7]
I
LA «CAMERA A GAS»

Riguardo alla «camera a gas» il principale strumento di «sterminio» della Risiera (p. 26) il Fölkel è sorprendentemente laconico. Ecco tutto ciò che si può apprendere al riguardo dal suo libro:
    «Proprio lì era stato utilizzato un vano piuttosto ampio, chiamato convenzionalemnte "garage". Da questo garage si passava nel crematorio attraverso una porta mascherata da un vecchio mobile. La camera a gas funzionava in modo rudimentale. Come vi veniva immesso il gas venefico ? È difficile rispondere, ma i tedeschi avevano prelevato anche un grande furgone postale e avevano fatto venire dalla Germania un furgone particolare. Vi era addetto il famoso Lorenz Hackenholt, quello che a Belzec, come sottufficiale delle SS, aveva lavorato nella stessa direzione. I grossi automezzi-mobili della morte venivano chiamati a Belzec "Fondazione Hackenholt". Pare che fosse stato Hackenholt a far impiantare e a impiegare grossi tubi di scarico attraverso i quali il gas veniva immesso nel garage» (p. 26).
Osservazioni
Nel 1945 crematorio, garage e ciminiera furono distrutti [8] con l'esplosivo, per cui non esiste più traccia della «camera a gas»:
    «Il forno crematorio, il famoso garage e la ciminiera, sono stati fatti saltare in aria dai tedeschi la notte fra il 29 e il 30 aprile 1945, poco prima di lasciare il campo di San Sabba» (p. 31; cfr. p. 143).
Nessuno dei testimoni citati dal Fölkel menziona la «camera a gas», ad eccezione di Paolo Sereni, che accenna fuggevolmente e per sentito dire ai «gas» (vedi al riguardo p. 21).
Il testimone Schiffner dichiara anzi esplicitamente che alla Risiera non esisteva alcuna «camera a gas»:
    «Prima del forno crematorio c'era una grande stanza, nella quale venivano condotti gli ebrei. Non ho sentito spari. Per quanto mi ricordi, nella stanza in cui venivano rinchiusi gli ebrei non c'era un impianto a gas. Suppongo che gli ebrei venissero impiccati, perché si potevano sentire talvolta durante la notte le grida» (p. 29-30).
In nota il Fölkel commenta: «Questa grande stanza, come già detto, veniva chiamata "garage" e lì sembra sia stata gassata la maggior parte dei partigiani e delle loro famiglie condannati a morte» (p. 29, nota 3).
Dunque tale stanza, anche se priva di un «impianto a gas», era ugualmente una «camera a gas» in cui «sembra» che siano state effettuate delle «gasazioni» !
A pagina 33 il Fölkel riferisce la seguente testimonianza:
    «Mi diceva Wachsberger che nei giorni in cui si doveva procedere agli stermini, la porta del garage rimaneva aperta per l'intero pomeriggio».
Di conseguenza la «camera a gas» della Risiera operava con la porta aperta!
L'affermazione (arbitraria e infondata) del Fölkel secondo cui la «camera a gas» si trovava nel cosiddetto «garage» è contraddetta inoltre dal testimone Paolo Sereni, il quale dichiara: «Il forno era istallato nel luogo adibito a garage» (p. 168).
Incertezza e contraddizione anche riguardo alla data in cui sarebbero iniziate le «gasazioni»:
    «È invece universalmente riconosciuto che la data [9] ufficiale dell'inizio dell'attività della (o delle) camera a gas mobile, del «garage» e del crematorio risale al 4 aprile 1944 anche se fonti diverse parlano del 17 o addirittura del 21 giugno». (p. 33).
Il Fölkel asserisce che «quasi tutta la documentazione compromettente» della Risiera è stata bruciata nel crematorio il 28 aprile 1945 (p. 35), per cui tutti i documenti nazisti relativi alla Risiera sono scomparsi, e infatti egli non ne cita neppure uno. Considerato inoltre che i testimoni menzionati dal Fölkel nulla sanno della «camera a gas» della Risiera, come può egli affermare seriamente che «e invece universalmente riconosciuto» che le «gasazioni» iniziarono il 4 Aprile 1944? E come può parlare di «fonti diverse»? Da chi e su quali basi è «universalmente riconosciuto» ? E quali sono queste pretese «fonti diverse»? Mistero impenetrabile.
Un altro mistero impenetrabile è quello relativo alla tecnica di «gasazione». Come funzionava la «camera a gas»?
Esaminiamo la descrizione del Fölkel:
    «La camera a gas funzionava in modo rudimentale. Come vi veniva immesso il gas venefico ? È difficile rispondere, ma (!) i tedeschi avevano prelevato anche un grande furgone postale e avevano fatto venire dalla Germania un furgone particolare» (p. 26).
Dunque il Fölkel ignora completamente la tecnica di «gasazione», ma nonostante ciò dichiara che la «camera a gas» funzionava in modo rudimentale!
Qualche riga dopo egli aggiunge:
    «I grossi automezzi-mobili della morte venivano chiamati a Belzec "Fondazione Hackenholt". Pare che fosse stato Hackenholt a far impiantare e a impiegare grossi tubi di scarico attraverso i quali il gas veniva immesso nel garage» (p. 26).
Ecco inaspettatamente la risposta alla inquietante domanda cui «è difficile rispondere»: la «camera a gas» funzionava col gas di scarico dei «grossi automezzi-mobili della morte», o del «furgone postale», o del «furgone particolare», o di un normale autocarro, affermazione arbitraria e infondata non suffragata dalla minima prova.
Per quanto concerne le «camere a gas mobili», il Fölkel [10] manifesta la stessa incertezza e confusione. Egli parla una volta di «camera a gas mobile», al singolare (p. 22), un'altra volta di «autofurgoni mobili», al plurale (p. 24) e infine «della (o delle) camera a gas mobile» (p. 33).
Quante erano queste pretese «camere a gas mobili»? Altro mistero impenetrabile.
Ma quali prove ci sono che alla Risiera siano effettivamente state impiegate le «camere a gas mobili» ? Al riguardo in tutto il libro del Fölkel compare soltanto un riferimento ad una lettera del 6.4.1945 proveniente dal carcere del Coroneo che accennerebbe «all'arrivo del "famigerato autotreno a gasogeno", dove venivano fatti salire "i sorteggiati"» (p. 30).
Tale lettera è menzionata nella «prima parte del punto 6 del dispositivo della sentenza della corte di assise presieduta da Domenico Maltese» (p. 28): non è citato né il testo, né l'autore, né il destinatario. Ciò significa che il documento in questione è assolutamente irrilevante. Infatti la storiografia ufficiale nulla sa dell'impiego di «camere a gas mobili» i cosiddetti «Gaswagen» (3) a San Sabba. La «Zentrale Stelle der Landesjustizverwaltungen» di Ludwigsburg, da noi interpellata in proposito, non ha alcuna conoscenza al riguardo (4) e la più importante ed autorevole opera sterminazionista degli ultimi anni, Nazionalsozialistische Massentötungen durch Giftgas, non ne fa menzione (5).
Del resto non si comprende per quale ragione il fantomatico 'autotreno (!) a gasogeno' sarebbe stato inviato alla Risiera dove pretesamente esisteva già una «camera a gas» e per di più il 6 Aprile 1945, tre settimane prima che il campo fosse evacuato!
[11]
Conclusione
Non c'è la minima prova che alla Risiera sia mai esistita una «camera a gas», di cui si ignora dove si trovasse, come funzionasse, da chi e quando sia stata costruita, quando sia entrata in funzione.



[13]




II

IL «FORNO CREMATORIO»

Anche riguardo al «forno crematorio» il Fölkel fornisce informazioni esigue e contraddittorie.
    «Il crematorio era stato predisposto sotto il livello del terreno e, a detta dell'architetto Boico, era lungo 20 metri per 15; lo stesso architetto è convinto che ci fosse il modo di bruciare almeno cinquanta corpi alla volta» (pp. 26-27).
Esso era attiguo alla «camera a gas»:
    «Da questo garage si passava nel crematorio attraverso una porta mascherata da un vecchio mobile» (p. 26).
Il testimone Gley fornisce la seguente descrizione:
    «Sapevo che nella Risiera di Trieste esisteva un impianto di cremazione. Questo impianto è stato costruito da Lambert, come la maggior parte degli altri dello stesso genere nei campi di sterminio e negli istituti per l'eutanasia. Quale camino era stata adoperata una ciminiera gia esistente nella Risiera. Degli altri particolari tecnici dell'impianto ho solo una vaga idea. Ai piedi del camino c'era un forno aperto di mattoni, della grandezza di circa m. 2 X 2, che aveva una grande graticola di acciaio. Secondo una mia valutazione, di volta in volta potevano essere messe. nel forno 8-12 salme. Il forno e il camino erano aperti. Non c'era una porta di ferro. Era un impianto molto primitivo, che adempiva al suo scopo grazie all'alto camino. C'era un [14] forte risucchio. Questa ciminiera si trovava in un capannone nella parete di fronte» (p. 29).
Riguardo al crematorio, questo è tutto.

