martedì 26 dicembre 2017

AUGURI!

AUGURI!
Anche il 2017 sta per terminare.     ancora..!!
A tutti i camerati che negli
anni hanno seguito questa
modesta pubblicazione e
che hanno cosí condiviso
le analisi e le critiche che
abbiamo espresso verso il
potere per mantenere viva
la fiamma dei nostri ideali,
facciamo gli auguri di
BUONE FESTE, passate
in famiglia, e di buona
fortuna personale.
Il nostro tesoro è il cameratismo
che vuole dire condividere
ideali e battaglie,
passione e dedizione, speranze
e certezze..!
In nome di questo cameratismo
vi rinnoviamo i piừ
sinceri e cordiali auguri, a 



voi ed alle vostre famiglie.
Buon anno e buon solsti
zio d’inverno..!!

Un anno come gli altri trascorsi
in questa repubblica,
nata dalla resistenza,
con questi politici indaffarati
solamente a farsi gli affaracci
propri senza curarsi
delle esigenze e dei problemi
dei cittadini..!!
Per noi, che apparteniamo
ad un’altra impostazione
ideologica, e che abbimo il
ricordo di un’altra Italia
dove chi rubava non era                                                        

un “furbo”, ma un ladro,
dove Patria, onore,
dovere, coerenza non
erano parole prive di
significato reale, ma lo
scheletro etico su cui si
basava la vita deilla gran
parte dei cittadini, il dovere
vivere in questa repubblica
degli scandali,
delle, menzogne storiche,
degli opportrunismi cinici,
è una continua sofferenza
mista a disgusto.
Ci sorregge e ci dá forza la
nostra fede in un ideale
politco e civile che
sappiamo non essere a
portata di mano, ma per il
quale non cesseremo mai
di combattere, certi che
anche dopo la notte piừ
buia, il sole sorgerá


ALESSANDRO MEZZANO 

                                                                                                                                            

martedì 19 dicembre 2017

COME L´ECONOMIA DI GUERRA USA PROVOCO´ L´ATTACCO GIAPPONESE


STORIA


Come l'economia di guerra USA provocò l'attacco giapponese

di Robert Higgs

Molte persone vengono ingannate dalle formalità. Per esempio, suppongono che gli Stati Uniti entrarono in guerra contro Germania e Giappone solo dopo che queste nazioni dichiararono loro guerra nel dicembre del 1941. In realtà, gli Stati Uniti erano in guerra molto prima di questa dichiarazione, una guerra con diverse forme.
Ad esempio, la marina militare americana aveva l'ordine di "sparare a vista" ai convogli [tedeschi] – a volte anche contro navi britanniche – nell'Atlantico del Nord, nel tratto dove passavano le spedizioni dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, anche se gli U-boat tedeschi avevano l'ordine di astenersi (e si astennero) dal cominciare attacchi contro le spedizioni statunitensi. USA e Gran Bretagna avevano accordi di intelligence, sviluppavano assieme armamenti, facevano test militari combinati e altre forme di cooperazione militare.

L'esercito statunitense cooperava attivamente con l'esercito britannico nelle operazioni di combattimento contro i tedeschi, ad esempio, quando avvistava i sottomarini tedeschi allertava la marina inglese così poi gli inglesi attaccavano. Il governo degli Stati Uniti si impegnò in molti modi per fornire assistenza militare ad inglesi, francesi, e sovietici che stavano combattendo i tedeschi. Il governo americano fornì armamenti ed assistenza, tra cui aerei e piloti, anche ai cinesi che erano in guerra con il Giappone. L'esercito americano si impegnò attivamente nel pianificare assieme agli inglesi, ai paesi del Commonwealth Britannico e alle Indie Orientali Olandesi future operazioni militari contro il Giappone. Molto importante fu il fatto che il governo americano si impegnò in una guerra economica, con misure sempre più stringenti, che portò il Giappone in una situazione molto difficile, che le autorità statunitensi ben compresero, li spinsero ad attaccare territori statunitensi e li forzarono a cercare di assicurarsi quelle materie prime essenziali nel Pacifico sulle quali americani, inglesi e olandesi (governo in esilio) avevano posto l'embargo.

Roosevelt aveva già portato gli Stati Uniti in guerra contro la Germania nella primavera del 1941 – una guerra su scala minore. Da allora aumentò via via la partecipazione militare statunitense. l'attacco giapponese del 7 dicembre gli permise di aumentare notevolmente la partecipazione ed ottenere una dichiarazione di guerra. Pearl Harbor viene rappresentata come la fine di una catena di eventi, con il contributo americano che riflette una strategia formulata dopo la caduta della Francia... Agli occhi di Roosevelt e dei suoi consiglieri le misure prese ad inizio 1941 giustificarono la dichiarazione di guerra tedesca contro gli Stati Uniti – una dichiarazione che non arrivò con disappunto... Roosevelt disse al suo ambasciatore in Francia, William Bullitt, che gli Stati Uniti sarebbero sicuramente entrati in guerra contro la Germania, ma dovevano aspettare un "incidente", e che era "fiducioso che la Germania ce lo avrebbe dato"... Stabilire una testimonianza in cui il nemico avesse sparato per primo era la tattica perseguita Roosevelt... [Alla fine] pare abbia concluso – correttamente, come poi risulterà – che sarebbe stato più facile provocare un attacco giapponese che uno tedesco.

L'affermazione che il Giappone attaccò gli Stati Uniti senza nessuna provocazione fu... tipica retorica. Funzionò perché il pubblico non sapeva che l'amministrazione aveva previsto che il Giappone avrebbe risposto con azioni militari alle misure anti-giapponesi prese nel luglio del 1941... Prevedendo la sconfitta in una guerra contro gli Stati Uniti – e in maniera disastrosa – i leader giapponesi provarono disperati negoziati. Su questo punto molti storici sono da tempo concordi. Nel frattempo, sono venute fuori le prove che Roosevelt e Hull avevano costantemente rifiutato ogni negoziato.... il Giappone... offrì compromessi e concessioni che gli Stati Uniti contrastavano con crescenti richieste... Fu dopo aver appreso della decisione che giapponesi sarebbero entrati in guerra contro gli Stati Uniti nel caso i negoziati si sarebbero "guastati" che Roosevelt decise di interromperli... Secondo il procuratore generale Francis Biddle, Roosevelt auspicava un "incidente" nel Pacifico per portare gli Stati Uniti nella guerra europea.

