sabato 28 gennaio 2017

ZARA, PER NON DIMENTICARE




Zara, per non dimenticare

 
di Nino Arena

            E’ la storia di un piccolo lembo di Dalmazia e d’Italia conficcato tenacemente con le sue radici nella sponda opposta dell’Adriatico. Un minuscolo insediamento rimasto con le sue vestigia, le sue mura e i suoi monumenti a testimoniare per sempre la presenza di Roma, della Repubblica Veneta e dell’Italia in quella babilonia etnica denominata Jugoslavia ormai disfatta, dai tanti popoli diversi che la compongono e le contrastanti religioni che li dividono; con gli innumerevoli dialetti spesso incomprensibili, ereditati nei secoli da influenze barbariche e da civiltà romane e bizantine, greche e germaniche, veneziane e turche che in un andirivieni tumultuoso hanno lasciato ovunque i segni del loro passaggio, spesso selvaggio e deprecato come quello degli avari, bulgari, serbi e bosniaci, ungari e croati, romeni e macedoni, albanesi, montenegrini, zingari ed ebrei. Comunità assemblate per costrizione o necessità di sopravvivenza fra le rive dell’Adriatico e la Sava, fra la Drava e il Danubio, chiuse a oriente dalla catena carpatico-balcanica. In questa regione che non ha lasciato tracce rilevanti nel mondo occidentale di civiltà e di costumi, confluiscono poi tanti cordoni ombelicali legati allo scorrere dei grandi fiumi europei, radici e propaggini etniche originate dal grande ma eterogeneo popolo slavo con russi bianchi, boemi e moldavi, slovacchi e ruteni, da sempre proiettato verso i mari caldi del Mediterraneo, impropriamente definito un popolo, omogeneo solo nella definizione letterale ma in realtà diviso, frazionato, diverso, da sempre in guerra all’interno per contrasti secolari, profondamente irrequieto, tradizionalmente subdolo, infido in sé e con gli altri, contrapposto nelle etnie, religioni e costumi. Sfortunatamente questo caleidoscopio insediato per decisioni politiche ai confini orientali d’Italia, circondava il piccolo insediamento italiano d’oltremare, di poco più di 100 kmq che aveva nome Zara, ed ebbe nefaste conseguenze nel suo futuro determinandone la perdita dall’Italia. La vogliamo qui ricordare per non dimenticare.
            Nel difficile contesto territoriale ed etnico, Zara appariva agli slavi, ancor prima della 2° Guerra Mondiale, un irresistibile centro di attrazione e di ammirazione, suscitando in loro anche invidia e complessi psicologici di rancore. Agli italiani appariva una gemma solitaria e splendente, incastonata nell’azzurro del suo mare, vetrina di una civiltà, maestra e punto d’incontro di culture diverse.
            La storia di questa città non era stata facile nel corso dei secoli, poiché le sue origini più remote risalgono alla Dalmatia, una parte del territorio della Liburnia conosciuta meglio come Madera (Jader romana poi Diadora con Bisanzio). Nel periodo dell’espansione romana del 229 a.C. e della creazione del protettorato il lirico che legava i jadertini alla potenza di Roma, essi fornirono navi e marinai provetti in pace e alleati in armi, socii navales nella prima guerra dalmatica (155 a.C.). Con la Pax romana fu concesso a Jader il titolo onorifico di Civitates liberae et immunes per l’aiuto prestato a Roma, titolo poi trasformato in Federatae allorché i legami militari furono stretti ancor più durante la guerra civile del 48 a.C. nella quale i jadertini furono dapprima alleati con Pompeo in lotta contro Caio Giulio Cesare e poi a fianco di Ottaviano nel 31 a.C. contro Antonio. Essi meritarono per la fedeltà ed il valore dimostrati nella battaglia di Azio, l’ambito titolo di Parens Coloniae assegnato a coloro che garantivano ed ampliavano la civiltà romana oltre i confini: allargarono infatti la conoscenza e l’approvazioni delle leggi di Roma nel cuore dell’Illiria, nella Mesia e in Macedonia, svolgendo una missione civilizzatrice con dedizione. Integrata più tardi, dopo la nascita del cristianesimo, in tutta la regione danubiana, Jader abbracciò infatti con convinzione, fede e sacrifici la nuova religione, tanto da promuovere l’originario piccolo insediamento cristiano del 2° secolo a quello più grande e importante dell’Arcivescovado (4° secolo) e acquisì in tal modo il diritto a partecipare al Concilio di Aquileia del 380 d.C.
            Parens Jadertinum, coinvolta come tante altre regioni romanizzate dell’Europa sud-orientale nelle negative vicende legate al declino dell’impero romano d’occidente, passò sotto Odoacre nel 480 ed infine venne assoggettata da Bisanzio nel 538 sotto il dominio dell’imperatore Giustiniano I.
            Il primo incontro con le ostili popolazioni slave  può farsi risalire al 615, tempo delle invasioni barbariche degli slavi orientali (unni e avari di discendenza mongolia, ucraini, bulgari, slavoni, serbi) che spinsero verso il mare croati e ungari sistematisi nelle regioni costiere sotto il controllo di Bisanzio e, dopo la distruzione del regno dei Gepidi, insediatisi nuovamente ai confini orientali del regno dei Franchi prima, del Sacro Romano Impero successivamente; dominio, questo, che consacrava Zara capitale della Dalmazia (752 d.C.) con un suo condottiero (Dux Jaderae), inserita nel legato di Dalmazia dopo l’atto di sottomissione a Carlo Magno dell’805 d.C.
            Nel 992è la volta di Venezia, che prende sotto la sua protezione la piccola città adriatica rimasta indipendente seppur minacciata dagli slavi e il Doge Pietro Orseolo sconfigge i croati di re Dircislao. Egli riceve dai zaratini il titolo di Dux Venetiae ed Dalmatiae e associa la città nella sua alleanza militare, garantendo sicurezza e prosperità duratura soprattutto per le affinità storiche, culturali, religiose e linguistiche delle comuni origini. Con l’avvento del Doge Orseolo II la potenza della Repubblica di San Marco si rafforza, sconfiggendo ancora una volta i croati ed ottenendo a titolo personale il titolo di Dux Dalmatiae per la protezione fornita a Zara. Nel 1105 è la volta degli ungari di Colomano, che assediano a lungo la città difesa con tenacia dai suoi abitanti, i quali resistono fino all’arrivo della flotta venezianadel Doge Volier, che sconfigge in battaglia ungari e croati, pacifica nuovamente la turbolenta Dalmazia e la Serbia non senza aver prima distrutto nel 1123 Belgrado.
            Nel 1154 Papa Anastasio IV eleva al rango di Arcivescovado la sede cristiana di Zara e affida al Vescovo Lampridio le Diocesi di Ossero, Veglia, Arbe e Lesina che passano con Zara sotto il controllo ecclesiale del Patriarca di Grado, nominato per l’occasione Primate di Dalmazia.
            Cede lentamente la potenza bizantina, mentre i turchi dilagano attraverso la Bulgaria nell’Europa sud-orientale e convertono all’Islam i popoli cristiani, minacciando così non solo l’aspetto egemonico ma anche religioso della civiltà aeropea.
            Zara resiste anche a questo nuovo pericolo, rinsalda la sua fede cristiana tanto da meritarsi una visita del più grande santo italiano – Francesco d’Assisi – che nel 1212 fonda nella città adriatica un convento  di frati minori. Le crociate in Terrasanta si susseguono con vittorie e sconfitte che indeboliscono la Chiesa di Roma, favoriscono i nemici della fede e provocano scissioni laceranti.