Osservazioni
Anzitutto una precisazione. L'espressione «forno crematorio» non deve trarre in inganno: l'istallazione descritta non era un forno crematorio vero e proprio, come quelli che si trovavano nei campi di concentramento tedeschi (6), ma un semplice rogo.
Le dichiarazioni dell'architetto Boico e del testimone Gley sono chiaramente contraddittorie. L'uno parla di un forno di metri 20 X 15 (= 300 metri quadrati), l'altro di un forno di metri 2 X 2 (= 4 metri quadrati)!
Il Fölkel fa risaltare ancora di più la contraddizione commentando così la dichiarazione del testimone Gley:
    «In realtà il forno era posto sotto il livello del terreno era cioè interrato ed era lungo, come ha riferito anche l'architetto Boico, circa 20 metri per 15. Forse l'apertura sotterranea era grande circa m. 2 X 2» (p. 29, nota 1).
Tale commento è alquanto oscuro. Il Fölkel intende dire che il forno si trovava in un locale sotterraneo? Oppure che era costituito da una semplice fossa? Ritorneremo tra breve sulla questione.
Le testimonianze citate del Fölkel ingarbugliano ulteriormente la cosa. Come si è visto, il testimone Paolo Sereni dichiara che «il forno era istallato nel luogo adibito a garage» (p. 168), il quale, secondo il Fölkel, era invece la «camera a gas»!
Francesco Sircelj asserisce che il forno era situato in una [15] baracca:
    «All'interno infatti la baracca era divisa in due parti. Nell'ambiente più grande c'era una specie di magazzino, nell'altro, al lato, dove all'esterno si ergeva l'alto camino della fabbrica, si trovava invece il fondo del crematorio» (p. 177).
Gottardo Milani fornisce una descrizione più o meno simile:
    «Poi ho visto una SS dicevano che fosse un ucraino che nel reparto più piccolo del capannone, dove c'era il forno crematorio, tagliava con una mannaia i cadaveri» (p. 177).
C'era dunque un locale, in una «baracca» o in un «capannone», diviso in due parti: in quella più grande era sistemato un magazzino, in quella più piccola si trovava il forno.
La piantina della Risiera durante l'occupazione nazista presentata fuori testo del Fölkel (7) genera una confusione ancora maggiore. Dalla scala risulta che il «forno crematorio» (locale E) misurava all'incirca metri 10,5 X 9,5 ed aveva perciò una superficie di circa 99,75 metri quadrati. Siccome il locale era diviso in due parti, nella più piccola delle quali era istallato il forno, il locale di incinerazione aveva una superficie necessariamente inferiore a 50 metri quadrati. Come è possibile allora che il «forno crematorio» avesse una superficie di 300 metri quadrati?
Per quanto concerne la collocazione del forno, cioè del rogo, e assolutamente ridicolo che esso fosse stato costruito in un locale sotterraneo, senza contare che, in tale assurda eventualità, quand'anche fosse stato distrutto coll'esplosivo, sarebbero rimasti dei resti ben visibili: un locale sotterraneo di 300 metri quadrati non può sparire nel nulla. Eppure lo stato architettonico della Risiera è tale che si ignora persino dove fosse la ciminiera:
    «"Oggi non sappiamo nemmeno dove esattamente sorgeva il camino" mi ha spiegato l'architetto Boico» (p. 143).
Anche una fossa di cremazione di 300 metri quadrati avrebbe lasciato nel secondo cortile della Risiera tracce [16] evidenti, che i Tedeschi non avrebbero potuto cancellare, perchè fuggirono subito dopo aver fatto saltare forno, garage e ciminiera (p. 31).
Dunque il forno non era situato né in un locale sotterraneo né in una fossa. Dov'era affora? Evidentemente in superficie. Ma collocare un forno di tal fatta, cioè un rogo, in una baracca o in un capannone accanto a un magazzino era certamente il modo migliore per far incendiare tutta la Risiera. Infatti la cremazione di un cadavere in un forno crematorio a combustione diretta richiede 100-150 kg di fascine (8). Ciò significa che per cremare cinquanta cadaveri in un forno aperto non tenendo conto della maggiore dispersione del calore sono necessari 50-75 quintali di fascine. È evidente che l'arsione di tale enorme quantità di legna in un locale così piccolo (meno di 50 metri quadrati) sarebbe stato un vero suicidio.
Bisogna inoltre notare la singolarità di questo forno, che, pur avendo una superficie di incinerazione di 300 metri quadrati, poteva cremare solo cinquanta cadaveri alla volta. Ciò significa che vi veniva collocato un cadavere ogni 6 metri quadrati! La capacità di cremazione indicata dal Boico dunque doppiamente ridicola.
Un altro, problema è quello relativo alla evacuazione del furno. Dalla piantina precedentemente menzionata risulta che il «forno crematorio» era collegato al «camino» (la ciminiera della fabbrica) da un condotto lungo circa nove metri e mezzo. Come poteva essere evacuato il furno senza un potente impianto di tiraggio (9) ?

Conclusione
Del crematorio non si sa con certezza neppure dove [17] fosse istallato. Una cosa sola è certa: esso non poteva avere se mai è esistito le dimensioni, la capaciti di cremazione e la collocazione indicate dall'architetto Boico.


[19]


III
IL NUMERO DELLE VITTIME


Nella valutazione del numero delle vittime della Risiera il Fölkel distingue due periodi: il primo va dall'Ottobre 1943 al Marzo 1944, il secondo dal Marzo 1944 all'Aprile 1945:
    «Molto spesso ci si chiede anche se a San Sabba avvennero esecuzioni fra l'ottobre 1943, data di insediamento del campo militare, e il febbraio-marzo 1944, quando entrarono in funzione almeno parzialmente gli strumenti di morte tradizionali dei campi di sterminio nazisti. Non ho dubbi nel dare una risposta tristemente positiva. Ma come avvenivano le esecuzioni, "prima"? E quali furono i mezzi di morte, "dopo" ? Nemmeno il giudice Serbo, in base alla deposizione di decine di testimoni, è stato in grado di dare risposte assolutamente sicure. O, meglio, le testimonianze sono diverse e molte volte contraddittorie» (p. 23).
Qualche pagina dopo, il Fölkel scrive:
    «Ci si è chiesti molte volte quanti prigionieri venivano uccisi al giorno; sarebbe stato così possibile dare una cifra attendibile sul numero delle vittime della Risiera di San Sabba. La risposta, anzi, le risposte che oggi possiamo proporre sono le seguenti: non siamo in grado di dire se non con notevole approssimazione quante persone furono uccise nel periodo che va dalla fine di ottobre - 1943 al [20] febbraio-marzo del 1944, quando il forno cominciò a funzionare. Poichè il campo, all'inizio, era un campo militare, si può pensare che i primi prigionieri, combattenti della Resistenza jugoslava e italiani che non avevano voluto aderire alla RSI, giunsero alla Risiera per essere eliminati non prima del novembre 1943. Nessun testimone vivente, nessun superstite vivente per meglio dire , perché di testimoni, tedeschi e italiani, ce ne sarebbero, ci ha mai parlato di quel periodo con cognizione di causa. Tutti, dal Gionechetti al Wachsberger al Sereni (e di tutti il più preciso, il più lucido, il più informato rimane il Wachsberger), sono giunti al campo di sterminio DOPO il febbraio 1944. Probabilmente i prigionieri uccisi PRIMA, comunque sotto il comando di Wirth, devono essere alcune centinaia»(p. 32).
Ricapitoliarno. Per il periodo compreso, tra l'Ottobre 1943 e il Marzo 1944 ci sono «decine di testimoni» e in pari tempo «nessun testimone vivente, nessun superstite vivente»; queste «decine di testimoni» inesistenti hanno rilasciato testimonianze «diverse» e «molte volte contraddittorie». Sulla base di testimonianze contraddittorie di testimoni inesistenti il Fölkel dichiara di non aver dubbi riguardo al fatto che siano state effettuate esecuzioni nel periodo in questione e valuta che «probabilmente» le vittime «devono essere alcune centinaia»!
Veniamo al secondo periodo. L'argomentazione è talmente assurda che merità una citazione per esteso:
    «Nonostante la testimonianza della signora Giulia Pincherle Spadaro, è probabile che il forno non venisse usato quotidianamente. Si può obiettare che si poteva gassare o uccidere i prigionieri negli altri modi descritti e poi non bruciare i loro corpi nello stesso giorno. Anche questa è un'ipotesi. È pero più probabile l'ipotesi secondo la quale la gassazione e la cremazione, o comunque l'uccisione e la cremazione dei cadaveri, avessero luogo di solito dalle due alle tre volte alla settimana. Il forno era stato attrezzato per cremare un massimo di cinquanta-sessanta cadaveri alla volta. Secondo le testimonianze degli abitanti in quella zona di San Sabba e di Servola (infatti dal versante orientale della collina di Servola si riesce a vedere il comprensorio del [21] campo), la ciminiera eruttava un furno giallognolo la sera, grosso modo dalle 21 alle 24, e di solito, nei giorni centrali della settimana. Alcuni testimoni oculari hanno detto che ciò succedeva soltanto il martedì e il giovedì. Wachsberger parla del venerdì come giornata di gran lavoro, non escludendo però le altre giornate della settimana. Mi diceva Wachsberger che nei giorni in cui si doveva procedere agli stermini, la porta del garage rimaneva aperta per l'intero pomeriggio.
    Tutte queste notizie sono utili per dare una risposta al quesito che più ci interessa: quanti detenuti sono stati complessivamente bruciati nel forno del Lambert a parte altri prigionieri stranamenti "spariti" nella Risiera?
    Io non accetterei riduttivamente il 21 giugno 1944 (Carlo Schiffrer) come data di inizio dell'"operazione cremazione"; sono però tentato di farlo allo scopo di rendere quanto più verosimile possibile il numero degli assassinati. Dal 21 giugno 1944 al 26-27 aprile 1945 i tedeschi hanno avuto a disposizione circa 300 giorni. Se però i giorni di utilizzo erano due o anche tre alla settimana, riduttivamente noi ricaviamo cento giorni effettivi di attiviti, con una media giornaliera di cinquanta persone trucidate e quindi circa cinquanta cadaveri da cremare. Moltiplicando la cifra di cinquanta salme per cento giornate, si raggiunge una somma di cinquemila persone assassinate» (pp. 33-34).