Questi fatti come numerosi altri che puntano nella stessa direzione non sono nulla di nuovo; molti di questi sono disponibili al pubblico già dagli anni '40. Fin dal 1953, chiunque abbia letto una raccolta di saggi molto documentati sui vari aspetti della politica estera degli Stati Uniti alla fine degli anni '30 e inizio '40, pubblicati da Harry Elmer Barnes, che mostravano i molti modi in cui il governo degli Stati Uniti sostenne la responsabilità dell'eventuale ingresso del paese nella Seconda Guerra Mondiale – mostravano, in breve, che l'amministrazione Roosevelt voleva portare il paese in guerra e di come lavorò d' astuzia su vari sentieri per arrivarci, prima o poi sarebbe entrato in guerra, preferibilmente in modo da riunire l'opinione pubblica nel sostenere la guerra facendo sembrare gli Stati Uniti una vittima di un’ aggressione senza provocazione. Come testimoniò il Segretario di Guerra Henry Stimson dopo il conflitto, "avevamo bisogno che i giapponesi facessero il primo passo."

Al momento, comunque, 70 anni dopo questi eventi, probabilmente non c' è un americano su 1000, anzi 10000, che abbia una vaga idea di questa storia. La fazione pro-Roosevelt, pro-americani, pro-Seconda Guerra Mondiale è stata così efficace che in questo paese l'insegnamento e la scrittura popolare sono totalmente dominati dalla visione che gli Stati Uniti si siano impegnati in una "Guerra Buona".

Alla fine del XIX secolo l'economia giapponese iniziò una rapida crescita ed industrializzazione. Dal momento che il Giappone ha poche risorse naturali, molte delle sue industrie in rapida crescita dovevano fare affidamento sulle importazioni di materie prime, come carbone, ferro, acciaio, stagno, rame, bauxite, gomma, e petrolio. Senza un accesso a queste importazioni, molte delle quali provenienti dagli Stati Uniti o dalle colonie europee del Sudest Asiatico, l'industria giapponese si sarebbe arrestata. Tuttavia, impegnandosi nel commercio internazionale, nel 1941 i giapponesi avevano costruito un' economia industriale piuttosto avanzata.

Allo stesso tempo, costruirono un complesso militare industriale per supportare una marina ed un esercito sempre più potente. Queste forze armate permettevano al Giappone di proiettare il suo potere in diverse zone del Pacifico e dell'Asia Orientale, comprendendo la Corea e il nord della Cina, proprio come gli Stati Uniti che usarono la loro industria in espansione per la realizzazione di armamenti che proiettarono il dominio statunitense nei Caraibi, America Latina, ed anche in paesi lontani come le Filippine.

Quando nel 1933 Franklin D. Roosevelt divenne presidente, il governo degli Stati Uniti cadde sotto il controllo di un uomo a cui non piacevano i giapponesi e nutriva un affetto per i cinesi dato che, hanno ipotizzato alcuni scrittori, i suoi antenati si erano arricchiti con il commercio con la Cina. A Roosevelt non piacevano neanche i tedeschi in generale, e particolarmente Adolf Hitler, e propendeva per favorire gli inglesi nelle relazioni personali e negli affari. Non prestò molta attenzione alla politica estera, finché il suo New Deal non cominciò ad esaurirsi nel 1937. In seguito si affidò molto alla politica estera per soddisfare le sue ambizioni politiche, come il suo desiderio di essere rieletto ad un terzo mandato senza precedenti.

Quando la Germania cominciò il riarmo e la ricerca del Lebnsraum (spazio vitale) in maniera aggressiva, alla fine degli anni '30, l'amministrazione Roosevelt collaborò con Francia e Gran Bretagna per contrastare l'espansione tedesca. Dopo che la Seconda Guerra Mondiale iniziò nel 1939, questa assistenza statunitense crebbe molto, includendo misure come il cosiddetto accordo dei cacciatorpedinieri e il programma dal nome ingannevole Lend-Lease. In previsione dell'ingresso in guerra degli Stati Uniti, il personale militare inglese e americano formulò piani segreti di operazioni congiunte. Le forze americane cercavano di creare un pretesto per giustificare l'ingresso in guerra, cooperando con la marina britannica, attaccando gli U-boat tedeschi nel nord dell'Atlantico, ma Hitler non abboccò all'esca, negando così a Roosevelt il pretesto che voleva gli Stati Uniti a tutti gli effetti un paese belligerante – una belligeranza che trovava l'opposizione della maggioranza degli americani.

Nel giugno 1940, Henty L. Stimson, che aveva servito come Segretario alla Guerra durante il mandato di William Howard Taft e come Segretario di Stato sotto Herbert Hoover, divenne ancora Segretario alla Guerra. Stimson era un leone anglofilo, faceva parte dell'elite del nordest, e non aveva nessuna simpatia per i giapponesi. A supporto della politica delle porte aperte con la Cina, Stimson favorì l'uso di sanzioni economiche per ostacolare l'avanzata giapponese in Asia. Il Segretario del Tesoro Henry Morgenthau e il Segretario dell'Interno Harold Ickes appoggiarono con forza questa politica. Roosevelt sperava che queste sanzioni avrebbero spinto i giapponesi a fare un errore avventato attaccando gli Stati Uniti, trascinando in guerra anche la Germania, dato che Germania e Giappone erano alleati.

L'amministrazione Roosevelt, mentre respingeva seccamente le aperture diplomatiche giapponesi per armonizzare le relazioni, imponeva una serie di sanzioni economiche sempre più stringenti. Nel 1939, gli Stati Uniti conclusero il trattato commerciale con il Giappone del 1911. "Il 2 luglio 1940, Roosevelt firmò l'Export Control Act, che autorizzava il presidente a concedere o negare le esportazioni di materiali di difesa essenziali." In base a tale autorità, "il 31 luglio, le esportazioni di carburante e lubrificanti per motori d' aereo, ferro e acciaio furono ridotte." In seguito, dal 16 ottobre, con una mossa contro il Giappone, Roosevelt decretò l'embargo "di tutte le esportazioni di ferro e acciaio non destinate alla Gran Bretagna e alle nazioni dell'emisfero occidentale." Alla fine, il 26 luglio 1941, Roosevelt "congelò gli asset giapponesi negli Stati Uniti, ponendo fine alle relazioni commerciali con il Giappone. Una settimana dopo Roosevelt vietò le esportazioni dei carburanti che ancora avevano mercato in Giappone." Inglesi e olandesi dalle loro colonie nel sudest asiatico seguirono a ruota, ponendo l'embargo alle esportazioni con il Giappone.