            Zara viene minacciata ancora una volta da ungano-croati e Venezia deve intervenire nuovamente: per riscattare la città dalla corona d’Ungheria paga nel 1409 un totale di 100.000 ducati d’oro. Lo stesso anno con bolla promulgata dal Doge Michele Steno, Zara entra ufficialmente a far parte della Serenissima.
            La decadenza dell’impero bizantino e della Chiesa apre ai musulmani la strada verso il cuore dell’Europa. I turchi catechizzano i popoli più deboli dei Balcani: albanesi, macedoni, bosniaci, montenegrini e minacciano nel 1470 la Dalmazia e Zara. Fu necessario per i popoli europei coalizzarsi per respingere il pericolo islamico e nel 1571, nella grande battaglia navale di Lepanto, la flotta turca di Selim II detto Alì Pascià, fu sconfitta dai condottieri cristiani Sebastiano Veniero, Marcantonio Colonna e Giovanni d’Austria.
            Nel 1606 veneziani e zaratini combattono i pirati scocchi di origine slava- croata-liburna, che armati e fomentati dall’Austria gelosa della potenza di Venezia, assalgono, depredano navi e uccidono con ferocia uomini della Serenissima. Venezia vede in pericolo i suoi commerci e i suoi insediamenti, minato il potere ed il prestigio della Repubblica e ostacolano duramente la ripresa dell’attività dei pirati gia combattuti da Roma. In quel periodo s’insedia nel litorale dalmato un’altra popolazione slava – i morlacchi – attratta dalle migliori condizioni di vita e di civiltà. Ma nuovi rivoluzionari sommovimenti stavano verificandosi in Europa.
            Nasce l’astro di Napoleone Bonaparte che combatte in tutta Europa prussiani ed austriaci, scandinavi e bavaresi, spagnoli e inglesi, russi e italiani sconvolgendo regni e monarchi, creando e disfacendo stati affidati poi a parenti. Anche Zara subisce le vicende napoleoniche che decretano la fine della gloriosa Repubblica Veneziana: viene ceduta all’Austria col trattato di Campoformido del 1797, assegnata successivamente nel 1810 al regno Il lirico ed infine occupata nuovamente dall’Austria  col trattato di Vienna del 1815, dopo Waterloo.
            Prima di quest’ultima cessione, i gloriosi stendardi di Venezia vennero custoditi nell’altare maggiore della cattedrale di S. Anastasia con una solenne cerimonia cui partecipò commosso tutto il popolo caratino, consapevole che si era chiuso mestamente un ciclo storico durato secoli. L’unica speranza era ormai l’Italia.
            La dominazione austriaca fu senza dubbio la peggiore nella storia di Zara. Iniziarono le pressioni morali, i processi per i patrioti, le condanne, l’esilio per i più riottosi e come strumento di costante pericolo le sobillazioni tra le popolazioni slave contro i zaratini e i dalmati, in genere colpevoli di amare l’Italia. Sentimenti di avversione e odio che ancora perdurano ai nostri giorni, come pesante eredità di quel triste periodo di sofferenze e persecuzioni, che non spense l’amor di patria dei zaratini.
            Dalla prima metà del 1800 la comunità italiana della Dalmazia dovette sostenere una durissima lotta a costo di persecuzioni, prigione ed esilio per conservare il sentimento di patriottismo ed alimentare l’irredentismo, opponendosi ai tentativi di snazionalizzazione e di immissione dei croati.
            Nel 1910 un decreto del regio e imperiale governo austriaco, abolì l’uso ufficiale della lingua italiana a Zara sostituendola con quella croata: il provvedimento non trovò mai pratica attuazione perché i zaratini continuarono imperterriti a parlare italiano o dialetto veneto-giuliano ignorando e ridicolizzando l’imposizione di Vienna.
            Con lo scoppio della 1° Guerra Mondiale originata dal terrorismo serbo a Sarajevo (quante analogie con la situazione attuale) ai patrioti zaratini non rimase altra alternativa che passare la frontiera e arruolarsi nell’esercito italiano per combattere l’oppressore. Numerosi i volontari irredentisti, i decorati al valore, i caduti, i feriti, i mutilati. L’ora della redenzione suonò il 4 novembre 1918 allorchè giunse a Zara la R. Torpediniera AS. 55 che sbarcò i primi marinai italiani accolti dal tripudio della popolazione e dalla gioia di vedere innalzare sul più alto pennone del porto il tricolore d’Italia. Mancava ancora il riconoscimento ufficiale, forzato anticipatamente nel 1919 dalla spedizione dannunziana che giunse a Zara da Fiume con 4 navi. L’ammiraglio Millo, disatteso l’ordine del governo di Roma di bloccare l’iniziativa, fece causa comune col poeta, scortando le navi, affacciandosi poi al balcone del palazzo del Capitano con il Podestà Ziliotto per rispondere alle ovazioni della cittadinanza. Il trattato di Rapallo sancì definitivamente l’unione di Zara all’Italia nel 1920 con l’isola di Lagosta, sacrificando però le italianissime città dalmate di Ragusa, Traù, Spalato, Selenico, Cattaro e le isole vicine. Un altro sopruso compiuto a Versailles, in spregio ai patti sottoscritti da inglesi, francesi e americani nei confronti dell’Italia e nonostante il contributo di oltre 600.000 caduti e un milione di mutilati e feriti dato per la vittoria alleata.
            La Francia subentrò all’Austria nei Balcani riprendendo la politica anti-italiana col creare condizioni d’instabilità politica ai confini orientali. Seguirono anni di pace, di commerci fiorenti, di prosperità e benessere diffusi di cui beneficiarono tutti, ed i zaratini in particolare, godettero di anni sereni nella ritrovata unione nazionale mentre gli slavi trassero vantaggio dalla pacifica convivenza.
            Con lo scoppio della II° Guerra Mondiale nel settembre del 1939, per Zara, lontana dalla madrepatria e isolata dall’Adriatico, a diretto contatto con la Jugoslavia ambigua nella politica guidata dall’oligarchia serba, il futuro appariva incerto.
            Nella primavera del 1941 la guerra si avvicinò anche a Zara, e i 9.000 uomini del suo presidio al comando del generale Emilio Figlioli si prepararono a difenderla contro la “Jadranska”e reparti di altre due divisioni, numericamente superiori come uomini e armamento. In aprile iniziarono le operazioni di guerra con incursioni di bombardieri slavi sulla città, che causarono i primi morti fra civili e militari; intervenne la caccia italiana a respingere gli assalitori e il 12 dello stesso mese iniziava l’offensiva generale con l’avanzata italiana oltre Bencovazzo, S. Cassiano, Nona e la breve ma vittoriosa campagna terminava alcuni giorni più tardi con l’occupazione di Knin. Seguirono gli anni difficili e subdoli della guerriglia comunista dei titini con attacchi isolati, agguati alle autocolonne, ai presidi, con distruzioni, incendi, sabotaggi, morti, feriti e tanti dispersi mai più ritrovati. Poi nel settembre 1943 giunse inaspettato l’armistizio di Badoglio. All’annuncio che l’Italia cedeva le armi, il comandante del XVIII Corpo d’Armata generale Umberto Spigo, ebbe disposizioni dal comando 2° Armata di trattare con i tedeschi la difesa della città e il delicato problema dell’ordine pubblico. Secondo l’accordo stipulato con il comando della 114° divisione Jager, le autorità civili di Zara avrebbero continuato a svolgere le loro funzioni, le truppe italiane avrebbero mantenuto l’ordine in città