sabato 28 gennaio 2017

ZARA, PER NON DIMENTICARE




Zara, per non dimenticare

 
di Nino Arena

            E’ la storia di un piccolo lembo di Dalmazia e d’Italia conficcato tenacemente con le sue radici nella sponda opposta dell’Adriatico. Un minuscolo insediamento rimasto con le sue vestigia, le sue mura e i suoi monumenti a testimoniare per sempre la presenza di Roma, della Repubblica Veneta e dell’Italia in quella babilonia etnica denominata Jugoslavia ormai disfatta, dai tanti popoli diversi che la compongono e le contrastanti religioni che li dividono; con gli innumerevoli dialetti spesso incomprensibili, ereditati nei secoli da influenze barbariche e da civiltà romane e bizantine, greche e germaniche, veneziane e turche che in un andirivieni tumultuoso hanno lasciato ovunque i segni del loro passaggio, spesso selvaggio e deprecato come quello degli avari, bulgari, serbi e bosniaci, ungari e croati, romeni e macedoni, albanesi, montenegrini, zingari ed ebrei. Comunità assemblate per costrizione o necessità di sopravvivenza fra le rive dell’Adriatico e la Sava, fra la Drava e il Danubio, chiuse a oriente dalla catena carpatico-balcanica. In questa regione che non ha lasciato tracce rilevanti nel mondo occidentale di civiltà e di costumi, confluiscono poi tanti cordoni ombelicali legati allo scorrere dei grandi fiumi europei, radici e propaggini etniche originate dal grande ma eterogeneo popolo slavo con russi bianchi, boemi e moldavi, slovacchi e ruteni, da sempre proiettato verso i mari caldi del Mediterraneo, impropriamente definito un popolo, omogeneo solo nella definizione letterale ma in realtà diviso, frazionato, diverso, da sempre in guerra all’interno per contrasti secolari, profondamente irrequieto, tradizionalmente subdolo, infido in sé e con gli altri, contrapposto nelle etnie, religioni e costumi. Sfortunatamente questo caleidoscopio insediato per decisioni politiche ai confini orientali d’Italia, circondava il piccolo insediamento italiano d’oltremare, di poco più di 100 kmq che aveva nome Zara, ed ebbe nefaste conseguenze nel suo futuro determinandone la perdita dall’Italia. La vogliamo qui ricordare per non dimenticare.
            Nel difficile contesto territoriale ed etnico, Zara appariva agli slavi, ancor prima della 2° Guerra Mondiale, un irresistibile centro di attrazione e di ammirazione, suscitando in loro anche invidia e complessi psicologici di rancore. Agli italiani appariva una gemma solitaria e splendente, incastonata nell’azzurro del suo mare, vetrina di una civiltà, maestra e punto d’incontro di culture diverse.
            La storia di questa città non era stata facile nel corso dei secoli, poiché le sue origini più remote risalgono alla Dalmatia, una parte del territorio della Liburnia conosciuta meglio come Madera (Jader romana poi Diadora con Bisanzio). Nel periodo dell’espansione romana del 229 a.C. e della creazione del protettorato il lirico che legava i jadertini alla potenza di Roma, essi fornirono navi e marinai provetti in pace e alleati in armi, socii navales nella prima guerra dalmatica (155 a.C.). Con la Pax romana fu concesso a Jader il titolo onorifico di Civitates liberae et immunes per l’aiuto prestato a Roma, titolo poi trasformato in Federatae allorché i legami militari furono stretti ancor più durante la guerra civile del 48 a.C. nella quale i jadertini furono dapprima alleati con Pompeo in lotta contro Caio Giulio Cesare e poi a fianco di Ottaviano nel 31 a.C. contro Antonio. Essi meritarono per la fedeltà ed il valore dimostrati nella battaglia di Azio, l’ambito titolo di Parens Coloniae assegnato a coloro che garantivano ed ampliavano la civiltà romana oltre i confini: allargarono infatti la conoscenza e l’approvazioni delle leggi di Roma nel cuore dell’Illiria, nella Mesia e in Macedonia, svolgendo una missione civilizzatrice con dedizione. Integrata più tardi, dopo la nascita del cristianesimo, in tutta la regione danubiana, Jader abbracciò infatti con convinzione, fede e sacrifici la nuova religione, tanto da promuovere l’originario piccolo insediamento cristiano del 2° secolo a quello più grande e importante dell’Arcivescovado (4° secolo) e acquisì in tal modo il diritto a partecipare al Concilio di Aquileia del 380 d.C.
            Parens Jadertinum, coinvolta come tante altre regioni romanizzate dell’Europa sud-orientale nelle negative vicende legate al declino dell’impero romano d’occidente, passò sotto Odoacre nel 480 ed infine venne assoggettata da Bisanzio nel 538 sotto il dominio dell’imperatore Giustiniano I.