Roosevelt e i suoi collaboratori sapevano che stavano mettendo il Giappone in una posizione insostenibile e che il governo giapponese per tentare di sfuggire alla morsa sarebbe potuto entrare in guerra. Avendo decriptato il codice dei diplomatici giapponesi, i leader americani sapevano, tra le altre cose, che il Ministro degli Esteri Tejiro Toyda aveva comunicato il 31 luglio all'ambasciatore Kichisaburo Nomura che "Le relazioni commerciali ed economiche tra Giappone e paesi terzi, guidati da Inghilterra e Stati Uniti, sono diventate spaventosamente tese da non poter essere più sopportate. Di conseguenza, il nostro Impero, per salvare la sua stessa vita, deve prendere delle misure per assicurarsi le materie prime dei Mari del Sud."

Dato che i crittografi americani avevano decodificato anche i codici della marina giapponese, i leader di Washington sapevano che le "misure" giapponesi includevano un attacco a Pearl Harbor. Ma non diedero queste informazioni ai comandanti nelle Hawaii, che avrebbero potuto fronteggiare l'attacco o almeno prepararsi. Che Roosevelt e i suoi generali non abbiano suonato l'allarme ha perfettamente senso: dopo tutto, l'attacco imminente era quello che cercavano da tempo. Come confidò Stimson nei suoi diari dopo l'incontro del Gabinetto di Guerra del 25 novembre, "La questione era di come avremmo potuto manovrarli [i giapponesi] per farli sparare per primi senza danneggiarci troppo." Dopo l'attacco, Stimson confessò che "il mio primo sentimento fu di sollievo... la crisi era venuta nel modo che avrebbe unito il nostro popolo.
"

Fonte:Come Don Chisciotte 

                                                                                                                                                    

venerdì 15 dicembre 2017

NEL NOME DEL DUCE

L'editoriale di Francesco Storace

NEL NOME DEL DUCE

Telecamere in un luogo sacro, senza nemmeno una parola ai congiunti. La protesta di Alessandra, il silenzio di chi dovrebbe parlare

NEL NOME DEL DUCE 
 
Vergogna Agorà, che profana la cripta di Predappio della famiglia Mussolini. Il clima fomentato da Fiano come da Boldrini spettacolarizza il dolore dai canali della Rai

Arrestateci, processateci, condannateci: ma stavolta scriviamo, protestiamo, ci arrabbiamo nel nome del Duce. Quello che è successo lunedì mattina ad Agora', trasmissione di Raitre che manteniamo noi con il canone, è semplicemente vergognoso. Nel Paese che fa fracasso per un volantino letto all'interno di un'associazione, passa quasi inosservata la necroincursione del cosiddetto servizio pubblico radiotelevisivo all'interno della cripta dove dovrebbero riposare in pace i Mussolini, a Predappio.
Ma è stata Alessandra Mussolini a rompere l'omertà denunciando la sera stessa con un video sui social la raccapricciante trovata di Raitre. E noi stiamo dalla sua parte, perché è inaccettabile assistere all'irruzione delle telecamere, senza nemmeno la delicatezza di avvisare i familiari, nella tomba dove è sepolto Benito Mussolini.
Noi ci siamo stati molte volte, e sempre in punta di piedi, il segno della croce, una firma sul registro visite e un saluto a simboleggiare pietà cristiana e rispetto. Invece, per il nuovo corso Rai, quello che è o dovrebbe essere un luogo sacro, diventa una specie di set per la fiction con cui spettacolarizzare questa specie ridicola di antifascismo di ritorno. I cavi attorno al marmo dove sono sepolti i Mussolini, sulle tombe operatori ripresi - ha notato Alessandra - con i gomiti "come se fossero appoggiati sul bancone del macellaio"; le luci da orientare; e perfino la lettura dei messaggi d'affetto che i visitatori tributano a chi e' salito in cielo.
E' violenza, eccome se è violenza.
Ma tutto questo è figlio di un clima che la sinistra esaspera e la Rai al suo servizio fomenta. In Parlamento - per fortuna solo alla Camera - e' stata approvata una proposta di legge il cui promotore, Emanuele Fiano, e' da indicare come il vero propagandista dell'odio. E madrina ne è Laura Boldrini.
Vorrei vederli, costoro, se una qualunque mattina mi presentassi io al Verano, davanti alla tomba di Togliatti, non con una telecamera di quelle costose della Rai, ma con un semplice iPhone di mia proprietà. Immortalare con immagini di vittime del comunismo il luogo dove e' sepolto quello che loro e non noi chiamavano il Migliore. Quante grida saremmo costretti ad ascoltare? Quanti latrati televisivi? Quanti piagnistei ipocriti sul vilipendio di cadavere?
Non e' piazzale Loreto - che non a caso nessuno di loro ancora si sente di additare come orrore e ludibrio - ma la cultura è la stessa. Mussolini deve essere colpito anche da morto. Solo in Italia può accadere roba del genere. E' pazzesco.
Se la sente il presidente della Repubblica di spendere una parola per questa storia davvero brutta? E il vertice Rai, presidente Maggioni e direttore Orfeo, due righe di scuse alla famiglia Mussolini le manderete?
Fiano sta zitto. Tace. Insieme alla compagna Laura. Forse si vergognano. Pensano che e' meglio sparire per 24 ore, sperando che passi la rabbia. Chi semina odio si illude che il tempo lenisca le ferite. Vi accorgerete da soli che non è così.

    Giornale d´Italia     
 

sabato 9 dicembre 2017

IL GRANDE SATANA

Come verificabile,questa mia riflessione su Trump e Gerusalemme capitale di israele è del 26 settembre 2016..non mi soddisfa il fatto che quanto previsto si stia verificando ma,per rendere più chiaro il tutto, rielaboro il testo adattandolo allo stato attuale delle cose..


http://www.atuttadestra.net/index.php/archives/319992


Concedere ad uno stato (per me e mezzo mondo “canaglia” vista la occupazione della Città Santa militarmente fin dal 1967) che gli Usa riconoscono Gerusalemme come capitale dello stato ebraico, è una arrogante certifificazione del fatto che le armi possono avere la meglio sul diritto internazionale.

Indiscutibile,visto che persino l’Onu (pecorella troppo spesso gregge degli americani) ha sempre condannato sia la occupazione manu militari sia la pretesa di Tel Aviv di farne la capitale ufficiale.

Peraltro mediante una politica attuata con persecuzione etnica ai danni degli arabi abitanti nel settore est fatta di rastrellamenti,arresti continui,espropri e creazione di quartieri ebraici nonché con centinaia di morti sparati a fronte di qualche vittima accoltellata per disperazione…

Personalmente ho sempre ritenuto che,chiunque sieda alla Casa Bianca, altro non possa essere che espressione terrena di quella entità malefica magistralmente definita da Khomeini come “il Grande Satana”…portatore di guerra nel mondo fin dalla sua fondazione e passando anche dalla ferocissima guerra civile interna.