assieme ai reparti tedeschi mentre il comando germanico avrebbe assunto il controllo del circondario. Fu un accordo durato pochi giorni poiché il comando del Corpo d’armata abbandonò improvvisamente Zara rifugiandosi via mare a Venezia e lasciando le unità dipendenti nel caos, senza ordini, con conseguente sbandamento morale e materiale e repentino cambiamento di politica da parte tedesca. In più taluni responsabili militari, su istigazione dei generali Ambrosio e Roatta, ormai al sicuro a Brindisi, ricercarono accordi con i partigiani comunisti di Tito per “un’azione in comune contro i tedeschi e per la consegna di armi, munizioni”. Iniziava il caos e a farne le spese furono i zaratini, gli italiani, i militari che non avevano accettato una così innaturale e brutale alleanza dopo aver duramente combattuto per lunghi anni i partigiani. Un robusto presidio rimase in città; erano i fanti del 291° rgt., i bersaglieri dell’11°, i genieri, gli artiglieri, le CC.NN. della 107° Legione, le guardie alla frontiera, i carabinieri, i finanzieri, gli agenti di P.S., tutti decisi a opporsi agli slavi, collaborando con i tedeschi, onde evitare pericoli alla comunità italiana. Ad essi si unirono i legionari della DICAT e i reparti territoriali delle posizioni “Diaz”, “Rispondo”, “Cadorna” con numerosi avieri del campo d’aviazione di Demonico.
            L’armistizio fu vissuto dai zaratini con comprensibile sgomento e timori per il futuro, ma anche con la fiducia che i soldati italiani non li avrebbero abbandonati considerando che l’Italia non esisteva ormai più come entità politica, non aveva governanti e il suo territorio era invaso dagli alleati anglo americani e dai tedeschi traditi.
            La situazione precipitò perché Hitler, condannato severamente il tradimento italiano (perpetrato soltanto da Badoglio e dal suo clan di traditori – n.d.a.) volle “regalare” ai croati di Ante Pavelic tutto il territorio che il Poglavnick poteva occupare ai margini del suo stato, includendovi Zara, con la nomina a prefetto del dr. Vittorio Ramov e a sindaco di Andrja Relja. Nel contempo l’organo deliberante dei titini – l’AV-NOJ- decretava subito l’inclusione nella nascente federazione jugoslava di Fiume, dell’Istria, di Zara ampliando, ancor più di Pavelic, le rivendicazioni territoriali degli slavi, convinti che ormai era il momento di dettar legge. In questa gravissima situazione, provocata dal Re e da Badoglio, quando tutto ormai sembrava perduto, arrivava provvidenzialmente per l’Italia e gli italiani il ritorno di Mussolini alla guida responsabile del Paese, una presenza autorevole e necessaria per contrastare l’invadenza tedesca, respingere le pretese slave e dare un senso alle speranze ormai affievolite degli italiani, soprattutto di coloro che per dislocazione geografica e situazioni locali erano i più esposti al pericolo.
            Quale primo provvedimento urgente, Mussolini, dopo aver parlato con Hitler riusciva a far accantonare l’idea del prefetto croato, nominando il dr. Paolo Quarantotto, che, impossibilitato a raggiungere al più presto Zara, veniva sostituito dal seniore Vincenzo Serrentino, già comandante la DICAT zaratina. L’ufficiale, trovandosi sul posto, prese immediatamente possesso della carica ricevendo pochi giorni più tardi regolari credenziali da parte del Governo della RSI. Venne coadiuvato nelle sue funzioni dal prefetto vicario dr. Giacomo Vuxani e come Podestà dal dr. Nicola Luxardo. Restava da affiancare alle autorità nominate l’apparato istituzionale, ossia la Questura con gli agenti di P.S., i carabinieri, la guardia di finanza e gli altri organismi dello Stato fra cui le FF.AA. presenti in città con un rgt. Di formazione (col. Francesco Minghillo) composto da fanti, bersaglieri, militari di altre Armi e Specialità, mentre si riattivava la 107° Legione CC.NN. al comando del console Pietro Montesi-Righetti e si reclutavano numerosi volontari che costituivano una Cp. D’assalto (C.M. Francesco Vijack), un nucleo speciale d’azione (S.C.M. Renato Miliardi). Complessivamente 3.500/4.000 uomini compresi i militari addetti ai servizi d’ordine pubblico.
            Al comando del Gruppo Carabinieri di Zara rimase il magg. Trafficanti, coadiuvato dal comandante di tenenza ten. Terranova.
            A dare man forte al neo costituito presidio militare, giungeva la banda MVAC (Milizia Volontaria Anti Comunista) al comando del 1° seniore Tommaso David (banda “Obrovazzo” composta da volontari dalmati filoitaliani, cui si univano la Cp. Studenti volontari dalmati “Vucassina” ed un nucleo di fascisti mobilitati dal PFR al comando del federale dr. Mario Petronio.
            Con questi uomini a disposizione, Serpentino tenne a bada i croati di Pavelic e i partigiani titini, poiché la banda “Obrovazzo”, che aveva recuperato armi e materiali abbandonati dal R.E. e reclutato numerosi sbandati, portò una ventata di entusiasmo e di speranza ai zaratini, controllando le strade di accesso alla città sino all’arrivo dei reparti tedeschi, presidiò la strada Zara-Obrovazzo permettendo l’afflusso di una colonna di artiglieria della 114° Div. Jager rimasta bloccata dai partigiani a Bencovazzo, mentre il comandante David “arruolava” migliaia di sbandati del R.E. ed evitava loro un duro futuro di prigionia in Germania costituendo battaglioni di lavoratori per la Wehrmacht. Presidi consistenti venivano attivati a Obrovazzo, Bencovazzo, Zemonico, Sakosan e a Ulja per completare le difese esterne di Zara.
            L’opera del prefetto Serrentino fu particolarmente difficile, piena di ostacoli, condotta con caparbia determinazione fra l’ostilità croata e la diffidenza tedesca, ma nella convinzione profonda di tutelare gli interessi italiani e la salvaguardia fisica e morale di migliaia di connazionali in grave pericolo.
            Un certo risveglio dell’attività partigiana nel circondario, convinse i comandi tedeschi ad effettuare alcune operazioni di controllo e polizia, ed alla banda “Obrovazzo” fu assegnato il compito di ripulire i dintorni e le isole armando le motobarche “S. Eufemia”e “Corsara” con mitragliere. Si ebbero scontri a Comino, S. Cassiano, Boccagliazio, Paco, Bevilacqua, Nona con la fuga di bande di partigiani comunisti che subirono la perdita di numerosi caduti, feriti e prigionieri. Fra questi una quarantina di ex militari del R.E., che David salvò da sicura morte dopo essere stati considerati “franchi tiratori”dai comandi tedeschi per l’appartenenza al btg. “Mameli”, composto da badogliani (aveva subito 53 morti fra cui 3 ufficiali, uno dei quali identificato per il capitano Cuccioli), postisi al servizio di Tito ed operanti nella zona di Carin, Murvizza, Oltre. Qui venne catturato il famigerato capo banda Joko Lasmanovic, autore di efferati delitti. Nell’operazione il capitano Coppola, vice comandante della “Obrovazzo”, rimase ferito. Si ebbe un altro tentativo croato di insediare Ramov, dopo che lo stesso si era sistemato nella Legazione di Croazia, ma la stessa notte un gruppo di arditi fece sloggiare il rappresentante di Pavelicassieme ad un gruppo di sostenitori croati fatti giungere alla spicciolata per tentare di creare il fatto compiuto, dalle autorità della Nezavisma Orzava Heratska.