Questo procedimento argomentativo è assolutamente ridicolo perché si basa da un lato sulla falsa capacità di cremazione di cinquanta cadaveri alla volta, dall'altro sull'IPOTESI che le «esecuzioni» siano avvenute regolarmente due-tre volte alla settimana per dieci mesi. ,
Tale ipotesi del resto è contraddetta dal testimone Paolo Sereni, che dichiara: «Un giorno alla settimana (non ricordo quale) era destinato alle esecuzioni e cremazioni» (p. 168). Alle «esecuzioni e cremazioni» di quante persone? Paolo Sereni non lo dice.
Per quanto concerne l'attività del forno, le testimonianze riferite dal Fölkel sono veramente straordinarie:
«Secondo le testimonianze degh abitanti in quella zona di San Sabba e di Servola (infatti dal versante orientale della [22] collina di Servola si riesce a vedere il comprensorio del Campo), la ciminiera eruttava un fumo giallognolo la sera, grosso modo dalle 21 alle 24, e di solito nei giorni centrali della settimana- (p. 33). Come hanno potuto questi «testimoni oculari» vedere un «fumo giallognolo» uscire in piena notte da una ciminiera alta «circa quaranta metri» ? (p. 9).
La valutazione del numero delle vittime della Risiera proposta dal Fölkel è dunque assolutamente infondata e arbitraria. Nonostante cio' egli dichiara:
    «Se è difficilmente contestabile la cifra di 5.000 persone soppresse dai nazisti alla Risiera di San Sabba, è più difficile verificare quante persone sono transitate dal Campo di San Sabba. Gli jugoslavi sostengono di avere in proposito una serie di documenti ineccepibili. Certo si tratta soltanto in parte di documenti nazisti. Infatti gran parte dei libri-mastri dove gli uffici amministrativi di Oberhauser registravano il nome e cognome dei detenuti in transito è stata fatta sparire dai tedeschi alla fine di aprile, cosi come quasi tutta la documentazione compromettente è stata bruciata nel crematorio il 28 aprile 1945.
    Eppure sembra che un TOTENBUCH, un libro dei decessi, sia finito in mano jugoslava. Bubnic^ stesso mi accennava a una cifra piuttosto alta: 25.000 persone transitate: complessivamente, in circa diciotto mesi di esistenza, il Campo di San Sabba avrebbe ospitato circa 25.000 persone. La cifra mi sembra assai alta sia in rapporto alla struttura iniziale del Campo ottobre-dicembre 1943, quando esso era essenzialmente una base di appoggio militare sia in rapporto alle capacità del Campo di contenere, sia pure in varie riprese, un numero cosi elevato di persone. Forse la cifra va ridotta di un 15-20%» (pp. 34-35).

Dunque la cifra di 5.000 vittime, calcolata con un procedimento arbitrario quanto ridicolo, diventa un fatto «difficilmente contestabile»! Tanto più che, per ammissione del Fölkel, non esiste alcun documento nazista da cui si possa desumere il numero non diciamo delle vittime ma neppure dei detenuti passati per la Risiera.
Quanto al fantomatico «Totenbuch», esso registrerebbe i detenuti in transito ma non quelli morti, il che per un [23] «libro dei decessi» è alquanto singolare. Ma quand'anche tale «Totenbuch» esistesse realmente e da esso risultasse un totale di 25.000 persone transitate, dimostrerebbe appunto che la Risiera era un Campo di transito, non già un «Campo di sterminio». Infatti a quale scopo sarebbero stati inviati da Trieste ad Auschwitz 22 convogli di deportati dal 9 Ottobre 1943 al 1· Novembre 1944 (p. 135) se a San Sabba esisteva un «Campo di sterminio»?


Conclusione
È impossibile accertare sia pure approssimativamente il numero delle «vittime» della Risiera. Il calcolo e la cifra presentati dal Fölkel sono assolutamente arbitrari e infondati.




IV
LE TESTIMONIANZE

Nelle «Appendici» il Fölkel riporta stralci di dichiarazioni di 19 testimoni: 1) Paolo Sereni (p. 168); 2) Pino Karis (p. 175); 3) Giuseppe Gionechetti (p. 175); 4) Branka Maric^ic^ (p. 176); 5) Francesco Sircelj (p. 176);, 6) Giovanni Millo (p. 177); 7) Gottardo Milani (p. 177); 8) Giovanni Haimi Wachsberger (p. 178); 9) Magda Rupena (p. 178); 10) Cristina Sluga (p. 179); 11) Anonimo (p. 179); 12) Albina Skabar (p. 180); 13) Giordano Basile (p. 180); 14) Dara Virag (p. 180); 15) Bruno Piazza (p. 180); 16) Antonietta Carretta (p. 18 1); 17) Ante Peloza (p. 18 1); 18) Carlo Skrinjar (p. 181); 19) Luigi Jerman (p. 182).
Nel testo dell'opera appaiono inoltre stralci delle testimonianze di: 20) Giulia Pincherle Spadaro (p. 23); 21) Nerina Levi e Nori Levi in Viviani (pp. 128-129); 22) Giuseppe Gionechetti (p. 27); 23) Haimi Wachsberger (pp. 135-146 e passim); 24) Bruno Piazza (p. 24).
L'esame delle fonti è particolarmente istruttivo. Infatti tali testimonianze non solo non sono dichiarazioni giurate, ma sono addirittura quasi tutte di seconda mano!
Ecco le fonti delle varie testimonianze:
Testimoni: Karis, Maric^ic^, Sircelj, Milani, Sluga, Peloza. Fonte: «Testimonianza raccolta da Albin Bubnic^».
Testimoni: Gionechetti, Millo, Basile, Carretta, Jerman. [26]
Fonte: «Testimonianza raccolta da Giovanni Postogna ».
Testimoni: Rupena, Skabar, Virag, Skrinjar. Fonte: «Testimonianza raccolta da Albin Bubnic^ e Ricciotti Lazzero».
Testimone Wachsberger (n. 8). Fonte: «Testimonianza raccolta da Ricciotti Lazzero».
Testimone Anonimo (n. 11). Fonte: «Testimonianza raccolta dal prof. Carlo Schiffrer di Trieste dall'interrogatorio di un amico superstite». (Carlo Schiffrer, "La Risiera", Trieste, 1961) (10).
Testimone Piazza (n. 15 e 24). Fonte: Dal libro Perché gli altri dimenticano di Bruno Piazza (Feltrinelli, Milano 1956).
Testimone Sereni. Fonte: «Dichiarazione (in carta libera per gli usi consentiti dalla legge»>. Venezia, 30 Maggio 1966.
Testimone Pincherle Spadaro. Fonte: non indicata.
Testimoni Nerina e Nori Levi. Fonte: «Si tratta di una delle testimonianze raccolte da Giuseppe Fano, zio dello scrittore Giorgio Voghera, e controfirmate dal notaio Dandri». Il Fölkel precisa che questa è una o«testimonianza indiretta» (p. 128).
Testimone Gionechetti (n. 22). Fonte: «Ci sono in proposito molte testimonianze indirette. Perci6 mi sembra utile riportare alcuni passi tratti dall'opuscolo LA RISIERA pubblicato nel 1969 a cura di Schiffrer, testimonianza poi ripresa dall'Associazione nazionale famiglie caduti e dispersi in guerra Sezione provinciale di Trieste» (p. 27).
Testimone Wachsberger (n. 23). Fonte: intervista del Fölkel.
[26]
Conclusione
Nessuna dichiarazione giurata; nessuna testimonianza di prima mano tranne quella di Paolo Sereni.
Quale valore si può attribuire a testimonianze di tal fatta ?