Questo,per fermarsi soltanto alla interpretazione “terrena” del significato, vuol dire semplicemente che gli Stati Uniti hanno “dato” al mondo molti più guai e problemi di quanti vantaggi economici,politici e sociali abbiano ricavato per se stessi …

Interpretazione forzata la mia ? Sicuramente per molti sarà così..ma non per tutti.

Specie nel mondo “globalizzato” l’odio per gli “yankee” dilaga e, ad alimentarlo, non possono certo essere le mie sole opinioni…

Tralasciando tutto il corposissimo resto,ritorno alla promessa mantenuta di Trump…”Gerusalemme capitale di israele” …non credo proprio che,chiunque la abbia valutata, possa ritenerla attuabile se non con la forza delle armi…sioniste ed americane !!

L’Onu non conta nulla,a maggior ragione per Tel Aviv che ha pure le “atomiche abusive”, ma troppi stati e troppe popolazioni non potranno mai accettare un simile sfregio alla ragione ed al diritto internazionale..

Sono arcisicuro che il Grande Satana ha messo in moto un meccanismo che scatenerà un altro inferno da quelle parti (già pesantamente toccate)..si parte pertanto dalla sciagurata decisione di "Gerusalemme capitale di israele" ma,datemi retta,non si sa affatto dove si finirà !!

Speriamo non all'Inferno..

Grazie per l'attenzione
Vincenzo Mannello
 
                                                                                                                                     

lunedì 4 dicembre 2017

TARANTO. La memoria del Campo “S”


 Taranto. La memoria del Campo “S” dove gli inglesi reclusero militari e fascisti

“Il Campo “S” fu espressione della pura volontà di tarpare le ali a quegli uomini che erano pronti a volare di nuovo”: questa la sintesi della ricercatrice Dina Turco su uno dei luogo di detenzione in cui furono reclusi tanti prigionieri non collaboranti con gli occupanti angloamericani. L’incontro sul Campo “S” è stato condotto da Giampaolo Vietri, consigliere comunale di Taranto
L’Associazione Nuova Taranto ha tenuto un incontro per raccontare la storia del Campo di Sant’Andrea, il campo di concentramento di Taranto in cui alla fine del secondo conflitto mondiale furono trattenuti almeno 10.000 uomini in gran proveniente dai combattimenti in Grecia, in Africa Orientale e dalle formazioni della X° MAS. A relazionare sul campo di Sant’Andrea, denominato anche campo “S” o campo della fame, la dott.ssa Dina Turco la quale, oltre ad aver effettuato studi e ricerche, ha raccolto una gran quantità di materiale documentale esposto durante l’iniziativa. Attraverso giornali e corrispondenza dei comandi militari è stato, dunque, raccontato il campo “S” che, sotto il controllo britannico, ha visto il prolungamento della prigionia di quanti non avevano accettato il compromesso della cooperazione e che, per questo, subirono a guerra finita una carcerazione abusiva in condizioni di estrema indigenza.
Il ruolo della Chiesa
Vietri e la Turco
La Turco ha soprattutto evidenziato il ruolo della chiesa tarantina che immediatamente si allertò, grazie al diretto impegno del Monsignor Bernardi, all’epoca vescovo di Taranto, e del suo vicario Don Guglielmo Motolese, per realizzare una straordinaria opera caritatevole in favore dei prigionieri. Tutte le parrocchie della diocesi furono, infatti, impegnate nella raccolta di viveri ed indumenti destinati ai detenuti, materiale che veniva gettato all’interno dei reticolati in cui gli stessi erano stivati. I tarantini dimostrarono grande solidarietà anche quando il 10 aprile del 46 all’interno del campo vi fu la rivolta che fece saltare il controllo armato, dando il via all’esodo oltre il filo spinato. In città vecchia, presso le abitazioni private e le parrocchie, gli evasi trovarono accoglienza per essere rifocillati prima di essere aiutati ad uscire incolumi dalla città per tornare alle proprie terre. Alcuni, però, furono catturati e riaccompagnati al campo S per essere giudicati. Definitivamente smantellato un mese più tardi, restano visibili dello stesso, di fronte a quello che oggi è denominato quartiere Paolo VI, i basamenti in cemento delle dieci baracche che contenevano i reduci.
La principale ragione per cui questi ex combattenti restarono reclusi fu l’avvicinarsi del referendum del 2 giugno del 1946 e, dunque, la volontà del governo italiano di non rimettere in libertà, prima di quella data, quella massa di uomini determinati, per non compromettere il risultato del referendum. La storia del campo S rappresenta uno scorcio di storia sconosciuto in quanto è degli abusi, delle violenze e dei crimini che i vinti dovettero subire per la loro scelta di restare fedeli al fascismo dopo l’armistizio del 43′.

                                                                                                                                                                                                                                               


                                                                                                                                                

mercoledì 29 novembre 2017

Perché il Fascismo fa ancora paura (agli antifascisti..)



Perché il Fascismo fa ancora paura
(agli antifascisti..)