            Un grande sostegno morale al lavoro improbo del prefetto Serrentino venne dato dal battagliero “Giornale della Dalmazia” diretto da Feri de Pauer Perretti, che raccolse la voce e le speranze di tanti patrioti italiani sparsi nella Dalmazia e a Zara, li incoraggiò, infondendo loro fiducia, sostenendo sempre le aspirazioni della comunità italiana.
            Era sorprendente constatare come nei periodi più oscuri e difficili, uscissero improvvisamente dal nulla uomini responsabili, spesso sconosciuti, di grande statura morale, di elevato ascendente, destinati, quasi per un disegno del fato, ad affrontare compiti gravosi e a risollevare il morale di tanti infelici compatrioti.
            In campo avverso si stava però preparando il destino di Zara con un disumano accordo fra Tito e i comandi alleati ispirati da Churchill: distruggere dal cielo le città per costringere i suoi abitanti ad abbandonarla e cancellare così forzatamente la presenza italiana, creando le premesse per una balcanizzazione imposta dagli slavi con la forza delle armi e sostenuta dagli anglo-americani. Non era tanto importante causare migliaia di vittime fra la innocente popolazione civile, quanto imporre col terrore una precisa volontà politica; non importava agli anglo-americani distruggere con le bombe insigni monumenti creati nel corso di 16 secoli di civiltà, quanto costringere la cittadinanza terrorizzata ad abbandonare Zara, che nel nuovo assetto geo-politico stabilito dai tre grandi a Yalta, doveva essere assegnata a Tito ed inserita nei confini d’influenza del comunismo sovietico e dei suoi satelliti.
            Gli anglo-americani, che vantavano fra l’altro precedenti criminosi per attacchi terroristici alle città italianee tedesche, che avrebbero distrutto in primavera la storica abbazia di Montecassino senza giustificazione, si prestarono di buon grado al crimine.
            Il 2 novembre 1943, ricorrenza dei defunti, l’aviazione inglese compiva la prima incursione su Zara uccidendo 154 cittadini e 18 militari, ferendo alcune centinaia di persone, distruggendo storici edifici fra cui la famosa cereria, il palazzo comunale, scuole come il liceo-ginnasio, la centrale via Roma, case di civile abitazione. Seguiva il 28 novembre un altro attacco, questa volta diurno e senza possibilità di errori, colpendo Val de Ghisi, il palazzo di Giustizia, una scuola elementare, le Poste e Telegrafi, la casa della GIL, le caserme “Diaz” e “Cadorna”, abitazioni civili con numerosi morti e feriti, la scuola agraria e il piccolo piroscafo “Selenico”affondato in porto. In due incursioni oltre 200 morti civili.
            Il 16 dicembre nuova incursione degli inglesi con la distruzione della Banca Dalmata, della canonica della chiesa ortodossa, del Palazzo della Provincia, del Ginnasio “D’Annunzio” e delle case in calle Val di Maistro, Borgo Erizzo, S. Maria, Pappuzzeri, S. Rocco, Porta Catena. Ma non era finita: nella notte una nuova incursione con bombe incendiarie provocava ancora vittime e terrore fra la gente, desiderosa ormai di fuggire per salvarsi da morte certa. La mancanza di mano d’opera e di attrezzature adatte rendeva impossibile il recupero dei morti e lo sgombero delle macerie. Lo scopo voluto da Tito cominciava a realizzarsi con l’abbandono di Zara da parte dei suoi abitanti. Lo stesso criterio dell’intimidazione fu usato a Fiume, lasciando indenne dai bombardamenti la vicina Susak abitata prevalentemente da croati.
Si ebbero in totale su Zara 54 incursioni e circa 4.000 morti (il 20% della popolazione), molti non identificati perché rimasti sotto le case diroccate e la distruzione di circa l’85% del centro abitato: una perdita culturale, storica e artistica irrimediabile.
            Alla fine del 1943 Serrentino inviava un primo rapporto a Mussolini mettendolo al corrente della situazione tragica che viveva la città, dei morti subiti, dei feriti intrasportabili, degli insepolti, degli sfollati, delle difficoltà alimentari e sanitarie, delle asportazioni effettuate dai tedeschi. Il prefetto assicurava il Duce che sarebbe rimasto al suo posto e non avrebbe ceduto alle pressioni esterne; chiedeva solo aiuti e sostegno morale per i zaratini. Mussolini assicurava Serrentino di fare il possibile e mobilitava Coceani a Trieste per aiutare Zara, istituendo una linea aerea fra Venezia-Trieste-Pola-Zara gestita con idrovolanti e personale italiano sotto il controllo tecnico della Marina germanica. Per Ante Pavelic mostrava il meritato disprezzo per il voltafaccia: “…nella miseria non ci sono amici ed i popoli ragionano come gli individui che li compongono” scriveva a Serrentino mentre Coceani organizzava una colonna di aiuti per Zara, intesa a salvare il maggior numero possibile di sfollati nel ritorno, soprattutto i dalmati, rimasti senza alcun sostegno e autorità, angariati dai croati, uccisi dai titini, prelevati e scomparsi nel nulla. Partivano per Zara le navi “Mameli” e “Marco” che mettevano in salvo a Trieste 500 connazionali mentre un altro migliaio affluiva via terra con autocolonne tedesche. Serrentino ringraziava Coceani per l’aiuto fraterno e scriveva: “qui non si capisce più per chi lottiamo e per chi siamo pronti al sacrificio. Se vincono i nostri amici (tedeschi) Zara sarà croata; se vincono i nostri nemici (slavi) Zara sarà jugoslava. Ed allora? Per noi è una tragedia comunque.”
            Si intensificavano su Zara i bombardamenti dal cielo, mentre gli aerei della Croce Rossa che la collegavano venivano sistematicamente incendiati o abbattuti dall’aviazione alleata, rendendo sempre più precari i contatti con la RSI e Trieste. All’opera di distruzione collaboravano incredibilmente anche aeroplani italiani del sud, inseriti nella Balkan Air Force, eseguendo il mitragliamento del motoveliero “Primo” incendiandolo, mentre gli alleati provocavano l’affondamento dell’”Elettra”, il famoso panfilo-laboratorio di Guglielmo Marconi, del piccolo piroscafo “Sansego” e di altri piccoli natanti, che isolavano ancor più le città dall’Italia. In tutto questo sfacelo morale e materiale, i tedeschi lavoravano sistematicamente per spogliare di ogni bene, attrezzature, materiale utile (fra cui suppellettili e masserizie private) Zara e i suoi dintorni, caricando il tutto su grossi Junkers che facevano la spola fra Demonico e la Germania.
            Fra i tanti eventi sconsolanti e squallidi un vecchio sacerdote – Don Giacomo Molenda – Parroco di S. Simeone di Curzola, più volte minacciato di morte dagli slavi croati e dai titini per i suoi sentimenti di italianità, arriva con una barca a Zara, scende con le sue malferme gambe sul molo, s’inginocchia e bacia le bianche pietre di Dalmazia piangendo la sua gioia di morire vicino agli italiani. Morirà alcuni giorni più tardi. Monsignor Munzani, Arcivescovo di Bibigno, e Don Eleuterio Lovrotic parroco di S. Anastasia, accorrono dov’è richiesta la loro opera di sacerdoti; confortano, aiutano moralmente i derelitti, benedicono i morituri, consolano i superstiti. Soprattutto preziosa l’attività pastorale di Don Lovrotic che con un piccolo altarino portatile raggiunge in bicicletta nei luoghi più lontani gli sfollati, celebra la S. Messa, aiuta come può i suoi cristiani mentre le chiese di Zara vengono distrutte una dietro l’altra dalla furia nemica: S. Maria, S. Demetrio, S. Anastasia, la Vergine dell Salute, la Madonna del castello, il battistero e con le chiese i monumenti della città, le sue fabbriche fra cui la Vlahov e la Luxardo famose in tutto il mondo ed orgoglio degli imprenditori zaratini.