* * *

Come abbiamo già rilevato, nessun testimone dichiara che alla Risiera sia mai esistita una «camera a gas». Soltanto nella testimonianza di Paolo Sereni appare un fugace accenno ai «gas»:
    «Il forno era istallato nel luogo adibito a garage: si diceva che a volte fossero usati i gas di scarico degli automezzi per le uccisioni, ma si sentivano frequentemente spari e quindi più verosimilmente i motori degli automezzi venivano accesi per sovrastare le grida e gli spari» (p. 168).
Si tratta evidentemente di una diceria che non ha alcun valore probativo.

* * *
A giudizio di Fölkel, di tutti i testimoni della Risiera «il più preciso , il più lucido, il più informato rimane il Wachsberger» (p. 32). Esamineremo dunque da presso solo le dichiarazioni di questo testimone.
    «(Fölkel) Ma come uccidevano, queste SS»?
    «(Wachsberger) non glielo so dire. Uccidevano. Posso raccontarle soltanto quello che sentivarno dal nostro camerone: le grida disperate dei condannati a morte, le invocazioni di pietà, di misericordia. In particolare io ricordo perfettamente il rumore di un sibilo che proveniva dal garage».
    «Secondo lei si trattava di gas venefico»?
    «È possibile» dice Wachsberger (p. 138).
Ma a pagina 178 Wachsberger dichiara:
    «Per coprire le urla. i tedeschi alzavano il volume degli apparecchi radio, accendevano i motori degli autocarri, aizzavano i cani da guardia affinché latrassero».
Q6 significa che era impossibile udire il preteso sibilo, il [28] quale, del resto, non può avere nessuna relazione con il «gas venefico».
    «Le vittime venivano uccise nel garage» (p. 178).
    «Mi diceva Wachsberger che nei giorni in cui si doveva procedere agli stermini, la porta del garage rimaneva aperta per l'intero pomeriggio» (p. 33).
Dunque è impossibile che il garage da cui proveniva il preteso sibilo fosse una «camera a gas».
    «Accadde, per esempio, che una sera di giugno, dieci uomini erano già stati spogliati nudi (infatti, stranamente, non si sono trovate macchie sugli indumenti dei prigionieri uccisi nel garage) e nove di essi erano già stati gassati, o comunque uccisi, quando improvvisamente suona l'allarme aereo. I tedeschi perdevano letteralmente la testa quando suonava l'allarme; e la perdettero anche in quella circostanza. Ebbene, al cessato allarme, quell'uomo non venne gassato anzi fu dimenticato, e addirittura liberato» (p. 138).
Questa storia è contraddittoria e ridicola. Infatti il testimone dichiara: «Eravamo troppo vicini per non renderci conto di ciò che stava succedendo, ma non riuscimmo mai a sapere come quei disgraziati venissero uccisi» (p. 178).
Il Wachsberger ignora dunque come venissero uccise le vittime: ma allora come può parlare di «gasazione»?
Se ciò è contraddittorio, il fatto di «gasare» le vittime una per volta è decisamente ridicolo. O forse la «camera a gas» della Risiera poteva contenere solo nove persone?
La scena finale à addirittura comica: il superstite, il testimone oculare della «camera a gas», viene rimesso in libertà !
Non meno sorprendente è ciò che accadde al Wachsberger e agli altri detenuti che avevano prestato servizio alla Risiera:
    «Allora Joseph Oberhauser ci accompagnò alla grande porta dalle grate sormontate da filo spinato vicino al villino dove abitava, il tremendo portone guardato sempre a vista da gente armata fino ai denti. Mi accorsi che i battenti erano aperti. A uno a uno il nazista ci dette la mano e ci augurò buona fortuna» (p. 145).
Dunque il 29 aprile 1945 Joseph Oberhauser lascia [29] liberi i «testimoni oculari» dello «sterminio» perpetrato alla Risiera stringendo, loro la mano e augurando loro buona fortuna, dopo di che, nel corso, della notte, per cancellare le tracce dei suoi crimini, si affretta a far «saltare in aria il camino, il garage, il cremiatorio»! (p. 143).
Quale attendibilità si può attribuire a un simile testimone?