Sono passati 65 anni da quando i più forti eserciti delle più ricche nazioni del mondo ( e certamente non la resistenza dei partigiani italiani ) vinsero la guerra ed abbatterono il Fascismo in Italia eppure pare  che esso sia ancora idealmente vivo e vegeto.
Lo testimoniano non un’illusoria convinzione di parte di chi ha mantenuto intatti quegli ideali senza cedere alle sirene del liberalcapitalismo, ma proprio gli stessi avversari che continuamente danno l’allarme e continuamente usano tutti i vastissimi mezzi di comunicazione che il potere mette a loro disposizione per denigrarlo, infangarlo e diffamarlo anche usando le menzogne più ridicole e più palesemente idiote!
Sembra quasi un grido disperato di chi sta soccombendo di fronte ad una forza della natura che lo assedia e lo minaccia da ogni parte e contro la quale si sente impotente.
Per parte sua il Fascismo non ha né i mezzi di comunicazione di massa, né gli appoggi politici di cui gode l’antifascismo e non riesce, né potrebbe, contrattaccare con un minimo di efficacia la campagna mediatica denigratoria che l’antifascismo conduce a suo danno.
Ma questi elementi danno la chiave di lettura ad un fenomeno sociale e politico di straordinaria rilevanza perché, se la logica ha ancora un senso, il fatto che dopo una guerra persa e dopo 65 anni di persecuzioni e di denigrazioni, il Fascismo preoccupi ancora i suoi avversari per la sua vitalità ha dei significati che trascendono la pura cronaca dei fatti e che invece investono l’oggettività dei valori che il Fascismo propugna e che nessuna campagna denigratoria può eliminare o sminuire.
Ad ulteriore sostegno di questa tesi sta un altro fatto innegabile ed indiscutibile e cioè la realtà anagrafica che fa si che quasi tutti i vecchi fascisti che vissero gli anni del Fascismo siano oramai defunti e perciò i fascisti di oggi sono individui cresciuti dopo la disfatta, nel clima di persecuzione e di calunnie e ciò nonostante hanno aderito a quegli ideali.
Segno inequivocabile che quegli ideali hanno ancora oggi, e nonostante tutto, un’attrattiva che seduce coloro che hanno la forza e l’intelligenza di sapere superare gli stereotipi della propaganda e di esercitare una libera ed indipendente capacità critica personale per raggiungere delle convinzioni che siano frutto del proprio pensiero e non del condizionamento del supermercato delle idee preconfezionate.
Perché Fascismo ha voluto dire e vuole dire tutt’ora, il superamento della lotta di classe ( e dello stesso concetto di classe ) che viene sostituita nel corporativismo dalla sinergia tra le categorie riuscendo a coniugare i concetti di equità sociale e di pace sociale salvaguardando l’individualità di ciascuno in una visione collettiva che si identifica nello Stato Organico ed etico!
Fascismo vuole dire dare preminenza all’uomo ed ai suoi valori spirituali rispetto al denaro ed ai valori materiali che invece dominano la società di oggi senza riuscire a dare, nonostante un’apparente soddisfazione delle necessità materiali che il consumismo procura, un reale appagamento ed una tranquillità interiore.
Sono queste, esigenze dell’animo umano che nessun regime, nessuna ideologia, nessun governo possono soffocare o nascondere troppo a lungo e che, in un modo o nell’altro, rispuntano fuori come necessità vitali ed insopprimibili.
Questo forse è quello che più fa paura agli antifascisti che sono invece gli epigoni del materialismo marxista e liberalcapitalista che sono solo apparentemente diversi, ma che sono concettualmente eguali nell’obbiettivo, uno di accaparrarsi e l’altro di condividere, i beni materiali infischiandosi o addirittura negando i valori spirituali dell’umanità.
Ma anche sul piano dell’equità sociale il confronto non regge se contestualizziamo le condizioni di partenza della società e le conquiste raggiunte.
Durante il Fascismo furono fatte leggi che rivoluzionarono i rapporti tra i lavoratori e le Imprese, tra la società e la famiglia, tra i giovani e la scuola, tra i cittadini ed il diritto alla pensione ed alla salute, tra il territorio e la sua salubrità, tra la proprietà terriera e i contadini e tra i cittadini e la legge.
Alcuni esempi: Parchi nazionali, tutela lavoro donne e fanciulli, assicurazione invalidità e vecchiaia, riforma della scuola Gentile, riforma dei codici, opera dopolavoro, carta del lavoro, libretto del lavoro, INPS. INAM, Bonifiche dell’agro Pontino, Acquedotti Pugliese, del Monferrato e del Perugino, Opera nazionale maternità ed infanzia, Aree industriali, Assegni famigliari, orario di lavoro a 8 ore giornaliere, legge urbanistica, lotta ( vera) alla mafia, case popolari, socializzazione delle imprese, ecc. ecc.
Certamente, per chi riesce a ragionare con la propria testa, risulta difficile sostenere un confronto con quanto poco fatto dal 1945 ad oggi.
A parte un sacco di chiacchiere, il potere dei padroni è aumentato e quello dei lavoratori è diminuito, ogni conquista raggiunta faticosamente con scioperi e sacrifici viene presto vanificata da aumenti del costo della vita e da diminuzione del potere di acquisto, NESSUNA legge significativa ha apportato miglioramenti costanti ai lavoratori né ha spostato i rapporti di lavoro a loro favore, la precarietà sta diventando regola e la disoccupazione giovanile aumenta a causa dell’inettitudine dei governi a difendere gli interessi nazionali in un mondo globalizzato dalla volontà del capitalismo internazionale a realizzare maggiori profitti investendo in Paesi dove non esistono tutele per il lavoro e per la salute, la famiglia sta diventando sempre di più un’entità formale priva di significati e di quei legami che si estrinsecavano in una serie di doveri e di diritti reciproci.
In più assistiamo ad una massiccia complicità tra malavita, mafie e politica che da anni inonda le cronache tanto che l’attuale governo ha voluto una apposita legge per impedire la scoperta e la divulgazione di tanto scandaloso malaffare!
Ed allora si capisce tutta l’acrimonia, tutta la rabbia, tutto l’odio verso un Fascismo che non vuole morire e che anzi rinasce ad ogni persecuzione ad ogni campagna di calunnie, ad ogni menzognero tentativo di falsare la storia.
Non ci fanno paura perché sappiamo con certezza di avere ragione.
Dopo qualsiasi notte, anche la più nera e profonda, alla fine il sole sorgerà di nuovo ..!!

Alessandro Mezzano


sabato 25 novembre 2017

Mussolini NON UCCISE Matteotti

Mussolini NON UCCISE Matteotti e mai ne diede ordine!!! La verità, parla il figlio...

PREMESSA:
I libri di storia recitano più o meno così:Il 6 aprile 1924 si svolsero, in un clima pesante di intimidazioni, le elezioni politiche. In virtù della legge maggioritaria il successo toccò al "listone" fascista. Pur avendo così conseguita la maggioranza parlamentare, il fascismo non si acquietò e non ci fu la tanto attesa (anche da Mussolini) normalizzazione delle squadre fasciste più violente.All'indomani delle elezioni, scomparve il socialista Giacomo Matteotti, che aveva denunciato alla Camera i brogli elettorali e le violenze perpetrate dalle squadre fasciste durante il periodo preelettorale. Egli fu rapito dagli squadristi all'uscita della sua abitazione romana, ed ucciso. Quando si seppe dell'assassinio di Matteotti, un'ondata di commozione invase l'Italia intera e si ripercosse in tutta Europa ripercuotendosi violentemente contro il governo fascista che ne fu investito in pieno.
Il delitto Matteotti è un passaggio cruciale nella storia del Fascismo. Ad esso fanno riferimento gli antifascisti, come simbolo della violenza orchestrata dalle bande fasciste. Mussolini stesso è stato più volte accusato, e lo è tutt'ora, di aver egli organizzato l'attentato al leader socialista.Il Duce prese atto delle polemiche che il fatto suscitò a livello nazionale e fu quello il punto in cui il fascismo rischiò proprio di cadere in conseguenza di quel fatto e della successiva secessione cosidetta dell'Aventino. Mussolini stesso si sobbarcò la responsabilità morale dell'accaduto credendo di non aver saputo dare freno ai più irrequieti fascisti. Il 13 giugno in un discorso alla Camera, disse:
Solo un nemico che da lunghe notti avesse pensato a qualcosa di diabolico contro di me, poteva effettuare questo delitto che ci percuote di orrore e ci strappa grida di indignazione.