            Il presidio tedesco collabora nell’opera di soccorso, ed encomiabili sono i carabinieri del tenente Terranova, i VV.FF del comandante Schitarelli, i militi UNPA del comandante Tornago, i militari della CRI  e l’aiuto sostanziale del colonnello Von Schenen che risolve molti problemi della città.
            Nel mese di maggio 1944, parte del presidio italiano viene sgomberato verso Trieste di scorta a centinaia di esuli, i tedeschi iniziano a minare le infrastrutture portuali, i macchinari, il materiale rotabile mentre la città muore lentamente in una avvilente agonia, distrutta nel suo tessuto morale ed umano, priva di abitanti, semi deserta, paralizzata nelle sue attività ma ancora decisa a non cedere alle avversità, sorretta soltanto dalla volontà.
            Nell’estate rimanevano in città alcune centinaia di sopravvissuti sui 22.000 abitanti iniziali col 90% dell’abitato distrutto. Restavano ai loro posti di responsabilità il prefetto, il podestà, le organizzazioni di soccorso, la CRI, le istituzioni tradizionali (era rientrato nella RSI il comandante Tommaso David chiamato da Mussolini ad un importante e delicato incarico). Ma la tragedia non era ancora conclusa. Un pugno di ardenti patrioti che la storia ci ha consegnato nelle pagine più dolorose del calvario degli italiani di Dalmazia, restavano in città per affermare il loro diritto di cittadini zaratini ed italiani, ad impedire che i croati ne prendessero possesso o i titini la fagocitassero nella loro federativa multietnica. Fra costoro non possiamo non citare i fratelli Luxardo Pietro e Nicolò, titolari della famosa distilleria del Maraschino di Zara. Pietro, presidente dell’opsedale provinciale, fu l’anima dell’opera di soccorso ed assistenza ai degenti, attuò lo sfollamento degli ammalati, riorganizzò i servizi d’emergenza, si adoperò attivamente per identificare i morti nei bombardamenti, e dare un nome alle vittime, un segno di ritrovamento ai parenti.Nicolò, nobile figura di irredentista, pluridecorato al v.m., consigliere nazionale fin dal 1939, prese a cuore le sorti della città tanto amata e dei suoi concittadini, e quando la sua fabbrica venne distrutta liquidò le spettanze ai suoi dipendenti ma rimase come il fratello al suo posto di responsabilità fino al momento in cui assieme alla moglie Bianca Ronzoni venne prelevato dai titini nell’isola di Selve, trasferito sotto scorta in barca all’isola Lunga per essere, si disse, interrogato dai partigiani comunisti. I coniugi Luxardo non giunsero mai all’isola Lunga, poiché durante il tragitto, immobilizzati con funi alle mani e con al collo una grossa corda con un pesante macigno, vennero barbaramente gettati in mare e scomparvero per sempre nell’Adriatico che avevano tanto amato, ancor più per loro e per noi che li piangiamo amarissimo.
            Il 29 settembre 1944 il prefetto Serrentino inviava a Coceani  l’ultimo disperato messaggio: “sono alla disperazione, non ho viveri, non ho denaro”. Mussolini interveniva facendo pervenire in aereo una notevole somma di danaro per le più importanti necessità e si adoperava per far sgomberare gli ultimi italiani dalla città e circondario, ancora sino agli ultimi giorni di combattimenti di fine ottobre, quando un C.T. tedesco rimpatrierà per ordine del Duce il prefetto che delegava come suo rappresentante il vice prefetto dr. Fiengo per tutelare i circa 10.000 connazionali che restavano nella zona. Col Fiengo rimanevano il commissario del PFR Alacevich, il ten. Terranova, il podestà dr. Luxardo.
            Poche decine di carabinieri, finanzieri e guardie di P.S. rimasero a Zara fino al 1° novembre, allorché i tedeschi abbandonarono nella notte la città portandosi verso Obrovac, Gospic, Karlobag preceduti dai croati di Pavelic in ritirata. Subito dopo i carabinieri prendevano sotto controllo la città che nella mattina del 2 novembre – triste anniversario – veniva occupata dai titini e subiva per la prima volta nella sua storia l’oltraggio di essere calpestata dagli slavi. Sui campanili smozzicati di S. Simeone e S. Anastasia e su altre case sventolavano ancora le ultime bandiere italiane a testimoniare per sempre l’amore dei zaratini per la Patria lontana e perduta. Fu un momento di grande commozione per i pochi superstiti che assistettero piangendo alla cerimonia. Subito dopo arrivarono i partigiani titini della 19° brigata dalmata, che con la minaccia delle armi strapparono le bandiere dalle chiese, dalle case, dalle distrutte caserme, uccidendo all’istante il coraggioso tenente Terranova che aveva personalmente issato sulla chiesa il tricolore d’Italia, cominciarono la caccia all’italiano con l’arresto di centinaia di connazionali colpevoli soltanto di sentirsi italiani. Gli autori degli arresti e delle delazioni furono Drazevje e Joko Modric del Grandski Narodni Odbor, colpevoli della deportazione e della morte di almeno 900zaratini.
            Il 10 novembre il tribunale del VII Corpus dell’EPLJ condannò sbrigativamente ed illegalmente alla pena di morte 29 zaratini e due giorni più tardi fu fucilato Pietro Luxardo, prelevato dal carcere della caserma “Vittorio Emanuele”. I titini inscenarono una ignobile farsa citandolo “in giudizio” il 22 novembre 1945, ben sapendo di averlo ucciso esattamente un anno prima, e lo condannarono all’impiccagione in contumacia. Anche Monsignor Munzani venne imprigionato, confinato a Lagosta, accusato more solito di “fascismo” e detenuto per oltre 6 mesi.
            L’eroico prefetto Vincenzo Serrentino venne catturato a Trieste dai titini nel maggio 1945, deportato, imprigionato, processato e condannato a morte nel 1947, anno in cui venne ucciso a Selenico. Con lui furono eliminati altri componenti del comitato di assistenza per i profughi dalmati e zaratini guidato dal senatore Antonio Sacconi, che per lunghi mesi aveva svolto a Trieste una encomiabile opera di soccorso.
            Un altro oltraggio a Zara venne perpetrato dai nuovi barbari con la distruzione insensata delle lapidi e delle targhe marmoree romane, veneziane, italiche; con lo scalpellamento dei leoni di S. Marco, l’incendio delle biblioteche italiane, con manoscritti preziosi e documenti storici, nel tentativo di sradicare la cultura e la storia della gloriosa città adriatica.
            Oggi Zara vive simbolicamente col suo “libero comune in esilio” in Italia; vive col ricordo dei suoi santi e dei suoi martiri e noi viviamo con questi nostri sventurati fratelli la loro sofferenza e la loro nostalgia, mentre nubi fosche si addensano ancora sulla perduta città e mettono nuovamente in pericolo il restante patrimonio artistico e culturale, testimonianza della presenza di Roma e dell’Italia. Intanto gli slavi hanno deciso di uccidersi ancora fra loro. Come sempre.
Articolo tratto da STORIA VERITA’ anno IIn. 7 luglio-agosto 1992
            