            Il primo incontro con le ostili popolazioni slave  può farsi risalire al 615, tempo delle invasioni barbariche degli slavi orientali (unni e avari di discendenza mongolia, ucraini, bulgari, slavoni, serbi) che spinsero verso il mare croati e ungari sistematisi nelle regioni costiere sotto il controllo di Bisanzio e, dopo la distruzione del regno dei Gepidi, insediatisi nuovamente ai confini orientali del regno dei Franchi prima, del Sacro Romano Impero successivamente; dominio, questo, che consacrava Zara capitale della Dalmazia (752 d.C.) con un suo condottiero (Dux Jaderae), inserita nel legato di Dalmazia dopo l’atto di sottomissione a Carlo Magno dell’805 d.C.
            Nel 992è la volta di Venezia, che prende sotto la sua protezione la piccola città adriatica rimasta indipendente seppur minacciata dagli slavi e il Doge Pietro Orseolo sconfigge i croati di re Dircislao. Egli riceve dai zaratini il titolo di Dux Venetiae ed Dalmatiae e associa la città nella sua alleanza militare, garantendo sicurezza e prosperità duratura soprattutto per le affinità storiche, culturali, religiose e linguistiche delle comuni origini. Con l’avvento del Doge Orseolo II la potenza della Repubblica di San Marco si rafforza, sconfiggendo ancora una volta i croati ed ottenendo a titolo personale il titolo di Dux Dalmatiae per la protezione fornita a Zara. Nel 1105 è la volta degli ungari di Colomano, che assediano a lungo la città difesa con tenacia dai suoi abitanti, i quali resistono fino all’arrivo della flotta venezianadel Doge Volier, che sconfigge in battaglia ungari e croati, pacifica nuovamente la turbolenta Dalmazia e la Serbia non senza aver prima distrutto nel 1123 Belgrado.
            Nel 1154 Papa Anastasio IV eleva al rango di Arcivescovado la sede cristiana di Zara e affida al Vescovo Lampridio le Diocesi di Ossero, Veglia, Arbe e Lesina che passano con Zara sotto il controllo ecclesiale del Patriarca di Grado, nominato per l’occasione Primate di Dalmazia.
            Cede lentamente la potenza bizantina, mentre i turchi dilagano attraverso la Bulgaria nell’Europa sud-orientale e convertono all’Islam i popoli cristiani, minacciando così non solo l’aspetto egemonico ma anche religioso della civiltà aeropea.
            Zara resiste anche a questo nuovo pericolo, rinsalda la sua fede cristiana tanto da meritarsi una visita del più grande santo italiano – Francesco d’Assisi – che nel 1212 fonda nella città adriatica un convento  di frati minori. Le crociate in Terrasanta si susseguono con vittorie e sconfitte che indeboliscono la Chiesa di Roma, favoriscono i nemici della fede e provocano scissioni laceranti.
            Zara viene minacciata ancora una volta da ungano-croati e Venezia deve intervenire nuovamente: per riscattare la città dalla corona d’Ungheria paga nel 1409 un totale di 100.000 ducati d’oro. Lo stesso anno con bolla promulgata dal Doge Michele Steno, Zara entra ufficialmente a far parte della Serenissima.
            La decadenza dell’impero bizantino e della Chiesa apre ai musulmani la strada verso il cuore dell’Europa. I turchi catechizzano i popoli più deboli dei Balcani: albanesi, macedoni, bosniaci, montenegrini e minacciano nel 1470 la Dalmazia e Zara. Fu necessario per i popoli europei coalizzarsi per respingere il pericolo islamico e nel 1571, nella grande battaglia navale di Lepanto, la flotta turca di Selim II detto Alì Pascià, fu sconfitta dai condottieri cristiani Sebastiano Veniero, Marcantonio Colonna e Giovanni d’Austria.
            Nel 1606 veneziani e zaratini combattono i pirati scocchi di origine slava- croata-liburna, che armati e fomentati dall’Austria gelosa della potenza di Venezia, assalgono, depredano navi e uccidono con ferocia uomini della Serenissima. Venezia vede in pericolo i suoi commerci e i suoi insediamenti, minato il potere ed il prestigio della Repubblica e ostacolano duramente la ripresa dell’attività dei pirati gia combattuti da Roma. In quel periodo s’insedia nel litorale dalmato un’altra popolazione slava – i morlacchi – attratta dalle migliori condizioni di vita e di civiltà. Ma nuovi rivoluzionari sommovimenti stavano verificandosi in Europa.