[31]
V


ERRORI E FALSIFICAZIONI

Il libro La Risiera di San Sabba rivela inoltre la grossolana ignoranza del Fölkel riguardo alla storiografia ufficiale relativa ai «campi di sterminio» nazisti.
Riferiamo anzitutto gli errori più significativi.
Treblinka viene definito «il tristernente famoso campo di sterminio del distretto di Lublino» (p. 17), il che è errato, perché tale campo si trovava nel distretto di Varsavia (11).
A pagina 99 il Fölkel scrive:
    «Secondo i risultati delle commissioni d'inchiesta del governo polacco, a Treblinka persero invece la vita 731.000 persone. Contrariamente ad Auschwitz, le camere a gas erano soltanto due e funzionavano a ossido di carbonio. Furono poi costruite altre dieci carnere che funzionavano con cianuro d'idrogeno».
Anche ciò è errato. Secondo la storiografia ufficiale, il vecchio impianto di «gasazione» comprendeva tre «camere a gas», non due, mentre nel nuovo impianto non fu mai usato «cianuro di idrogeno», ma sempre ossido di carbonio (12).`
    «I grossi automezzi-mobili della morte venivano chiamati a Belzec "Fondazione Hackenholt"» (p. 26).
    «Come già detto, l'autotreno a gasogeno era uno dei marchingegni della Fondazione Hackenholt"» (p. 30, nota).
Il Fölkel si riferisce ai cosiddetti «Gaswagen», che però non hanno nulla a che vedere né con Belzec né con Hackenholt.
Egli confonde Belzec con Chelmno, in cui sarebbero stati usati i suddetti «Gaswagen» (13).
L'espressione «Fondazione Hackenholt» deriva dal documento PS-1553 (14) dove designa un impianto di «gasazione» fisso:
    «Davanti a noi una casa come uno stabilimento balneare, a destra e a sinistra grandi vasi di cemento con gerani o altri fiori. Dopo aver salito una scaletta, a destra e a sinistra, tre e tre camere come garages, di metri 4 x 5, 1,90 d'altezza. Nella parte posteriore, non visibili, uscite di legno. Sul tetto, la stella di David in rame. Davanti all'edificio la scritta: Fondazione Heckenholt» (15)
Nel documento T-1310 appare la definizione «Heckenholt-Stiftung» (16).
Il Fölkel aggiunge che «le 'Stiftingen' (17), cioè le "fondazioni", derivavano il nome dalle "fondazioni di pubblica [33] utilita". Per esempio, in Polonia, Wirth e il suo gruppo si fregiavano del nome "Fondazione Wirth "» (p. 139, nota 1).
In realtà non è mai esistita una «Fondazione Wirth». Il Fölkel fraintende il seguente passo di Gerald Reitlinger:
    «Il nome di Wirth non ricorre in alcuno dei documenti ufficiali riguardanti l'eutanasia salvatisi dalla distruzione, ma ciò dipende dal fatto che l'ultima fase dell'operazione fu sottratta a Tiergartenstrasse 4 e affidata invece a un ente fittizio, la «Gemeinnützige Stiftung für Anstaltspflege», o «fondazione di utiliti pubblica per le cure sanatoriali» È impressionante il fatto, notato da Kurt Gerstein, che, quando in Polonia erano in piena attività i campi di sterminio, Wirth e compagni si fregiavano ancora del nome di «fondazione (Stiftung)» (18).
Reitlinger si riferisce alla «Fondazione Heckenholt» del PS-1553, come risulta dal richiamo a Kurt Gerstein.
Il Fölkel, nella sua sorprendente ignoranza, sdoppia questo Kurt Gerstein in un «ingegner Gersten» (p. 96) (19) e in una fantomatica «ditta Gestein»:
    «A parte gli esperimenti "medici ", ad Auschwitz fu implegato con grande successo il Ziklon-B (K.C.N.), cioè il cianuro di potassio. La ditta fornitrice era la Kurt Gestein» (p. 99).
Kurt Gerstein era un SS-Obersturmführer pretesamente antinazista che nell'Agosto 1942 avrebbe assistito ad una «gasazione» nel «campo di sterminio» di Belzec. Di tale pretesa esperienza egli ha lasciato otto relazioni pullulanti di contraddizioni interne ed esterne, assurdità, falsificazioni storiche ed errori che rendono la «testimonianza oculare» di questo personaggio assolutamente inattendibile, come abbiamo dimostrato nella nostra opera Il rapporto Gerstein. Anatomia di un falso. (20)
Kurt Gerstein ricopriva la carica di capo del servizio [34] tecnico di disinfezione presso l'SS-Führungshauptamt, Amtsgruppe D, Sanitätswesen der Waffen-SS, e in tale qualità nel 1944 ordinò alla ditta DEGESCH (21) 2.370 Kg di Zyklon-B a fine di disinfezione per i campi di concentramento di Oranienburg (1.185 kg) e di Auschwitz (1.185 kg).
Egli allegò al summenzionato rapporto del 26 Aprile 1945 (PS-1553) le 12 fatture della DEGESCH relative alle ordinazioni in questione. Da queste fatture indirizzate all'Obersturmführer Kurt Gerstein risulta la spedizione da parte della DEGESCH delle suddette quantità di Zyklon-B alla «Abt. Entweseung und Entseuchung» (sezione disinfestazione e disinfezione) dei «Konzentrationslager» di Oranienburg e di Auschwitz (22).
Quanto allo Zyklon-B, esso non era «cianuro di potassio» (KCN), come crede il Fölkel, ma «acido cianidrico, liquido (HCN) assorbito in un coibente poroso, ad es. in farina fossile bruciata (Diagries) o in una sostanza sintetica gessosa (Erco) o in dischi di cellulosa» (23).
A pagina 100 il Fölkel dichiara:
    «Appunto in base a queste nuove direttive, e con l'alta supervisione di Eichmann, si operò nel gruppo dei campi di sterminio in Polonia comandati da Globocnik: Sobibor, Belzec, Treblinka, Chemno, Majdanek».
Secondo la storiografia ufficiale, i campi dell'«Aktion Reinhard» comandati da Globocnik erano Belzec, Sobibor e Treblinka (24). Il campo di Chelmno, di cui il Fölkel non conosce neppure la grafia esatta (25), era sotto la giurisdizione dello Höhere SS-und Polizeiführer Wilhelm Koppe (26), mentre il campo di Majdanek dipendeva dal WVHA [35] (Wirtschafts-und Verwaltungshauptamt: ufficio centrale economico e amministrativo delle SS) (27). Inoltre i «campi di sterminio» polacchi non erano sotto «l'alta supervisione di Eichmann», perchè Globocnik riceveva gli ordini relativi direttamente dalla Cancelleria del Führer e dal Reichsführer-SS (28).
A pagina 33 il Fölkel parla dei «grandi campi di sterminio nazisti di Germania e di Polonia» e a pagina 79 attribuisce la qualifica di «campo di sterminio» a Buchenwald.
Ma secondo, la storiografia ufficiale in Germania non è esistito alcun «campo di sterminio».
In una lettera inviata al giornale tedesco Die Zeit il 19 Agosto 1960, il dott. Martin Broszat, allora membro e Attualmente direttore dell'Institut für Zeitgeschichte München (Istituto di Storia Contemporanea di Monaco), dichiarò:
«Né a Dachau né a Bergen-Belsen né a Buchenwald sono stati gasati Ebrei o altri detenuti». E ancora: «Lo sterminio in massa degli Ebrei mediante gasazione iniziò nel 1941-1942 ed ebbe luogo esclusivamente (ausschliesslich) in pochi luoghi appositamente scelti e forniti di adeguate istallazioni tecniche, soprattutto nel territorio polacco occupato (ma in nessun modo nel Vecchio Reich): ad Auschwitz-Birkenau, a Sobibor, a Treblinka, a Chelmno e a Belzec» (29).

* * *
Le citazioni di documenti nazisti riportate dal Fölkel quasi sempre prive di riferimento alla fonte sono spesso interpolate o falsificate.
Anche a questo riguardo segnaliamo gli esempi più importanti.
    «Comunque a Ludwigsburg è conservato un documento significativo. In esso (si tratta di una lettera inviata a Trieste) il capo supremo delle SS Himmler si rivolge al [36] generale Globoc^nik: "Lieber Globus", così incomincia la breve missiva,

      "Caro Globus, lei si è comportato mirabilmente nèl .Litorale Adriatico, lei che guida l'Aktion Reinhard ha fatto un ottimo lavoro e la ringrazio." Prosegua senz'altro nella sua azione di sterminio, Heil Hitler» (pp. 121-122).

Il dott. Adalbert Rückerl, dal 1966 direttore della «Zentrale Stelle der Landesjustizverwaltunge» di Ludwigsburg, nei cui archivi sarebbe conservata la lettera di Himmler citata dal Fölkel, dedica la prima parte del libro «NS-Vernichtungslager im Spiegel deutscher Strafprozesse» ai «Campi di sterminio dell'Aktion Reinhard» (pp. 37-242). In essa tuttavia non compare il minimo accenno alla lettera in questione. Infatti tale documento, come è riportato dal Fölkel, non esiste negli archivi della «Zentrale Stelle der Landesjustizverwaltungen» di Ludwigsburg (30) né altrove, perch6 è la falsificazione del documento NO-058. Si tratta di una lettera del 20 Novembre 1943 inviata a Globocnik da Himmler. Ecco il testo:
«Caro Globus,
Confermo la ricevuta della Sua lettera del 4/ 11/ 1943 e della Sua comunicazione relativa alla conclusione dell'Azione Reinhard.
La ringrazio per la cartella che mi ha inviato.
Le esprimo il mio ringraziamento e la mia riconoscenza per i Suoi grandi ed eccezionali meriti che Lei si è acquisiti per tutto il popolo tedesco nell'esecuzione dell'Azione Reinhard.
Heil Hitler» (31).
Questo documento è incluso anche nella serie di [37] documenti relativi all'azione Reinhard classificata PS-4024 e con tale riferimento è citato da Rückerl (32).
Alle pagine 93-94 il Fölkel menziona un altro documento fantasma:
    «Cito Orianenburg perché al processo di Norimberga contro i nazisti fu esibito un documento ufficiale che, appunto, proveniva da questo lager; in esso si calcolava il reddito medio ricavabile da ogni detenuto. La tariffa media di noleggio del detenuto alle industrie era di marchi 6 giornalieri. Detrazioni per vitto, marchi 0,60; durata media della vita «attiva» di ciascun detenuto, mesi 9. Ne risultava un reddito medio di circa 1.400 marchi ricavati dall'«utilizzazione razionale dei cadaveri». E in particolare da a) oro dentario; b) vestiario; c) oggetti di valore; d) denaro, specialmente valuta svizzera, inglese e statunitense; e) utilizzazione delle ossa e delle ceneri».
In realtà non si tratta affatto di un «documento ufficiale» proveniente dal campo di concentramento di Oranienburg, bensì di una semplice nota pubblicata nel 1946 da Eugen Kogon senza alcun riferimento, il che rende fortemente dubbia la sua autenticità.
Infatti essa è priva di intestazione dell'ufficio di provenienza, di indicazione di luogo d'origine, di destinatario, di data e di firma! (33).
Contrariamente a quanto asserisce il Fölkel, questo preteso documento naturalmente non è mai stato esibito al processo di Norimberga (34).
Un'altra dimostrazione della crassa ignoranza storica del Fölkel appare a pagina 128:
    «Al processo Eichmann è stato riportato il brano di una allocuzione ufficiale di Globus: "Se in Germania crescerà [38] una generazione incapace di comprendere il nostro lavoro, allora il nazional-socialismo sara' stato vano. Credo che i .centri di sterminio dovrebbero essere immortalati con targhe di bronzo, su cui dovrebbe apparire la scritta: 'Noi SS abbiamo avuto il coraggio di compiere questa grande opera' ". "Parole anche profetiche"».
In realtà questa citazione non è tratta da una «allocuzione ufficiale» di Globocnik, ma dai rapporti Gerstein del 26 Aprile 1945 (PS-1553) e del 4 Maggio 1945, i quali furono presentati al processo Eichmann di Gerusalemme come documenti d'accusa T-1309 e T-1310. Ecco i testi originali:
    «Alors Globocnek: Mais messieurs, si jamais, après nous, il y aurait une génération si lâche, si carieuse, qu'elle ne comprenne pas notre oeuvre si bon, si nécessaire, alors messieurs tout le Nationalsocialisme était pour rien. Mais, au contraire, il faudrait enterrer des tables de bronce, aux quels il est inscrit, que c'étions nous, nous, qui avons eu le courage de réalizer cet oeuvre gigantique! (35).
    «Allora Globocnek: "Ma signori, se dopo di noi, vi sarà mai una generazione cosi fiacca e smidollata (36) da non comprendere la nostra opera così buona, così necessaria, allora signori tutto il nazionalsocialismo sarà esistito invano. Ma, al contrario, bisognerebbe seppellire delle tavole di bronzo nelle quali fosse scritto che fummo noi, noi ad avere avuto il coraggio di realizzare quest'opera gigantesca!».
    «Darauf Glb.: Meine Herren, wenn je nach uns eine Generation kommen sollte, die so schlapp und so knochenweich ist, dass sie unsere grosse Aufgabe nicht versteht, dann allerdings ist der ganze Nationalsozialismus umsonst gewesen. Ich bin im Gegenteil der Ansicht, daß man Bronzetafeln versenken sollte, auf denen festgehalten ist, [39] daß wir, wir den Mut gehabt haben, dieses grosse und so notwendige Werk durchzuführen» (37).
    "Allora Globocnik: "Signori, se dopo di noi dovesse mai venire una generazione che fosse così fiacca e così smidollata da non comprendere il nostro grande compito, allora certamente tutto il nazionalsocialismo sarebbe stato vano. Io sono al contrario del parere che bisognerebbe sotterrare delle tavole di bronzo sulle quali fosse fissato per iscritto che noi, noi abbiamo avuto il coraggio di realizzare questa grande e così necessaria opera"».