                                                                                                                                                      

mercoledì 25 gennaio 2017

CASA DEI RICORDI

Benito Mussolini
Nasce a Dovia di Predappio il 29 Luglio 1883 e muore a Giulino di Mezzegra il 28 Aprile 1945


Nel 1909 si accompagnò con Rachele Guidi che gia abitava a Villa Carpena, nel 1910 dalla loro unione nacque la prima figlia Edda, nel 1916 Vittorio, nel 1918 Bruno,  nel 1927  Romano e nel 1929 Anna Maria.

Nel 1915 Benito e Rachele si unirono in matrimonio civile, mentre nel 1925 celebrarono il rito religioso.



Breve storia politica
Il suo nome è strettamente legato alle vicende storiche italiane del periodo intercorrente dagli anni appena precedenti la prima guerra mondiale fino a quelli della fine della seconda guerra mondiale. Nato da un fabbro, Alessandro, e da una insegnante elementare Rosa Maltoni, 
il 29 Luglio 1883 a Dovia di Predappio, assorbì dall'ambiente della terra romagnola quei fermenti progressisti e rivoluzionari derivanti dalle teorie socialiste di emancipazione proletaria che si andavano allora diffondendo, e se ne fece fin dall'adolescenza, ardente propugnatore. Divenuto a sua volta maestro  elementare, fu costretto dopo breve tempo ad emigrare in Svizzera (1902), perché ritenuto in patria elemento indesiderabile, e a dedicarsi all'umile mestiere del muratore, aiutato da quelle cooperative operaie. Espulso dalla Svizzera per le sue accese manifestazioni agitatorie, passò nel Trentino, allora austriaco, dove diede inizio all'attività di giornalista (1909) e di attivista politico al servizio del Partito Socialista.  Rientrato in Italia nel 1910, fu nominato nel 1912 direttore del quotidiano Avanti!, quale esponente della frazione più estremista di quel partito. Conformemente alle sue idee, allo scoppio della prima guerra mondiale,Mussolini si mostrò neutralista: per questo destò generale stupore il suo repentino mutamento di indirizzo quando, il 20ottobre 1914, lasciò la direzione dell'Avanti! per fondare un mese dopo l'interventista e ultranazionalista Il Popolo d'Italia. In una memorabile seduta della Sezione socialista di Milano, chiamato a giustificarsi di questa sua conversione e, soprattutto, dell'accusa di aver ceduto tutto il proprio corredo ideologico in cambio della possibilità di una fama gloriosa in quel mondo borghese da lui tanto disprezzato, non seppe opporre che frasi evasive, alle quali la sua innegabile efficacia oratoria, che gli aveva arriso in tante e varie circostanze, non seppe, in quella occasione, attribuire alcuna garanzia di credibilità e, di conseguenza, venne radiato dal partito (23 novembre 1914). 


E' questo un punto tuttora oscuro della vita di Mussolini, che neppure gli apologisti del regime tentarono troppo di approfondire. Se si considera la conversione mussoliniana alla luce di quella che fu poi la sua susseguente esistenza, si potrebbe comunque avanzare l'ipotesi che l'uomo, privo di sicure convinzioni politiche ed etiche, si fosse anche allora rivolto al mezzo più immediato e sicuro al fine di potersi aprire una via verso quel potere da lui tanto ardentemente agognato e perseguito subordinando a quella ogni decisione circa i propri programmi futuri. Certo è che, a questo scopo, tale atteggiamento di salvatore della patria avanti lettera - assecondato dal compiacimento della classe dirigente industriale e capitalista, la quale, a parte la sacrosanta causa della prima guerra mondiale, mirabilmente sintetizzata dal motto turatiano "l'Italia è sul Grappa!", vedeva nel conflitto un Ottimo affare - ebbe a giovargli enormemente per l'avvenire, quando l'ardente interventista, il caporale dei bersaglieri, salutato dal re in persona al suo letto d'ospedale, dove era stato ricoverato per le ferite riportate durante una esercitazione in zona di operazioni, iniziò la creazione di quel mito di indispensabilità della sua figura politica che tanta parte doveva avere in seguito nella storia italiana dal 1919, data della fondazione dei "fasci di combattimento", fino al 1945.


Ritratto di Benito Mussolini (interno Villa Carpena)

Divenuto deputato al Parlamento con le elezioni del 1921, Mussolini si avvicinò maggiormente alla monarchia (mentre il suo programma originario era di fedeltà agli ideali repubblicani) con il discorso di Udine (20 settembre 1922), attuando un mese dopo la pacifica marcia su Roma, che doveva portarlo alla carica di presidente del Consiglio (31 ottobre 1922). Da quel momento egli mirò a consolidare una particolare forma di dittatura personale che valse al "duce del fascismo", innegabilmente, anche autorevoli simpatie straniere. Il suo spirito di adattamento, la sua tempestività nell'approfittare delle occasioni favorevoli, la sua indubbia capacità organizzativa ebbero presto buon gioco sulla marea di mediocrità di un Parlamento sconnesso e indeciso, tanto da consentirgli di superare momenti piuttosto gravi, come quello dell'uccisione di Matteotti, la responsabilità morale della quale gli venne attribuita. Egli stesso, riprendendo quota dopo quel fatto, che costituì certamente il punto più critico della nascente potenza mussoliniana, nel famoso discorso parlamentare del 3 gennaio 1925, ebbe a dichiarare apertamente di volersi assumere lui solo "la responsabilità politica, morale, storica di quanto era accaduto". Mentre procedeva sempre più rapidamente al mutamento delle caratteristiche costituzionali della nazione, l'ambizione di identificarsi totalitariamente con la patria stessa, lo induceva a raggiungere un numero di cariche quale forse mai al mondo alcun altro uomo politico aveva avuto: presidente del Gran consiglio del fascismo, presidente del Consiglio nazionale delle Corporazioni, comandante generale della Milizia, collare dell'Annunziata (e pertanto "cugino del re"), capo del governo con prerogative speciali e titolare al tempo stesso di ministeri, che arrivarono fino al numero di otto (Interno, Esteri, Colonie, Guerra, Marina, Aeronautica, Lavori Pubblici, Corporazioni), il tutto adornato da un tripudio di alamari e divise appariscenti, che trasformavano ogni cerimonia in altrettante parate di fasto spagnolesco. 