            Nasce l’astro di Napoleone Bonaparte che combatte in tutta Europa prussiani ed austriaci, scandinavi e bavaresi, spagnoli e inglesi, russi e italiani sconvolgendo regni e monarchi, creando e disfacendo stati affidati poi a parenti. Anche Zara subisce le vicende napoleoniche che decretano la fine della gloriosa Repubblica Veneziana: viene ceduta all’Austria col trattato di Campoformido del 1797, assegnata successivamente nel 1810 al regno Il lirico ed infine occupata nuovamente dall’Austria  col trattato di Vienna del 1815, dopo Waterloo.
            Prima di quest’ultima cessione, i gloriosi stendardi di Venezia vennero custoditi nell’altare maggiore della cattedrale di S. Anastasia con una solenne cerimonia cui partecipò commosso tutto il popolo caratino, consapevole che si era chiuso mestamente un ciclo storico durato secoli. L’unica speranza era ormai l’Italia.
            La dominazione austriaca fu senza dubbio la peggiore nella storia di Zara. Iniziarono le pressioni morali, i processi per i patrioti, le condanne, l’esilio per i più riottosi e come strumento di costante pericolo le sobillazioni tra le popolazioni slave contro i zaratini e i dalmati, in genere colpevoli di amare l’Italia. Sentimenti di avversione e odio che ancora perdurano ai nostri giorni, come pesante eredità di quel triste periodo di sofferenze e persecuzioni, che non spense l’amor di patria dei zaratini.
            Dalla prima metà del 1800 la comunità italiana della Dalmazia dovette sostenere una durissima lotta a costo di persecuzioni, prigione ed esilio per conservare il sentimento di patriottismo ed alimentare l’irredentismo, opponendosi ai tentativi di snazionalizzazione e di immissione dei croati.
            Nel 1910 un decreto del regio e imperiale governo austriaco, abolì l’uso ufficiale della lingua italiana a Zara sostituendola con quella croata: il provvedimento non trovò mai pratica attuazione perché i zaratini continuarono imperterriti a parlare italiano o dialetto veneto-giuliano ignorando e ridicolizzando l’imposizione di Vienna.
            Con lo scoppio della 1° Guerra Mondiale originata dal terrorismo serbo a Sarajevo (quante analogie con la situazione attuale) ai patrioti zaratini non rimase altra alternativa che passare la frontiera e arruolarsi nell’esercito italiano per combattere l’oppressore. Numerosi i volontari irredentisti, i decorati al valore, i caduti, i feriti, i mutilati. L’ora della redenzione suonò il 4 novembre 1918 allorchè giunse a Zara la R. Torpediniera AS. 55 che sbarcò i primi marinai italiani accolti dal tripudio della popolazione e dalla gioia di vedere innalzare sul più alto pennone del porto il tricolore d’Italia. Mancava ancora il riconoscimento ufficiale, forzato anticipatamente nel 1919 dalla spedizione dannunziana che giunse a Zara da Fiume con 4 navi. L’ammiraglio Millo, disatteso l’ordine del governo di Roma di bloccare l’iniziativa, fece causa comune col poeta, scortando le navi, affacciandosi poi al balcone del palazzo del Capitano con il Podestà Ziliotto per rispondere alle ovazioni della cittadinanza. Il trattato di Rapallo sancì definitivamente l’unione di Zara all’Italia nel 1920 con l’isola di Lagosta, sacrificando però le italianissime città dalmate di Ragusa, Traù, Spalato, Selenico, Cattaro e le isole vicine. Un altro sopruso compiuto a Versailles, in spregio ai patti sottoscritti da inglesi, francesi e americani nei confronti dell’Italia e nonostante il contributo di oltre 600.000 caduti e un milione di mutilati e feriti dato per la vittoria alleata.
            La Francia subentrò all’Austria nei Balcani riprendendo la politica anti-italiana col creare condizioni d’instabilità politica ai confini orientali. Seguirono anni di pace, di commerci fiorenti, di prosperità e benessere diffusi di cui beneficiarono tutti, ed i zaratini in particolare, godettero di anni sereni nella ritrovata unione nazionale mentre gli slavi trassero vantaggio dalla pacifica convivenza.
            Con lo scoppio della II° Guerra Mondiale nel settembre del 1939, per Zara, lontana dalla madrepatria e isolata dall’Adriatico, a diretto contatto con la Jugoslavia ambigua nella politica guidata dall’oligarchia serba, il futuro appariva incerto.