Pertanto il Fölkel non solo ha fornito il falso riferimento della «allocuzione ufficiale» di Globocnik, ma ha anche storpiato la citazione. Ma non è tutto. Nei due documenti surnmenzionati Kurt Gerstein racconta che Globocnik gli riferì il 17 Agosto 1942 che due giorni prima il 15 Agosto Hitler e Himmler gli avevano reso visita a Lublino. In tale occasione Globocnik aveva fatto il discorso citato, ricevendo, l'approvazione del Führer (38). In realtà il 15 Agosto 1943 Hitler non era a Lublino (39) per cui il discorso di Globocnik è pura invenzione, come riconosce Gerald Reitlinger:
    «Fu detto loro che si trattava di un ordine di Hitler, il quale poco tempo prima aveva visitato Lublino e aveva pranzato con Globocnik. A tavola il dott. Herbert Linden aveva richiamato l'attenzione di Hitler sul pericolo che in avvenire si scoprissero le fosse comuni e in proposito Globocnik aveva deliziato Hitler dicendo che gli sarebbe piaciuto "seppellire (in quelle fosse) delle targhe di bronzo, che lo proclamassero autore dell'impresa". Tutto questo era pura invenzione di Globocnik, perché Hiteler non aveva affatto lasciato il suo quartier generale.» (40)
Altre citazioni interpolate e deformate appaiono a pagina 59 e 16:
    «A questi pseudoproblemi, grosse tare della psiche, [40] poeva far cenno solo un ragioniere frustrato e disgustoso come Himmler; nell'ottobre 1943 in un discorso tenuto a Poznan ai gerarchi delle SS costui disse: "... che le nazioni vivano in prosperità o muoiano di fame come bestie, a me importa solo nella misura in cui avremo bisogno degli appartenenti ad esse come schiavi per la nostra KULTUR, altrimenti per me sono prive di ogni interesse "» (p. 59).
La fonte, non indicata dal Fölkel, è il documento PS-1919. Questa volta il Fölkel si è limitato a interpolare l'espressione «come bestie». Ecco il testo originale del passo:
    «Ob die anderen Völker in Wohlstand leben oder ob sie verrecken vor Hunger, das interessiert mich nur soweit, als wir sie als Sklaven für unsere Kultur brauchen, anders interessiert mich das nicht.» (41)
    «Se gli altri popoli vivono nella prosperità o crepano di fame, ciò mi interessa solo nella misura in cui ne abbiamo bisogno come schiavi per la nostra civiltà, altrimenti non mi interessa».
    «Poi, nell'ottobre 1943 fra il 16 e il 29 , sbarcarono a Trieste i primi novantadue «specialisti» dell'Einsatzkommando Reinhard, come testimoniò a Norimberga Konrad Georg Morgen, Obersturmbannführer delle SS Morgen aggiunse: "Il Kommando Reinhard dovette porre termine alla sua attività nell'autunno del 1943 e distruggere sino alle fondamenta i campi di sterminio orientali. Esso fu impiegato quindi compattamente per garantire la sicurezza delle strade nel territorio partigiano sul Carso e in Istria» (p. 16).

Il primo riferimento è inventato, mentre la citazione è deformata. INFATTI Morgen dichiarò che, quando fece la sua seconda visita a Lublino, Wirth non c'era più: «Accertai che Wirth nel frattempo aveva inaspettatamente ricevuto l'ordine di distruggere dalle fondamenta i suoi campi di sterminio. Egli era stato richiamato con tutto il suo Kommando in Istria, dove garantiva la sicurezza delle strade ed è morto nel Maggio 1944» (42).
Conclusione generale
Il libro La Risiera di San Sabba, di Ferruccio Fölkel è un semplice libello pseudostorico e pseudoscientifico.




APPENDICE


La piantina della Risiera durante l'occupazione nazista: Da Ferrucio Fölkel, La Risiera de San Sabba, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1979 (fuori testo).





1 / Ferruccio Fölkel, La Risiera di San Sabba, Arnoldo Mondadori, Editore, Milano 1979.
2 / LaRassegna Mensile di Israel, Aprile-Maggio 1979, p.202.
3 / Sui pretesi «Gaswagen» vedi: F. P. Berg, "The Diesel Gas Chambers: Myth Within A Myth". The Journal of Historical Review, Spring 1980, pp. 38-40 (The Gaswagons); Udo Walendy, "NS-Bewältigung", Historische Tatsache Nr. 5, Historical Review Press, 1979, pp. 29-31.
4 / Comunicazione della «Zentrale Stelle der Landesjustizverwaltungen» all'Autore. 1· Febbraio 1985.
5 / Nationalsozialistische Massentötungen durch Giftgas. herausgegeben von Eugen Kogon, Hermann Langbein, Adalbert Rückerl u.a., Frankfurt am Main 1983, cap. IV, "Tötung in Gaswagen hinter der Front", pp. 81-109.
6 / Vedi ad esempio i documenti NO-4401, NO--445 e NO-4448 relativi al crematorio di Buchenwald. Il documento NO-4448 contiene la descrizione di «un forno crematorio Topf a doppia muffola riscaldato a olio o a coke con impianto di aria compressa e impianto di rafforzarnento del tiraggio». I forni della ditta «Topf und Söhne» erano istallati anche nei crernatori di Birkenau. Vedi le fotografie pubblicate in: KL Auschwitz. Fotografie dokumentalne. Kraiowa Agencia Wydawnicza Warszawa 1980, pp. 64, 65, 66 e 162.
7 / Riportiarno tale piantina nell'Appendice.
8 / Enciclopedia italiana, Roma 1949. vol. XI, voce Cremazione, p. 825.
9 / I forni crematori della ditta Topf und Söhne erano forniti di un Saugzug-Anlage (impianto di tiraggio indotto): NO-4448. Vedi anche: KL Auschwitz. Fotografie dokumentalne, op. cit., p. 62: sezione trasversale nord-sud del crematorio II; al centro, accanto al camino, l'impianto di tiraggio indotto.
10 / Carlo Schiffrer non dichiara di aver interrogato l'amico anonimo, la cui testimonianza egli introduce con le seguenti parole: «Ma il particolare più raccapricciante me lo ha raccontato un amico che vi fu rinchiuso per alcuni giorni a causa di una sua presunta appartenenza alla "razza ebraica"» (Carlo Schiffrer, La Risiera; in: Trieste, Luglio-Agosto 1961).
11 / Central Commission for the investigation of German Crimes in Poland. German Crimes in Poland, Warsaw 1947, vol. I, The Treblinka Extermination. Camp p. 95.
12 / Adalbert Rückerl, NS-Vernichtungslager im Spiegel deutscher Strafprozesse, München 1979, pp. 203-204; Nationalsozialistische Massentötungen durch Giftgas, op. cit., p. 163 e 184; German Crimes in Poland, op. cit., vol. I, p. 98.
13 /Nationalsozialistische Massentötungen durch Gifgas, op. cit., cap. V: «In Kulmhof Stationierte Gaswagen», pp. 110- 145.
14 / Si tratta del cosiddetto rapporto-Gestein del 26 Aprile 1945.
15 / PS-1553, p. 5. Il documento è redatto in un francese alquanto scorretto. Riportiamo il passo citato come appare nell'originale: «Avant nous une maison comme institut de bain, A droite et à gauche grand pot de beton avec geranium ou autre fleurs. Aprês avoir monté un petit escalier, à droite et à gauche, trois et trois chambres comme de garages, 4 x 5 mètres, 1,90 mètre d'altitude. Au retour, pas visibles, sorties de bois. Au toît, l'étoile David en cuivre. Avant le Bâtiment, inscription: Fondation Heckenholt».
16 / T-1310, p. II. Si tratta del cosiddetto rapporto-Gerstein del 4 Maggio 1945 già pubblicato con alcune espunzioni da Hans Rothfels nel 1953 sulla rivista Vierteljahreshefte für Zeitgeschichte.
17 / Leggi «Stiftungen».
18 /Gerald Reitlinger, La soluzione finale, Milano 1965, pp. 161-162.
19 / Anche nell'Indice Analitico compaiono i nomi «Gerstein, Kurt, ditta» e «Gesten, ingegnere» (p. 191).
20 /In pubblicazione presso la casa editrice Sentinella d'Italia.
21 /Deutsche Gesellschaft für Schädlingsbekämpfung, Società tedesca per la lotta antiparassitaria.
22 / PS-1553, pp. 15-26.
23 /NI-9098, p. 35.
24 / NS-Vernichtungslager im Spiegel deutscher Strafprozesse, op. cit., p. 13.
25 / Nell'Indice Analitico appare la grafia «Chemmo» (p. 190). La località in questione si chiama Chelmno in polacco e Kulmhof in tedesco.
26 / NS-Vernichtungslager im Spiegel deutscher Strafprozesse, op. cit., p. 245; R. Hilberg, The Destruction of the European Jews, Chicago 1961, p. 572.
27 / The Destruction of the European Jews, op. cit., p. 572.
28 / NS-Vernichtungslager im Spiegel deutscher Strafprozesse, op. cit., p. 349.
29 / Die Zeit, Nr. 34, Freitag, den. 19. August 1960, p. 16.
30 Comunicazione della «Zentrale Stelle der Landesjustizverwaltungen» all'Autore. 1·Febbraio 1985 .