LA SVOLTA:

Al di là delle menzogne diffuse dall'esilarante istituto storico della resistenza credo che, per comprendere la vera dinamica di quel fatto di sangue, basti pensare all'intervista che Matteo Matteotti rilasciò, una quindicina di anni fa, a Marcello Staglieno, e che fu pubblicata da "Storia Illustrata".In essa sono contenute affermazioni clamorose. Secondo lui (e non credo che il figlio di un uomo assassinato possa essere accusato di faziosità...) dietro l'omicidio del padre non ci sarebbe stato Mussolini, bensì il re; e all'origine della morte del deputato socialista non ci sarebbero state le tanto decantate denunce delle violenze fasciste (poco significative, aggiungo io, perché le violenze fasciste erano sotto gli occhi di tutti, esattamente come sotto gli occhi di tutti era il fatto che esse nascevano per reazione alle violenze dell'estrema sinistra...), ma ben altro.Giacomo Matteotti, che era un massone d'alto grado, nel 1924 aveva compiuto un viaggio in Inghilterra; qui la loggia "The Unicorn and the Lion" gli aveva comunicato, fornendogli i relativi documenti, che la Sinclair (quella dello "scandalo dei petroli", il cosiddetto "Affare Sinclair", appunto...)era in possesso di due scritture private del re d'Italia.Vittorio Emanuele III. Dalla prima risultava che quest'ultimo era diventato azionista della Sinclair (dal 1921), ma senza pagare un soldo; con la seconda, invece, il monarca italiano si impegnava a tenere nascosti, il più a lungo possibile, i giacimenti petroliferi in Libia. Così, in altre parole, il re ci avrebbe guadagnato, mentre l'Italia avrebbe continuato ad essere strangolata... Matteotti tornò, dunque, con l'intenzione di denunciare questo nobile comportamento del nostro sovrano, senz'altro qualificabile come alto tradimento... Denuncia ben più ghiotta di quella di cui sopra... Il re lo seppe e, temendo lo scandalo (e paventando inoltre, lui e la borghesia industriale, l'ipotesi, formulata da Mussolini, di un possibile governo fascisti/socialisti...), prese, con questo stranissimo delitto eseguito da gasati farinacciani (i quali, chissà perché, fecero di tutto per farsi scoprire...), parecchi piccioni con una fava: sventò il governo a partecipazione socialista, ebbe Mussolini (che, a questo punto, sarebbe stato anche lui una vittima...) in pugno, e potè sottrarre la pericolosissima documentazione che lo inchiodava...Ricordo, infine, che il Duce concesse un vitalizio ai familiari di Matteotti, persone dignitose che mai avrebbero accettato quel denaro se avessero saputo che era stato proprio Mussolini a pronunciare la condanna a morte del loro congiunto...

UN'ALTRA  FALSITA' E' STATA RESA NOTA!!!





 

                                                                                                                                   

mercoledì 22 novembre 2017

LIBANO: Chi di complotto ferisce di complotto...


Libano: Chi di complotto ferisce di complotto...
 
di Dagoberto Husayn Bellucci
 
Che succede a Beirut? Dopo mesi di assoluto silenzio il Libano torna sulle prime pagine della politica mondiale grazie al suo primo ministro, Saad Hariri, responsabile di quanto potrà accadere nel martoriato paese dei cedri.
 
Vediamo di ricapitolare perché, vista dall'esterno, questa ennesima crisi di governo libanese rasenta i limiti della demenza.
 
Lo scorso 4 novembre Hariri in visita ufficiale a Riad, capitale saudita, è intervenuto con una dichiarazione alla tv panaraba «Al Arabiya» con la quale annunciava al mondo le sue dimissioni. É chiaro che il luogo ed il modo utilizzato dal premier libanese per comunicare la sua decisione siano apparsi subito sospetti e, come minimo, strani rispetto alle normali prassi politico-istituzionali dell'intero Vicino Oriente dove i blitz militari, le crisi ed i colpi di Stato si susseguono come prassi comune oramai da settant'anni più o meno come leit-motiv all'ordine del giorno. Se proprio non è prassi sicuramente non è neanche un evento straordinario per un'area tanto instabile e contesa da sempre al centro dei war-games e delle strategie contrapposte della politica mondiale.
 
Ma un primo ministro che in visita ufficiale in un altro paese comunichi così le sue dimissioni ancora non si era mai visto neanche da queste parti.
 
Ora i segnali che qualcosa non quadrasse all'interno dell'esecutivo libanese guidato da Hariri con la partecipazione di Hizb'Allah era chiaro fin dal viaggio italiano dello stesso premier di alcune settimane or sono: le dichiarazioni rilasciate in una intervista al quotidiano romano «La Repubblica» erano inequivocabili. Hariri aveva dichiarato di sentirsi in pericolo, che qualcuno complottava contro la sua vita e - neanche troppo velatamente - aveva puntato l'indice proprio contro il movimento sciita filo-iraniano ed i suoi referenti a Teheran.
 
Considerando il clima ancora piuttosto incandescente nella vicina Siria e nel nord dell'Iraq (dove si continua a combattere le ultime sacche di resistenza dell'autoproclamato «stato islamico») prima di parlare e accusare qualcuno Hariri avrebbe fatto meglio a preoccuparsi delle implicazioni e conseguenze che una simile dichiarazione di ostilità avrebbero causato.
 
Hariri dalla capitale saudita ha parlato di un complotto pilotato dall'Iran contro di lui. 
 
Prove al riguardo non ne ha fornite. Solo chiacchiere. 
 
«Il mio sesto senso mi dice che alcuni mi vogliono morto. - ha dichiarato il premier ad Al Arabiya - C'é un clima molto simile a quello che precedette l'assassinio di mio padre il 14 febbraio 2005. Non permetteremo che il Libano diventi l'innesco dell'insicurezza regionale. Le mani dell'Iran dagli affari del mondo arabo verranno recise»
 
Parole chiare, parole forti. Ma pur sempre parole....perché di fatti nemmeno l'ombra. E non potevano destare maggior insicurezza politica nella capitale libanese e nei quattro angoli del Vicino Oriente se pronunciate dalla capitale saudita dove - come hanno osservato molti giornalisti e addetti ai lavori - Hariri ha pronunciato un discorso che sembrava scritto da altri, senza inflessioni «dialettali», chiamiamole così, libanesi, nell'arabo classico parlato nel Golfo quasi che qualcuno abbia dettato e vergato per lui quanto si voleva che dicesse... Un avvertimento? un monito? Ma per chi? E per cosa soprattutto?
 