            Nella primavera del 1941 la guerra si avvicinò anche a Zara, e i 9.000 uomini del suo presidio al comando del generale Emilio Figlioli si prepararono a difenderla contro la “Jadranska”e reparti di altre due divisioni, numericamente superiori come uomini e armamento. In aprile iniziarono le operazioni di guerra con incursioni di bombardieri slavi sulla città, che causarono i primi morti fra civili e militari; intervenne la caccia italiana a respingere gli assalitori e il 12 dello stesso mese iniziava l’offensiva generale con l’avanzata italiana oltre Bencovazzo, S. Cassiano, Nona e la breve ma vittoriosa campagna terminava alcuni giorni più tardi con l’occupazione di Knin. Seguirono gli anni difficili e subdoli della guerriglia comunista dei titini con attacchi isolati, agguati alle autocolonne, ai presidi, con distruzioni, incendi, sabotaggi, morti, feriti e tanti dispersi mai più ritrovati. Poi nel settembre 1943 giunse inaspettato l’armistizio di Badoglio. All’annuncio che l’Italia cedeva le armi, il comandante del XVIII Corpo d’Armata generale Umberto Spigo, ebbe disposizioni dal comando 2° Armata di trattare con i tedeschi la difesa della città e il delicato problema dell’ordine pubblico. Secondo l’accordo stipulato con il comando della 114° divisione Jager, le autorità civili di Zara avrebbero continuato a svolgere le loro funzioni, le truppe italiane avrebbero mantenuto l’ordine in città assieme ai reparti tedeschi mentre il comando germanico avrebbe assunto il controllo del circondario. Fu un accordo durato pochi giorni poiché il comando del Corpo d’armata abbandonò improvvisamente Zara rifugiandosi via mare a Venezia e lasciando le unità dipendenti nel caos, senza ordini, con conseguente sbandamento morale e materiale e repentino cambiamento di politica da parte tedesca. In più taluni responsabili militari, su istigazione dei generali Ambrosio e Roatta, ormai al sicuro a Brindisi, ricercarono accordi con i partigiani comunisti di Tito per “un’azione in comune contro i tedeschi e per la consegna di armi, munizioni”. Iniziava il caos e a farne le spese furono i zaratini, gli italiani, i militari che non avevano accettato una così innaturale e brutale alleanza dopo aver duramente combattuto per lunghi anni i partigiani. Un robusto presidio rimase in città; erano i fanti del 291° rgt., i bersaglieri dell’11°, i genieri, gli artiglieri, le CC.NN. della 107° Legione, le guardie alla frontiera, i carabinieri, i finanzieri, gli agenti di P.S., tutti decisi a opporsi agli slavi, collaborando con i tedeschi, onde evitare pericoli alla comunità italiana. Ad essi si unirono i legionari della DICAT e i reparti territoriali delle posizioni “Diaz”, “Rispondo”, “Cadorna” con numerosi avieri del campo d’aviazione di Demonico.
            L’armistizio fu vissuto dai zaratini con comprensibile sgomento e timori per il futuro, ma anche con la fiducia che i soldati italiani non li avrebbero abbandonati considerando che l’Italia non esisteva ormai più come entità politica, non aveva governanti e il suo territorio era invaso dagli alleati anglo americani e dai tedeschi traditi.
            La situazione precipitò perché Hitler, condannato severamente il tradimento italiano (perpetrato soltanto da Badoglio e dal suo clan di traditori – n.d.a.) volle “regalare” ai croati di Ante Pavelic tutto il territorio che il Poglavnick poteva occupare ai margini del suo stato, includendovi Zara, con la nomina a prefetto del dr. Vittorio Ramov e a sindaco di Andrja Relja. Nel contempo l’organo deliberante dei titini – l’AV-NOJ- decretava subito l’inclusione nella nascente federazione jugoslava di Fiume, dell’Istria, di Zara ampliando, ancor più di Pavelic, le rivendicazioni territoriali degli slavi, convinti che ormai era il momento di dettar legge. In questa gravissima situazione, provocata dal Re e da Badoglio, quando tutto ormai sembrava perduto, arrivava provvidenzialmente per l’Italia e gli italiani il ritorno di Mussolini alla guida responsabile del Paese, una presenza autorevole e necessaria per contrastare l’invadenza tedesca, respingere le pretese slave e dare un senso alle speranze ormai affievolite degli italiani, soprattutto di coloro che per dislocazione geografica e situazioni locali erano i più esposti al pericolo.
            Quale primo provvedimento urgente, Mussolini, dopo aver parlato con Hitler riusciva a far accantonare l’idea del prefetto croato, nominando il dr. Paolo Quarantotto, che, impossibilitato a raggiungere al più presto Zara, veniva sostituito dal seniore Vincenzo Serrentino, già comandante la DICAT zaratina. L’ufficiale, trovandosi sul posto, prese immediatamente possesso della carica ricevendo pochi giorni più tardi regolari credenziali da parte del Governo della RSI. Venne coadiuvato nelle sue funzioni dal prefetto vicario dr. Giacomo Vuxani e come Podestà dal dr. Nicola Luxardo. Restava da affiancare alle autorità nominate l’apparato istituzionale, ossia la Questura con gli agenti di P.S., i carabinieri, la guardia di finanza e gli altri organismi dello Stato fra cui le FF.AA. presenti in città con un rgt. Di formazione (col. Francesco Minghillo) composto da fanti, bersaglieri, militari di altre Armi e Specialità, mentre si riattivava la 107° Legione CC.NN. al comando del console Pietro Montesi-Righetti e si reclutavano numerosi volontari che costituivano una Cp. D’assalto (C.M. Francesco Vijack), un nucleo speciale d’azione (S.C.M. Renato Miliardi). Complessivamente 3.500/4.000 uomini compresi i militari addetti ai servizi d’ordine pubblico.