In politica estera, piuttosto prudente agli inizi, si abbandonò poi a qualche intemperanza nei riguardi di altri grandi stati, in nome di un nazionalismo in parte anche giustificato dall'ingiusto trattamento riservato all'Italia dagli Alleati dopo la prima guerra mondiale. Intanto, dalla polemica con la Società delle nazioni, culminata con il nostro ritiro dalla stessa, Mussolini, per quanto pacifista nei propositi pubblici, sembrò essere a poco a poco posseduto dall'idea che soltanto da una guerra vittoriosa, magari combattuta a buon mercato, potesse occorrergli quel margine di gloria che ancora gli mancava per attingere quelle mete imperiali capaci di far risorgere i fastigi di una superficiale e impossibile romanità. Egli stesso dirà in un discorso di considerare "la pace perpetua come una catastrofe per la civiltà umana". Dal rafforzarsi in lui di questa volontà di riscatto nazionale mediante una politica di dominio - incoraggiata ad un tempo dal servilismo ingenuo dei suoi gregari e dal delittuoso osanna di quanti lo spingevano su quella strada con la certezza di perderlo per liberarsene - si può dire in Sostanza sia cominciata la parabola discendente mussoliniana. La sfida all'Inghilterra ed alla Società delle nazioni nel 1935, la sua apoteosi di "fondatore dell'Impero" e di primo maresciallo (30 marzo 1938), il triste avvicinamento alla Germania hitleriana, e, infine, il comando supremo delle truppe operanti su tutti i fronti (11 giugno 1940) assunto all'inizio della seconda guerra mondiale, non sono infatti che apparenti successi di un uomo ormai privo di misura e abbandonato da quell'intuito che spesso lo aveva soccorso al tempo dei suoi primordi burrascosi.

E cominciarono così le tappe dolorose: le gravi vicende della guerra, in Grecia (1941) e poi in Egitto (1942), i discorsi tanto più deludenti quanto più disperatamente ottimisti, come quello del "in primavera verrà il bello e verrà in ognuno dei quattro punti cardinali" (23 febbraio 1941) e del proposito di stendere sul "bagnasciuga" i nemici che avessero osato porre il piede sul suolo d'Italia (24 giugno 1943); il voto contrario del Gran consiglio (25 luglio 1943); il suo arresto ordinato dal re Vittorio Emanuele III; la breve prigionia a Roma, a Ponza, alla Maddalena, al Gran Sasso; la sua liberazione audacemente conclusa da Hitler il 12 settembre 1943, che lo volle libero per usarlo ai suoi finì, quale effimero reggitore della Repubblica Sociale Italiana (29 settembre 1943 - 25 aprile 1945), che tanta nefasta influenza esercitò fra gli Italiani divisi in dolorosa guerra civile; la Cattura a Dongo da parte degli insorti e la fucilazione di Giulino di Mezzegra (28 Aprile 1945) insieme a Clara Petacci - una figura femminile grata fino alla morte del favore del dittatore - costituirono il suo calvario.

I suoi scritti giornalistici e i suoi discorsi sono raccolti in diversi volumi, che restano di vivo interesse storico...

:.:.:.:

Ripassiamo la Storia per

NON DIMENTICARE MAI



L'avevamo già fatto su "La Vedetta" di un paio d'anni fa, ma visto che ancora oggi qualche sprovveduto si meraviglia delle nostre posizioni in difesa dello Stato Sociale, rifacciamo l'elenco delle

PRINCIPALI LEGGI SOCIALI E DELLE PRINCIPALI

OPERE DEL FASCISMO:



1923 Assicurazione invalidità e vecchiaia -

1923 Assicurazione contro la disoccupazione 

1923Assistenza ospedaliera ai poveri

1923 Tutela del lavoro di donne e fanciulli

1923 Riforma della Scuola (Riforma "Gentile")

1925 Opera Nazionale Maternità e Infanzia (OMNI)

1927 Assistenza illegittimi e abbandonati o esposti.

1928 Assicurazione obbligatoria contro la TBC

1928 Esenzione tributaria per le famiglie numerose

1928 Assicurazione obbligatoria malattie professionali.

1929 Opera Nazionale Orfani di guerra

1933 Istituto Nazionale Infortuni sul lavoro (INAIL)

1935 Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale (INPS)

1937 Settimana lavorativa di 40 ore (prima di 48 e oltre)

1937 Ente Comunale di Assistenza (ECA)

1937 Assegni familiari

1937 Casse rurali ed Artigiane

1943 Istituto Naz. Ass. malattia ai lavoratori (INAM)

1944 Socializzazione delle Imprese.

Dal 1933 al 1939 grandi bonifiche aree paludose Pontine, Emilia, Sardegna, Bassa Padana, Coltano, Maremma Toscana, Sele, appoderamento del latifondo siciliano e fondazione delle città di Littoria (oggi Latina), Sabaudia, Aprilia, Pomezia, Guidonia, Carbonia, Fertilia, Segezia, Alberese, Mussolina (oggi Alborea), Tirrenia, Tor Viscosa, Arsia e Pozzo Littorio e di 64 borghi rurali.

Acquedotti Pugliese, del Monferrato, del Perugino, del Nìsseno e dei Velletrano.

Parchi nazionali del Gran Paradiso, dello Stelvio, dell'Abruzzo e dei Circeo.

Istituto Nazionale Case popolari.

Istituto Nazionale Case impiegati Statali (INCIS). Opera Nazionale Dopolavoro.

Colonie marine e montane per i fanciulli.

Centrali idroelettriche ed elettrificazione linee Ferroviarie.



Tutto quanto sopra fu realizzato dal Fascismo per gli italiani, grazie alla ferma volontà di Benito Mussolini, in meno di vent'anni di potere, dei quali sei di guerra e due (1929 e 1930) della più spaventosa crisi economica mondiale,'senza gli aiuti di nessuna Nazione ed anzi contro il sabotaggio e le sanzioni della nemica Inghilterra a capo della cordata delle democrazie plutocratiche dei capitalismo mondiale.

                                                                                                                                                                                                                    

(da "Italia Volontaria")

© CASA DEI RICORDI webmaster Marco Faltoni Time Studio apertura tutti i giorni dalle 9,00 alle 12,00 - 14,00 - 18-00 incluso festivi - ingresso € 10,00 a persona, visite di gruppo € 8,00 - Via Crocetta, 24 Carpena (Forlì) Tel Fax:.0543-89507 Tel.333-3052908 Gsm.338-6641364 e-mail

                                                                                                                                                                

domenica 22 gennaio 2017

La Turchia non è Europa


 