Visto che quello che di norma accade in Libano è sempre una spia per le tensioni che si registrano quasi come tsunami nel resto del mondo arabo sarebbe bene prendere sul serio i «moniti» di Hariri senza enfatizzarne la portata ma neanche sottovalutarne le possibili conseguenze.
 
Anche perché l'Arabia Saudita, possibile regista dell'intera operazione, interveniva neanche ventiquattr'ore più tardi con dichiarazioni altrettanto «incendiarie» accusando Teheran di un po' tutto quello che sta accadendo nel Vicino Oriente sostenendo responsabilità tutte da provare nel presunto «complotto» per destabilizzare il Libano ed eliminare il suo primo ministro.
 
Cosa ci guadagnerebbero poi gli iraniani a eliminare Hariri è tutto da capire considerando che i loro «alleati» di Hizb'Allah ed 'Amal (i due partiti sciiti di Beirut) siedono al governo fianco a fianco dei ministri della Corrente Futura, il partito sunnita del premier dimissionario.
 
Riad ha accusato inoltre Teheran di una sempre più netta interferenza nei delicati equilibri geopolitici del Golfo in particolare di sostenere i ribelli sciiti dello Yemen. Niente di nuovo considerando che sono oramai quasi 39 anni che la principale monarchia del Golfo e la più importante potenza sunnita regionale - sia religiosamente, sia politicamente ed economicamente - scarica le proprie contraddizioni interne ed i suoi strali contro la Repubblica Islamica dell'Iran.
 
Di nuovo ci sono soprattutto due avvenimenti: lo strumentale utilizzo di un premier straniero, «ospite» (così si dice) a Riad, per calunniare a destra e a manca Teheran ed i suoi alleati e soprattutto il rimescolamento delle carte all'interno della casa regnante dei Saud dove sta emergendo sempre più nitidamente la figura dell'erede al trono, il principe Mohammad bin Salman, vero regista della politica estera saudita.
 
Dopo le accuse, reiterate anche durante la recente campagna presidenziale americana da ambedue i candidati, piovute contro Riad di sostegno al terrorismo internazionale di matrice al-qaedista/salafita; dopo aver perso influenza e terreno nel conflitto siriano la strategia saudita, ringalluzzita forse dal viaggio e dalle parole con le quali il Presidente USA Trump ha ribadito qualche mese or sono il ruolo di principale alleato degli Stati Uniti ai petrolmonarchi del Golfo, comincia a delinearsi in tutta la sua ampiezza ed estensione coinvolgendo, indirettamente e senza mai nominarlo, «Israele» e facendo presagire futuri apocalittici scenari bellici estesi a tutto il Vicino Oriente.
 
Infine da Riad è giunto l'invito ai propri connazionali di abbandonare il Libano quanto prima. 
 
Intanto un risultato i sauditi sembrano averlo portato a casa: la destabilizzazione politica nel Libano che senza il suo premier si ritrova con un pericoloso vuoto di potere che potrebbe preludere ad una vera e propria crisi. In Libano quando si parla di crisi si è soliti pensare al sanguinoso conflitto civile che insanguinò per quindici anni (1975-1990) il paese dei cedri provocando lutti e lasciando rovine. E nessuno, neanche il più fanatico ed estremista dei libanesi vorrebbe ripiombare lo Stato in questo autentico scenario apocalittico...anche perché nessuno vorrebbe assumersene, un domani, una così grande responsabilità.
 
Gli israeliani, dal canto loro, seguono silenti questo teatrino in salsa libanese...
 
Immediate le reazioni da Beirut dove Hizb'Allah ha tuonato per bocca del suo Segretario Generale, Sayyed Hassan Nasrallah, che ha accusato Riad di tenere prigioniero Hariri, ne ha richiesto l'immediato rientro in patria e ha sostenuto la piena legittimità dell'esecutivo in carica.
 
Quanto sta accadendo tra Riad e Beirut apre invece scenari inquietanti in prospettiva: le strategie destabilizzanti messe in atto dalla monarchia saudita rischiano di precipitare l'intero Vicino Oriente in un caos generalizzato, ed i sauditi ne sono coscienti avendo per anni fatto da pompieri proprio nella delicata situazione interna libanese. Quando il Libano singhiozza di norma l'intero mondo arabo rischia la febbre e qui si sta avvicinando paurosamente una bella broncopolmonite se Riad non rivedrà la sua attuale linea in politica estera. 
 
Una linea che sembra dichiaratamente ostile all'asse sciita Teheran-Baghdad-Damasco-Beirut dettata più dalla frustrazione di vedersi progressivamente escludere dalle capitali arabe determinanti gli assetti di potere ed il balance of power regionale.
 
Esclusi in Iraq dopo la caduta del regime ba'athista e 14 anni di occupazione statunitense i sauditi hanno manovrato nell'ombra le forze criminali delle diverse sigle terroristiche che da sei anni hanno provocato il caos siriano, sostenendo - assieme a Bahrein, Qatar, Kuwait e Emirati Arabi - neanche troppo velatamente la nascita del «mostro» Isis ed il suo radicamento tra Siria ed Iraq.
 
Il principe Mohammad bin Salman, regista delle strategie estere di Riad, appare l'uomo emergente della politica saudita: ha accusato più volte Teheran di intromissioni nella regione del Golfo particolarmente per quanto riguarda la delicatissima situazione yemenita.
 
Nel contesto della crisi yemenita Riad fin dal 2015 ha sostenuto militarmente l'allora Presidente in carica Mansur Hadi e la repressione attuata contro i ribelli sciiti houti sostenuti dall'ex Presidente Alì Abdullah Saleh e appoggiati in modo informale da Teheran.
 
Già nel 2011 in occasione dell'ondata di proteste e manifestazioni di piazza che sconvolsero l'intero mondo arabo e furono, forse un po' troppo pomposamente, ribattezzate come «primavere arabe» l'Arabia Saudita era intervenuta assieme ai suoi alleati del Consiglio di Cooperazione del Golfo per neutralizzare una rivolta sciita nel Bahrein.
 
Nel confinante Yemen Riad ha preso duramente di mira l'analoga ribellione degli houti. E non tralasciando l'ipocrisia con cui l'Arabia Saudita ha gestito la crisi siriana dove finanziamenti e armamenti sono giunti dalla capitale saudita a decine di organizzazioni terroristiche della autoproclamatasi opposizione democratica siriana che di democratico non aveva alcunché e tantomeno di siriano essendo rappresentata da tutta quella miriade di gruppuscoli terroristici in lotta spesso tra loro di matrice integralista salafita-al qaedista.
 