            Al comando del Gruppo Carabinieri di Zara rimase il magg. Trafficanti, coadiuvato dal comandante di tenenza ten. Terranova.
            A dare man forte al neo costituito presidio militare, giungeva la banda MVAC (Milizia Volontaria Anti Comunista) al comando del 1° seniore Tommaso David (banda “Obrovazzo” composta da volontari dalmati filoitaliani, cui si univano la Cp. Studenti volontari dalmati “Vucassina” ed un nucleo di fascisti mobilitati dal PFR al comando del federale dr. Mario Petronio.
            Con questi uomini a disposizione, Serpentino tenne a bada i croati di Pavelic e i partigiani titini, poiché la banda “Obrovazzo”, che aveva recuperato armi e materiali abbandonati dal R.E. e reclutato numerosi sbandati, portò una ventata di entusiasmo e di speranza ai zaratini, controllando le strade di accesso alla città sino all’arrivo dei reparti tedeschi, presidiò la strada Zara-Obrovazzo permettendo l’afflusso di una colonna di artiglieria della 114° Div. Jager rimasta bloccata dai partigiani a Bencovazzo, mentre il comandante David “arruolava” migliaia di sbandati del R.E. ed evitava loro un duro futuro di prigionia in Germania costituendo battaglioni di lavoratori per la Wehrmacht. Presidi consistenti venivano attivati a Obrovazzo, Bencovazzo, Zemonico, Sakosan e a Ulja per completare le difese esterne di Zara.
            L’opera del prefetto Serrentino fu particolarmente difficile, piena di ostacoli, condotta con caparbia determinazione fra l’ostilità croata e la diffidenza tedesca, ma nella convinzione profonda di tutelare gli interessi italiani e la salvaguardia fisica e morale di migliaia di connazionali in grave pericolo.
            Un certo risveglio dell’attività partigiana nel circondario, convinse i comandi tedeschi ad effettuare alcune operazioni di controllo e polizia, ed alla banda “Obrovazzo” fu assegnato il compito di ripulire i dintorni e le isole armando le motobarche “S. Eufemia”e “Corsara” con mitragliere. Si ebbero scontri a Comino, S. Cassiano, Boccagliazio, Paco, Bevilacqua, Nona con la fuga di bande di partigiani comunisti che subirono la perdita di numerosi caduti, feriti e prigionieri. Fra questi una quarantina di ex militari del R.E., che David salvò da sicura morte dopo essere stati considerati “franchi tiratori”dai comandi tedeschi per l’appartenenza al btg. “Mameli”, composto da badogliani (aveva subito 53 morti fra cui 3 ufficiali, uno dei quali identificato per il capitano Cuccioli), postisi al servizio di Tito ed operanti nella zona di Carin, Murvizza, Oltre. Qui venne catturato il famigerato capo banda Joko Lasmanovic, autore di efferati delitti. Nell’operazione il capitano Coppola, vice comandante della “Obrovazzo”, rimase ferito. Si ebbe un altro tentativo croato di insediare Ramov, dopo che lo stesso si era sistemato nella Legazione di Croazia, ma la stessa notte un gruppo di arditi fece sloggiare il rappresentante di Pavelicassieme ad un gruppo di sostenitori croati fatti giungere alla spicciolata per tentare di creare il fatto compiuto, dalle autorità della Nezavisma Orzava Heratska.
            Un grande sostegno morale al lavoro improbo del prefetto Serrentino venne dato dal battagliero “Giornale della Dalmazia” diretto da Feri de Pauer Perretti, che raccolse la voce e le speranze di tanti patrioti italiani sparsi nella Dalmazia e a Zara, li incoraggiò, infondendo loro fiducia, sostenendo sempre le aspirazioni della comunità italiana.
            Era sorprendente constatare come nei periodi più oscuri e difficili, uscissero improvvisamente dal nulla uomini responsabili, spesso sconosciuti, di grande statura morale, di elevato ascendente, destinati, quasi per un disegno del fato, ad affrontare compiti gravosi e a risollevare il morale di tanti infelici compatrioti.