31 «Lieber Globus! Ich bestätige Ihren Brief vom 4.11.43 und Ihre Meldung über den Abschluß der Aktion Reinhardt. Ebenso danke ich Ihnen für die mir übersandte Mappe. Ich spreche Ihnen für Ihre grossen und einmaligen Verduebste, die Sie sich bei der Durchführung der Aktion Reinhardt für das ganze deutsche Volk erworben haben, meinen Dank und meine Anerkennung aus. Heil Hider». NO-058 .
32 NS-Vernichtungslager im Spiegel deutscher Strafprozesse, op. cit., p. 131 .
33 NS-Vernichtungslager im Spiegel deutscher Strafprozesse, op. cit., p. 131. 32, Eugen Kogon, Der SS-Staat, Verlag Karl Alber, München 1946, pp. 296-297.Circa la fonte del pretesto documento, l'Autore si limita a scrivere che esso «è stato redatto dalle SS» (p. 297), ma di ciò non fornisce alcuna prova.
34 Der Prozeß gegen die Haiptkriegsverbrecher vor dem internationalen Militärgerichtshof, Nürnberg 14. November 1945 - I. Oktober 1946, Veröffentlicht in Nünrnberg, Deitschland, 1949, vol. XXIII (Indice), p. 62. (utilizzazione dei cadaveri).
35 T-1309 = PS-1553, p. 5 .36 L'aggettivo "carieuse" non esiste in francese; lo traduciarno secondo il
senso dd'aggettivo tedesco corrispondente nel docurnento T-1310 knochenweich .
37 T-1310, p. 9.
38 T-1309 = PS-1553, p. 5; T-1310, p. 9 .
39 Vierteljahreshefte für Zeitgechichte, 1953, p. 189, nota 3 9 a .
40 La soluzione finale, op. cit., p. 184 .
41. Der Prozess gegen die Hauptkriegsverbrecher vor dem internationalen Militärgerichtshof, Nürnberg 14. November 1945-1. Oktober 1946. Veröffentlicht in Nürnberg, Deutschland, 1948. Vol. XXIX, p. 123 .
42 La fonte, non indicata dal Fölkel, è: Der Prozess gegen die Hauptkriegsverbrecher vor dem internationalen Militärgerichtshof, op. cit., Vol. XX, p. 555 .