La Turchia non è Europa

“Mamma, li turchi…” gridavano gli abitanti delle zone rivierasche della Sicilia e dell’Italia meridionale quando – nel ’400 e’500 dello scorso millennio – le nostre coste erano sovente visitate dai pirati “barbareschi”. Era un grido di terrore, perché gli scorridori erano soliti abbandonarsi ad ogni bassezza: distruggevano, incendiavano, uccidevano, torturavano, violentavano e, alla fine, si portavano dietro i sopravvissuti, per venderli poi ai mercati degli schiavi di Algeri, di Tunisi, di Tripoli. Naturalmente, i pirati non appartenevano ai ranghi ufficiali dell’Impero Ottomano. Erano – se così posso dire – dei “privati” provenienti dalle colonie turche del Nordafrica, che sbarcavano il lunario come meglio potevano. Fatto sta – comunque – che il fenomeno delle scorrerie “moresche” incominciò a scemare dal 1571, quando a Lepanto le navi della Lega Santa (formata dagli Stati preunitari italiani) infersero un colpo durissimo alla flotta da guerra ottomana. In forma attenuata, comunque, la cosa andò avanti ancòra per un bel pezzo, fino ai primi decenni dell’800, quando ebbe inizio il lento ritiro turco dall’Europa Orientale. E qui mi fermo, prima di essere trascinato nel gorgo delle rievocazioni storiche: dalle spedizioni anti-pirati del comandante trapanese Francesco Tedesco (1794), fino alla rivolta popolare di Palermo contro la missione di propaganda della flotta turca (1799). Perché questa lunga premessa di carattere storico? Semplicemente per ricordare – nel momento in cui si celebra l’accordo “storico” per i migranti fra la Turchia e l’UE – che la Turchia non appartiene all’Europa, e che – anzi – è storicamente nemica dell’Europa. Con una sola parentesi: quella del governo illuminato del dittatore laico Kemal Atatürk, che voleva europeizzare la Turchia liberandola dal retaggio dell’islamismo. Morto Atatürk (1938), la Turchia ha iniziato a scivolare lentamente verso una restaurazione islamica, passo dopo passo, fino a raggiungere l’apice in questi ultimi anni con il governo del fondamentalista musulmano (ancorché “moderato”) Recep Erdoğan. In ogni caso – ricordo a chi ha dimenticato la storia – basterebbe una ripassatina di geografia: uno sguardo ad una qualunque carta geografica mostrerà agli immemori che la Turchia fa parte dell’Asia e non dell’Europa. Vero è che occupa ancòra un lembo di territorio europeo (Costantinopoli e un pezzettino di Tracia orientale) ma, con ogni evidenza, ciò è soltanto il rimasuglio di un Risorgimento balcanico non portato alle sue ultime e logiche conclusioni. Veniamo, dunque, all’accordo “storico”. Cosa prevede? Innanzitutto, una barca di quattrini: 3 miliardi di euro sùbito, più altri 3 in arrivo, che l’Unione verserà al governo di Ankara nel presupposto che le somme vengano utilizzate per assistere i profughi. Ma allora – mi permetto di obiettare – invece di riempire di soldi il dispotico governo di Erdoğan, perché non versare la somma all’organizzazione dell’ONU che assiste profughi e rifugiati (l’UNHCR) in tutto il mondo? Andiamo avanti. La Turchia si riprenderà un numero X di immigrati irregolari sbarcati in Grecia. Ma – attenzione – per ogni immigrato irregolare espulso dal territorio europeo, l’UE sarà obbligata ad accogliere un immigrato che, agli occhi del governo turco, sarà considerato regolare. Quindi, l’accordo “storico” non toglierebbe un solo immigrato dal territorio europeo. Solamente un avvicendamento, alla pari. Ma questo sarebbe già un risultato eccezionale, perché il medesimo accordo – sempre più “storico” – prevede l’abolizione dei visti per i cittadini turchi che vogliano “viaggiare” nell’Unione Europea. Tradotto dall’ipocrisia del linguaggio diplomatico, ciò significa il completo spalancamento delle frontiere europee ai migranti turchi, che dal prossimo 30 giugno potranno invadere legalmente l’Europa, da perfetti “regolari”. Quanti abitanti ha la Turchia? Circa 80 milioni. Senza contare i “turcofoni”, cioè coloro che parlano una lingua di ceppo turco pur abitando in uno Stato diverso, e che possono richiedere un passaporto turco: lo ha deciso Erdoğan, per motivi che sarebbe difficile sintetizzare in poche righe. Quindi, per “permutare” poche migliaia di profughi accampati fra un confine e l’altro dei Balcani, apriremo le porte a 80 milioni di turchi, più gli eventuali turcofoni. Bell’affare davvero. Ma non è finita qui, perché lo storicissimo accordo prevede anche (punto 8° del trattato) che venga rilanciato il “processo di adesione” della Turchia all’Unione Europea. Siamo alla follìa. Perché, allora, non portare in Europa anche il Califfato? Si farebbe prima, e si eviterebbero anche tante piccole ipocrisie. Non c’è che dire. Si tratta di un evento storico: mezzo millennio dopo la Battaglia di Lepanto, la Turchia ha sconfitto l’Europa intera. E senza sparare un solo colpo di cannone.


Autore: Michele Rallo
 
                                                                                                                                                            

giovedì 19 gennaio 2017

ALLEGRIA DI "NAUFRAGHI"

ALLEGRIA DI NAUFRAGHI



le proteste dei  migranti presso i centri di accoglienza...

E così gli invasori alzano la posta.

Dopo aver ottenuto quello che chiedevano, si sono resi perfettamente conto che possono chiedere ancora di più e se non viene loro dato, hanno la forza per pretenderlo.

 Con le buone o con le cattive. Il problema è però che mai nessun invasore ha chiesto con le buone e loro per quale ragione dovrebbero rappresentare un’eccezione?

Infatti pretendono con la forza, sfasciando i centri di accoglienza, occupando le strade e intimorendo gli italiani. I quali italiani, anzi, italioti, invece di ribattere colpo su colpo, se ne stanno chiusi in casa sperando che i disordini si sviluppino magari in un quartiere che non sia il loro.

 Questa mentalità gretta ed egoista è la nostra dannazione e sarà la causa della nostra fine.

E sti italioti senza spina dorsale, sono oltretutto pronti a criticare coloro che fanaticamente sono pronti alla lotta, credendo che tutto si aggiusti con “leggi democratiche”, come se gli invasori fossero disposti ad abbassare la testa perché una legge glielo impone!

Dunque i responsabili di questo sfascio sono certamente i milioni di allogeni che hanno occupato il nostro territorio, ma ancora più responsabili sono i perbenisti, i moderati, sono quelli che “Oh, guai ad essere estremisti o fanatici”, quelli che pensano solo a se stessi e non alle generazioni future, quelli che guardando il proprio ombelico credono d’aver visto il mondo, quelli che ammettono il sacrificio solo se finalizzato ad un aumento di stipendio.

Vittime di un deviato concetto di accoglienza che, per sentirsi orgogliosi di dare ricetto a centinaia di migliaia di delinquenti parassiti dell’ Africa Nera, pregiudicano il futuro dei propri figli e dei propri connazionali, facendo collassare una nazione nel degrado più totale e privandola anche della sua identità biologica, culturale, storica e religiosa.

Il Vangelo insegna ad amare come se stessi  il prossimo, mica il lontano !

Ci impongono a piegarci  ad una ottica distorta ed invertita della carità cristiana, dove l’ africano, violento e semi-cannibale   , diventa il prossimo – da accogliere ed accudire assecondando i suoi vizi - a spese del  proprio  connazionale , che diventa così lontano da essere dimenticato e  può anche morire di stenti e di freddo sotto un ponte e su una strada.

Distrofia della vista, del cuore e della morale.

Questa non è mentalità misericordiosa, ma è patologia senza rimedio.

E intanto, piano piano, senza nemmeno accorgersene, gli italioti infilano la testa nel cappio che i vari Soros e  le loro fiumane di delinquenti africani e islamici saranno ben lieti di stringere, quando sarà giunto il momento opportuno.

Allegria di naufraghi.

Naufraghi che sono gli Italiani, mica le orde di migranti coccolati dalla Marina Militare Italiana : loro una casa la stanno trovando : la nostra. E noi la perdiamo : grazie all’ Italia e al sistema equitaliota.

Observer