            In campo avverso si stava però preparando il destino di Zara con un disumano accordo fra Tito e i comandi alleati ispirati da Churchill: distruggere dal cielo le città per costringere i suoi abitanti ad abbandonarla e cancellare così forzatamente la presenza italiana, creando le premesse per una balcanizzazione imposta dagli slavi con la forza delle armi e sostenuta dagli anglo-americani. Non era tanto importante causare migliaia di vittime fra la innocente popolazione civile, quanto imporre col terrore una precisa volontà politica; non importava agli anglo-americani distruggere con le bombe insigni monumenti creati nel corso di 16 secoli di civiltà, quanto costringere la cittadinanza terrorizzata ad abbandonare Zara, che nel nuovo assetto geo-politico stabilito dai tre grandi a Yalta, doveva essere assegnata a Tito ed inserita nei confini d’influenza del comunismo sovietico e dei suoi satelliti.
            Gli anglo-americani, che vantavano fra l’altro precedenti criminosi per attacchi terroristici alle città italianee tedesche, che avrebbero distrutto in primavera la storica abbazia di Montecassino senza giustificazione, si prestarono di buon grado al crimine.
            Il 2 novembre 1943, ricorrenza dei defunti, l’aviazione inglese compiva la prima incursione su Zara uccidendo 154 cittadini e 18 militari, ferendo alcune centinaia di persone, distruggendo storici edifici fra cui la famosa cereria, il palazzo comunale, scuole come il liceo-ginnasio, la centrale via Roma, case di civile abitazione. Seguiva il 28 novembre un altro attacco, questa volta diurno e senza possibilità di errori, colpendo Val de Ghisi, il palazzo di Giustizia, una scuola elementare, le Poste e Telegrafi, la casa della GIL, le caserme “Diaz” e “Cadorna”, abitazioni civili con numerosi morti e feriti, la scuola agraria e il piccolo piroscafo “Selenico”affondato in porto. In due incursioni oltre 200 morti civili.
            Il 16 dicembre nuova incursione degli inglesi con la distruzione della Banca Dalmata, della canonica della chiesa ortodossa, del Palazzo della Provincia, del Ginnasio “D’Annunzio” e delle case in calle Val di Maistro, Borgo Erizzo, S. Maria, Pappuzzeri, S. Rocco, Porta Catena. Ma non era finita: nella notte una nuova incursione con bombe incendiarie provocava ancora vittime e terrore fra la gente, desiderosa ormai di fuggire per salvarsi da morte certa. La mancanza di mano d’opera e di attrezzature adatte rendeva impossibile il recupero dei morti e lo sgombero delle macerie. Lo scopo voluto da Tito cominciava a realizzarsi con l’abbandono di Zara da parte dei suoi abitanti. Lo stesso criterio dell’intimidazione fu usato a Fiume, lasciando indenne dai bombardamenti la vicina Susak abitata prevalentemente da croati.
Si ebbero in totale su Zara 54 incursioni e circa 4.000 morti (il 20% della popolazione), molti non identificati perché rimasti sotto le case diroccate e la distruzione di circa l’85% del centro abitato: una perdita culturale, storica e artistica irrimediabile.
            Alla fine del 1943 Serrentino inviava un primo rapporto a Mussolini mettendolo al corrente della situazione tragica che viveva la città, dei morti subiti, dei feriti intrasportabili, degli insepolti, degli sfollati, delle difficoltà alimentari e sanitarie, delle asportazioni effettuate dai tedeschi. Il prefetto assicurava il Duce che sarebbe rimasto al suo posto e non avrebbe ceduto alle pressioni esterne; chiedeva solo aiuti e sostegno morale per i zaratini. Mussolini assicurava Serrentino di fare il possibile e mobilitava Coceani a Trieste per aiutare Zara, istituendo una linea aerea fra Venezia-Trieste-Pola-Zara gestita con idrovolanti e personale italiano sotto il controllo tecnico della Marina germanica. Per Ante Pavelic mostrava il meritato disprezzo per il voltafaccia: “…nella miseria non ci sono amici ed i popoli ragionano come gli individui che li compongono” scriveva a Serrentino mentre Coceani organizzava una colonna di aiuti per Zara, intesa a salvare il maggior numero possibile di sfollati nel ritorno, soprattutto i dalmati, rimasti senza alcun sostegno e autorità, angariati dai croati, uccisi dai titini, prelevati e scomparsi nel nulla. Partivano per Zara le navi “Mameli” e “Marco” che mettevano in salvo a Trieste 500 connazionali mentre un altro migliaio affluiva via terra con autocolonne tedesche. Serrentino ringraziava Coceani per l’aiuto fraterno e scriveva: “qui non si capisce più per chi lottiamo e per chi siamo pronti al sacrificio. Se vincono i nostri amici (tedeschi) Zara sarà croata; se vincono i nostri nemici (slavi) Zara sarà jugoslava. Ed allora? Per noi è una tragedia comunque.”