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venerdì 21 luglio 2017

25 LUGLIO 1943

25 Luglio '43: la lunga notte di Mussolini

Dopo 9 ore di riunione si decide di restituire l'incarico al re

25 Luglio '43: la lunga notte di Mussolini
Il Gran Consiglio del Fascismo, alle 2 e 40 del mattino, approva con 19 voti a favore e solo 7 contrari l'ordine del giorno Grandi. L'ultima parola spetta a Vittorio Emanuele III. E' la fine del Ventennio e del Duce come Primo Ministro. 
“Signori, con quest’ordine del giorno avete provocato la crisi del regime. La seduta è tolta”. Sono le 2 e 40 del mattino, il Gran Consiglio del Fascismo è riunito da oltre nove ore quando Benito Mussolini e gli altri membri del Governo lasciano la grande sala del Pappagallo. Mancano ancora due anni alla fine del Duce, ma il “Ventennio” si conclude li.
Il 25 luglio 1943 è una di quelle date che ha segnato la storia del ‘900. A ripensarci, settant’anni dopo, viene da domandarsi cosa sarebbe successo se, nel pomeriggio del giorno precedente, non fosse iniziata la discussione dell’“ordine del giorno Grandi”. Quasi sicuramente l’Italia non avrebbe tradito il suo alleato storico, la Germania, per cercare di conquistare una vittoria abortita al fianco dell’Inghilterra, della Francia e degli Stati Uniti. Troppo facile ipotizzare con il senno di poi. Più difficile è dare ai fatti il vero significato ed il vero peso che hanno avuto per il popolo che li ha vissuti.
Le Idi di marzo del Duce Roma, 24 luglio 1943. Ore 17, 14. La città è avvolta da un’afa opprimente, fanno più di 30° all’ombra. Ma la vera morsa che attanaglia il Paese è un’altra. Due settimane prima gli americani sono sbarcati in Sicilia. Mussolini ha provato a tranquillizzare la Nazione, ma non gli hanno creduto neppure i suoi gerarchi. La guerra è persa. Forse la resa non sarà immediata, di sicuro i tedeschi cercheranno di impedire che Roma cada. Ma da quando il primo soldato statunitense poggia il piede sulle bianche spiagge di Lampedusa, tutti capiscono che è iniziata la fine. La fiducia del Duce del fascismo e dell’Impero, quella che riempiva di una folla adorante piazza Venezia appena 3 anni prima, sembra essere volatilizzata. Gli italiani sono stanchi del conflitto mondiale e della povertà dilagante. La nazione è sull’orlo del collasso. Perfino Roma, nonostante sia stata dichiarata “Città aperta” viene bombardata il 19. Così, anche quelli che erano stati fedelissimi a Mussolini fin dalla primissima ora, cominciano a vedere un futuro senza il Duce. Forse è questo che spinge Dino Grandi, ex Ministro degli Esteri e attuale Presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, il gerarca che con Galeazzo Ciano era il più ostile ad Adolf Hitler, presenterà un ordine del giorno che può rimescolare le carte in tavola. Un documento la cui bozza gira già da diversi giorni
In quella caldissima mattina d’estate, il Duce si deve sentire un po’ come Giulio Cesare alle Idi di marzo. Sa benissimo che se aprirà la seduta del Gran Consiglio, il suoi “fedelissimi” potrebbero rivoltarsi contro di lui. La moglie, Donna Rachele, deve aver avuto lo stesso presentimento che, qualche secolo prima, aveva avuto anche la moglie del condottiero romano. Lo prega di non andare alla sala del Pappagallo. Non c’è verso di convincere il Duce. Mussolini esce  per l’ultima volta dalla spoglia ed immensa sala del Mappamondo, a palazzo Venezia, nel primo pomeriggio. Sono finiti i tempi delle amanti ricevute proprio li. Della folla festante sotto il balcone. Ora c’è solo la guerra e la disfatta sembra molto vicina.
L’ordine del giorno La seduta del Gran Consiglio si apre con un quarto d’ora di ritardo. Nel pomeriggio del 24 viene ufficialmente chiesto ai membri del Governo di votare la richiesta di riattribuzione al Sovrano del comando supremo delle forze armate. L’ultima parola, poi, spetterà al re,  così come è ancora previsto dallo Statuto Albertino. Il Sovrano infatti, può revocare l’incarico affidato al Primo Ministro in ogni momento, se questi non ha più l’appoggio del suo Gran Consiglio. Sì, perché per quanto Mussolini  abbia agito da dittatore durante il corso dei suoi venti anni al potere, non ha mai pensato da dittatore. Non ha quasi per nulla modificato la carta costituzione. Lasciando così al Sovrano la teorica possibilità di destituirlo.
La seduta si apre con l’appello dei partecipanti. Si comincia con i quadrumviri che hanno fatto la marcia su Roma: Emilio De Bono e Cesare Maria De Vecchi. Poi si passa ai presidenti delle Camere: Dino Grandi e Giacomo Suardo ed al segretario del Pnf Carlo Scorza. Segue l’elenco di tutti i componenti del Governo: Giacomo Acerbo, Umberto Albini, Giuseppe Bastianini, Carlo Biggini, Tullio Cianetti, Alfredo De Marsico, Carlo Pareschi, Gaetano Polverelli). Alla fine è la volta del presidente dell’Accademia d’Italia (Luigi Federzoni), il capo della milizia (Enzo E. Galbiati), il presidente del Tribunale speciale (Antonino Tringali Casanova), nonché gli esponenti del collateralismo fascista: Giovanni Balella, Annio Bignardi, Ettore Frattari e Luciano Gottardi. Per ultimi vengono chiamati i camerati che hanno “ben meritato” il privilegio di sedere al tavolo del Massimo organo consultivo: Dino Alfieri, Giuseppe Bottai, Guido Buffarini Guidi, Galeazzo Ciano, Alberto De Stefani, Roberto Farinacci, Giovanni Marinelli e Edmondo Rossoni.
Il Duce apre la seduta. Ricorda ai presenti che sono tutti vincolati al segreto. Parla per un’ora e mezzo, elencando tutti i problemi del Paese. Poi si siede. Tocca ai due quadrumviri, favorevoli a Grandi prendere la parola. Sono le 19,36. Mussolini ascolta la discussione. È dilaniato dai bruciori di stomaco che lo accompagnano da diversi anni. È in divisa. Con la mano sotto la giacca si preme sull’addome. Sembra un po’ come Napoleone dopo la sconfitta di Lipsia. Sa che ha davanti a sé due possibilità, l’esilio, la lontananza dalle stanze del potere che lo hanno reso grande. O, nel peggiore dei casi, la morte. Arriverà anche la sua Waterloo, ma mancano ancora due anni alla disfatta completa. Glielo avevano anche fatto leggere, qualche giorno prima, l’ordine del giorno. Il Duce, però, non voleva e non vuole pensare che quella proposta si possa concretizzare. Mussolini è il Fascismo. Ed il Fascismo senza Mussolini non ha motivo di esistere.
Le 19 pugnalate Alle due e mezza del mattino del 25 luglio ’43, Mussolini ammette la votazione per l’ordine del giorno Grandi. I presenti sono 28. Il Duce, ovviamente, non si può esprimere. Il primo a votare è Scorza. Urla forte il suo “no”. Poi è la volta di Suardo, il presidente del Senato si astiene. È in lacrime. La votazione prosegue. Tocca a Galeazzo Ciano, il genero del Duce, il marito di Edda. Dalla sua bocca esce il “sì” tipico dei codardi, di chi si schiera sempre con la maggioranza. È il tradimento più eclatante.
Alla fine saranno in sette ad aver votato contro l’ordine del giorno: Biggini, Buffarini Guidi, Frattari, Galbiati, Polverelli, Scorza e Tringali Casanuova. I sì sono quelli di: Acerbo, Albini, Alfieri, Balella, Bastianini, Bignardi, Bottai, Cianetti (che ritirerà la sua firma solo successivamente), Ciano, De Bono, De Marsico, De Stefani, De Vecchi, Federzoni, Gottardi, Grandi, Marinelli, Pareschi e Rossoni.
Per Cesare furono fatali le coltellate del figlio adottivo Bruto, inferte sotto la statua dello storico rivale Gneo Pompeo. A Mussolini sono necessarie le 19 pugnalate, i 19 voti contrari di 27 dei membri del suo Governo per cadere. La parte di Bruto, questa volta, la interpreta il genero.
Alle 2 e 40 la seduta è tolta. La scioglie lo stesso Mussolini. Dino Grandi vincola espressamente al Duce il compito ad andare a dare la notizia della sua “sfiducia” al re.
Quando torna a casa, a villa Torlonia è notte fonda. Rachele lo aspetta sveglia. Capisce al volo che cosa è successo. Il Duce è curvo su se stesso, ha il volto scuro di chi si sente tradito, più che sconfitto. Il problema non è tanto come sia andata la votazione. Ma proprio che sia stato presentato l’ordine del giorno Grandi. Quando lo vede entrare, la moglie gli dice solo una frase “spero tu li abbia fatti arrestare tutti”. Benito le risponde con un filo di voce: “no, ma lo farò domani”. Non ne avrà il tempo, né la possibilità.
La “badogliata” Mussolini è ancora sicuro di poter convincere Vittorio Emanuele. Non crede assolutamente che possa rimuoverlo dal suo incarico. Ma il Sovrano, chiamato “piccolo re”, non ha quel soprannome solo per la statura. È proprio un piccolo re. Umanamente e politicamente.
Il 25 luglio il Duce si presenta a villa Savoia. Ha un completo blu. È stato espressamente invitato a non presentarsi in divisa. Sarà Vittorio Emanuele terzo a riprendere il comando delle forze armate ed a conferire l’incarico al nuovo Primo Ministro. Sono passati quasi 21 anni dall’ultima volta che il Sovrano ha esercitato questo potere.
Vittorio Emanuele riceve il suo Primo Ministro uscente vestito da Primo Maresciallo dell’Impero. Guarda Mussolini in faccia e gli dice semplicemente: “l’Italia  era in tocchi e l’esercito moralmente a terra”. Un colloquio breve. Giusto il tempo sufficiente per consentire  all’autista personale del Duce di andarsene e far arrivare i Carabinieri. All’uscita dall’incontro Mussolini viene arrestato. È invitato a prendere posto (per “motivi di sicurezza”) in un’autoambulanza della Croce Rossa e portato in un paio di caserme, prima di essere trasferito sul Gran Sasso.
Da li, poi, riuscirà a fuggire con l’aiuto dei tedeschi. Si vendicherà dei suoi traditori. Anche e soprattutto del genero Galeazzo Ciano. Verranno i mesi durissimi della Repubblica Sociale e della guerra civile. Ma quella è tutta un’altra storia.
Poco dopo aver fatto arrestare il Duce, il “piccolo re” nomina il marchese Pietro Badoglio Primo Ministro. L’uomo che era entrato trionfante ad Addis Abeba, il Generale in capo alle truppe che avevano conquistato l’Abissinia, lo stesso che tradirà l’alleanza con la Germania, scegliendo di passare dalla parte dei vincitori. In meno di due mesi si arriverà all’armistizio di Cassibile, alla fuga del re al sud. In due parole, all’8 settembre. C’è un motivetto che ricorda proprio questa scelta. E si chiama, logicamente, “Badoglieide”: “gli squadristi li hai richiamati/gli antifascisti li hai messi in galera/la camicia non era più nera/ma il fascismo restava padron”. Ma anche questa, è tutta un’altra storia.
Al tramonto del 25 luglio si conclude il giorno più lungo di Benito Mussolini. In meno di ventiquattr’ore è passato da Duce a carcerato. La stessa gente che fino a qualche mese prima lo acclamava, adesso sputa sulle sue immagini e insulta il suo nome. È l’eterno ritorno dell’uguale. Quell’incoerenza figlia della naturale inclinazione di un popolo che tende naturalmente al tradimento. E che forse ha dimenticato le parole, non sue,che  Mussolini amava molto ripetere: “meglio vivere un giorno da leoni, che cento anni da pecora”. Ma per gli italiani no, non è così. Meglio morire dopo un’esistenza trascorsa nel gregge che rimanere fedeli e coerenti ad un Pensiero, ad un’Idea, all’Onore.
                                                                                                                                                                                                                                         
Micol Paglia