            Si intensificavano su Zara i bombardamenti dal cielo, mentre gli aerei della Croce Rossa che la collegavano venivano sistematicamente incendiati o abbattuti dall’aviazione alleata, rendendo sempre più precari i contatti con la RSI e Trieste. All’opera di distruzione collaboravano incredibilmente anche aeroplani italiani del sud, inseriti nella Balkan Air Force, eseguendo il mitragliamento del motoveliero “Primo” incendiandolo, mentre gli alleati provocavano l’affondamento dell’”Elettra”, il famoso panfilo-laboratorio di Guglielmo Marconi, del piccolo piroscafo “Sansego” e di altri piccoli natanti, che isolavano ancor più le città dall’Italia. In tutto questo sfacelo morale e materiale, i tedeschi lavoravano sistematicamente per spogliare di ogni bene, attrezzature, materiale utile (fra cui suppellettili e masserizie private) Zara e i suoi dintorni, caricando il tutto su grossi Junkers che facevano la spola fra Demonico e la Germania.
            Fra i tanti eventi sconsolanti e squallidi un vecchio sacerdote – Don Giacomo Molenda – Parroco di S. Simeone di Curzola, più volte minacciato di morte dagli slavi croati e dai titini per i suoi sentimenti di italianità, arriva con una barca a Zara, scende con le sue malferme gambe sul molo, s’inginocchia e bacia le bianche pietre di Dalmazia piangendo la sua gioia di morire vicino agli italiani. Morirà alcuni giorni più tardi. Monsignor Munzani, Arcivescovo di Bibigno, e Don Eleuterio Lovrotic parroco di S. Anastasia, accorrono dov’è richiesta la loro opera di sacerdoti; confortano, aiutano moralmente i derelitti, benedicono i morituri, consolano i superstiti. Soprattutto preziosa l’attività pastorale di Don Lovrotic che con un piccolo altarino portatile raggiunge in bicicletta nei luoghi più lontani gli sfollati, celebra la S. Messa, aiuta come può i suoi cristiani mentre le chiese di Zara vengono distrutte una dietro l’altra dalla furia nemica: S. Maria, S. Demetrio, S. Anastasia, la Vergine dell Salute, la Madonna del castello, il battistero e con le chiese i monumenti della città, le sue fabbriche fra cui la Vlahov e la Luxardo famose in tutto il mondo ed orgoglio degli imprenditori zaratini.
            Il presidio tedesco collabora nell’opera di soccorso, ed encomiabili sono i carabinieri del tenente Terranova, i VV.FF del comandante Schitarelli, i militi UNPA del comandante Tornago, i militari della CRI  e l’aiuto sostanziale del colonnello Von Schenen che risolve molti problemi della città.
            Nel mese di maggio 1944, parte del presidio italiano viene sgomberato verso Trieste di scorta a centinaia di esuli, i tedeschi iniziano a minare le infrastrutture portuali, i macchinari, il materiale rotabile mentre la città muore lentamente in una avvilente agonia, distrutta nel suo tessuto morale ed umano, priva di abitanti, semi deserta, paralizzata nelle sue attività ma ancora decisa a non cedere alle avversità, sorretta soltanto dalla volontà.
            Nell’estate rimanevano in città alcune centinaia di sopravvissuti sui 22.000 abitanti iniziali col 90% dell’abitato distrutto. Restavano ai loro posti di responsabilità il prefetto, il podestà, le organizzazioni di soccorso, la CRI, le istituzioni tradizionali (era rientrato nella RSI il comandante Tommaso David chiamato da Mussolini ad un importante e delicato incarico). Ma la tragedia non era ancora conclusa. Un pugno di ardenti patrioti che la storia ci ha consegnato nelle pagine più dolorose del calvario degli italiani di Dalmazia, restavano in città per affermare il loro diritto di cittadini zaratini ed italiani, ad impedire che i croati ne prendessero possesso o i titini la fagocitassero nella loro federativa multietnica. Fra costoro non possiamo non citare i fratelli Luxardo Pietro e Nicolò, titolari della famosa distilleria del Maraschino di Zara. Pietro, presidente dell’opsedale provinciale, fu l’anima dell’opera di soccorso ed assistenza ai degenti, attuò lo sfollamento degli ammalati, riorganizzò i servizi d’emergenza, si adoperò attivamente per identificare i morti nei bombardamenti, e dare un nome alle vittime, un segno di ritrovamento ai parenti.Nicolò, nobile figura di irredentista, pluridecorato al v.m., consigliere nazionale fin dal 1939, prese a cuore le sorti della città tanto amata e dei suoi concittadini, e quando la sua fabbrica venne distrutta liquidò le spettanze ai suoi dipendenti ma rimase come il fratello al suo posto di responsabilità fino al momento in cui assieme alla moglie Bianca Ronzoni venne prelevato dai titini nell’isola di Selve, trasferito sotto scorta in barca all’isola Lunga per essere, si disse, interrogato dai partigiani comunisti. I coniugi Luxardo non giunsero mai all’isola Lunga, poiché durante il tragitto, immobilizzati con funi alle mani e con al collo una grossa corda con un pesante macigno, vennero barbaramente gettati in mare e scomparvero per sempre nell’Adriatico che avevano tanto amato, ancor più per loro e per noi che li piangiamo amarissimo.
            Il 29 settembre 1944 il prefetto Serrentino inviava a Coceani  l’ultimo disperato messaggio: “sono alla disperazione, non ho viveri, non ho denaro”. Mussolini interveniva facendo pervenire in aereo una notevole somma di danaro per le più importanti necessità e si adoperava per far sgomberare gli ultimi italiani dalla città e circondario, ancora sino agli ultimi giorni di combattimenti di fine ottobre, quando un C.T. tedesco rimpatrierà per ordine del Duce il prefetto che delegava come suo rappresentante il vice prefetto dr. Fiengo per tutelare i circa 10.000 connazionali che restavano nella zona. Col Fiengo rimanevano il commissario del PFR Alacevich, il ten. Terranova, il podestà dr. Luxardo.
            Poche decine di carabinieri, finanzieri e guardie di P.S. rimasero a Zara fino al 1° novembre, allorché i tedeschi abbandonarono nella notte la città portandosi verso Obrovac, Gospic, Karlobag preceduti dai croati di Pavelic in ritirata. Subito dopo i carabinieri prendevano sotto controllo la città che nella mattina del 2 novembre – triste anniversario – veniva occupata dai titini e subiva per la prima volta nella sua storia l’oltraggio di essere calpestata dagli slavi. Sui campanili smozzicati di S. Simeone e S. Anastasia e su altre case sventolavano ancora le ultime bandiere italiane a testimoniare per sempre l’amore dei zaratini per la Patria lontana e perduta. Fu un momento di grande commozione per i pochi superstiti che assistettero piangendo alla cerimonia. Subito dopo arrivarono i partigiani titini della 19° brigata dalmata, che con la minaccia delle armi strapparono le bandiere dalle chiese, dalle case, dalle distrutte caserme, uccidendo all’istante il coraggioso tenente Terranova che aveva personalmente issato sulla chiesa il tricolore d’Italia, cominciarono la caccia all’italiano con l’arresto di centinaia di connazionali colpevoli soltanto di sentirsi italiani. Gli autori degli arresti e delle delazioni furono Drazevje e Joko Modric del Grandski Narodni Odbor, colpevoli della deportazione e della morte di almeno 900zaratini.
            Il 10 novembre il tribunale del VII Corpus dell’EPLJ condannò sbrigativamente ed illegalmente alla pena di morte 29 zaratini e due giorni più tardi fu fucilato Pietro Luxardo, prelevato dal carcere della caserma “Vittorio Emanuele”. I titini inscenarono una ignobile farsa citandolo “in giudizio” il 22 novembre 1945, ben sapendo di averlo ucciso esattamente un anno prima, e lo condannarono all’impiccagione in contumacia. Anche Monsignor Munzani venne imprigionato, confinato a Lagosta, accusato more solito di “fascismo” e detenuto per oltre 6 mesi.
            L’eroico prefetto Vincenzo Serrentino venne catturato a Trieste dai titini nel maggio 1945, deportato, imprigionato, processato e condannato a morte nel 1947, anno in cui venne ucciso a Selenico. Con lui furono eliminati altri componenti del comitato di assistenza per i profughi dalmati e zaratini guidato dal senatore Antonio Sacconi, che per lunghi mesi aveva svolto a Trieste una encomiabile opera di soccorso.
            Un altro oltraggio a Zara venne perpetrato dai nuovi barbari con la distruzione insensata delle lapidi e delle targhe marmoree romane, veneziane, italiche; con lo scalpellamento dei leoni di S. Marco, l’incendio delle biblioteche italiane, con manoscritti preziosi e documenti storici, nel tentativo di sradicare la cultura e la storia della gloriosa città adriatica.
            Oggi Zara vive simbolicamente col suo “libero comune in esilio” in Italia; vive col ricordo dei suoi santi e dei suoi martiri e noi viviamo con questi nostri sventurati fratelli la loro sofferenza e la loro nostalgia, mentre nubi fosche si addensano ancora sulla perduta città e mettono nuovamente in pericolo il restante patrimonio artistico e culturale, testimonianza della presenza di Roma e dell’Italia. Intanto gli slavi hanno deciso di uccidersi ancora fra loro. Come sempre.
Articolo tratto da STORIA VERITA’ anno IIn. 7 luglio-agosto 1992
            

                                                                                                                                                      

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