Un analogo segnale fu, alcuni mesi or sono, l'isolamento del Qatar voluto da Riad per «punire» i cugini meno allineati del Golfo.
 
Questa fino ad oggi la strategia estera di Riad. Con la mossa delle dimissioni di Hariri la casa regnante saudita sembra intenzionata invece ad alzare la posta e giocare «sporco» (come d'altronde ha sempre fatto): mettere in discussione gli equilibri a Beirut potrebbe risultare una scelta pericolosissima, un rischio per niente calcolato di cui domani qualcuno dovrà rispondere. 
 
Aprire un vuoto di potere nel paese dei cedri significa incendiare l'intera regione vicino-orientale perché il Libano è tradizionalmente un paese-perno degli assetti e delle strategie regionali, per chiunque troppo importanti da mantenere stabili. 
 
La destabilizzazione del Libano rappresenterebbe un autentico terremoto geopolitico dalle dimensioni e conseguenze irrimediabili, ben più devastante del terremoto naturale che ha colpito in queste ore il confine tra Iraq ed Iran provocando almeno trecento vittime e migliaia di feriti.... 
 
Proseguiranno i sauditi questa sciagurata politica estera volta a scoperchiare i diversi vasi di Pandora del Vicino Oriente?
 
A Beirut nessuno vuole pensare a questa ipotesi, si attende il rientro già annunciato del premier Hariri in patria, si lanciano appelli all'unità nazionale. 
 
Complotti? Occorre fare attenzione prima di metterne in piedi uno funzionale e operativo, Riad dovrebbe meditare bene fin dove accelerare perché ... chi di complotto ferisce...
 
                                                                                                                        

sabato 18 novembre 2017

Adolfo Ferrero, alpino ed eroe dell'Ortigara

 

Adolfo Ferrero, alpino ed eroe dell'Ortigara

La storia del tenente decorato con Medaglia d'Argento al valore militare

 IL GIORNALE D´ITALIA

Adolfo Ferrero, alpino ed eroe dell'Ortigara
Ortigara. Un nome conosciuto non solo agli amanti della montagna, ma anche a tutti quelli che hanno a cuore la storia d'Italia. Perché è proprio su quel monte che tra il 10 e il 29 giugno 1917 si è combattuta una delle più sanguinose battaglie della Grande Guerra. Una battaglia in cui gli Alpini, sacrificandosi per la Patria, hanno dato un'ennesima grande prova di eroismo e valore.
Tra loro c'era il ventenne tenente Adolfo Ferrero, torinese, arruolato nel 2°Reggimento Alpini Battaglione Valdora. che trovò eroica morte il 19 giugno 1917. E venne decorato con una Medaglia d'Argento al Valore Militare con la seguente motivazione: “Comandante di un plotone, lo trascinava con mirabile slancio all’attacco, e non cessava dall’incitare ad avanzare, benché ferito ripetutamente e gravemente”.
La sua storia è narrata, insieme ad altre valorosamente simili, da Adler Battistini nel suo “Ortigara. Una tomba e un altare” (Ed.Narratori Moderni 1967). Una storia, quella di Adolfo Ferrero, che lo ha visto, dopo il suo sacrificio, essere sepolto al Sacrario Militare di Asiago. Circa quarant'anni dopo, sui resti di un soldato (forse il suo attendente, al quale forse l'aveva consegnata affinché fosse spedita), venne ritrovata una lettera. Un po' sporca di sangue ma ancora in perfetto stato di conservazione. Una lettera che merita di essere proposta per intero. Da leggere e rileggere. Dedicando un pensiero riconoscente ai tanti “Ferrero” che hanno contribuito alla difesa della Patria. Queste le parole del giovane tenente:
18.06.1917 ore 24
Cari genitori,
Scrivo questo foglio nella speranza che non vi sia bisogno di farvelo pervenire.
Non ne posso fare a meno: il pericolo è grave, imminente. Avrei un rimorso se non dedicassi a voi questi istanti di libertà, per darvi un ultimo saluto. Voi sapete che io odio la retorica …no, no, non è retorica quello che sto facendo. Sento in me la vita che reclama la sua parte di sole, sento le mie ore contate, presagisco una morte gloriosa ma orrenda… Fra cinque ore qui sarà l’inferno. Tremerà la terra, s’oscurerà il cielo, una densa caligine coprirà ogni cosa e rombi, e tuoni e boati risuoneranno fra questi monti, cupi come le esplosioni che in quest’istante medesimo odo in lontananza. Il cielo si è fatto nuvoloso: piove… Vorrei dirvi tante cose…tante…ma voi ve l’immaginate. Vi amo. Vi amo tutti tutti. Darei un tesoro per potervi rivedere, ma non posso… Il mio cieco destino non vuole.
Penso, in queste ultime ore di calma apparente, a te Papà, a te Mamma, che occupate il primo posto nel mio cuore, a te Beppe, fanciullo innocente, a te o Adelina.. addio.. che debbo dire?
Mi manca la parola, un cozzare di idee, una ridda di lieti, tristi fantasie, un presentimento atroce mi tolgono l’espressione… No, no, non è paura. Io non ho paura! Mi sento ora commosso pensando a voi, a quanto lascio, ma so dimostrarmi, dinanzi ai miei soldati, calmo e sorridente. Del resto anche essi hanno un morale elevatissimo.
Quando riceverete questo scritto, fattovi recapitare da un’anima buona, non piangete e siate forti, come avrò saputo esserlo io. Un figlio morto per la Patria non è mai morto. Il mio nome resti scolpito indelebilmente nell’animo dei miei fratelli, il mio abito militare e la mia fidata pistola (se vi verrà recapitata), gelosamente conservati, stiano a testimonianza della mia fine gloriosa. E se per ventura mi sarò guadagnata una medaglia, resti quella a Giuseppe…
O genitori, parlate, fra qualche anno, quando saranno in grado di capirvi, ai miei fratelli di me, morto a vent’anni per la Patria. Parlate loro di me, sforzatevi a risvegliare in loro ricordo di me. M’è doloroso il pensiero di venire dimenticato da essi… Fra dieci, venti anni forse non sapranno nemmeno più di avermi avuto fratello…
A voi poi mi rivolgo. Perdono, vi chiedo, se v’ho fatto soffrire, se v’ho dati dispiaceri. Credetelo, non fu per malizia se la mia inesperta giovinezza vi ha fatti sopportare degli affanni, vi prego volermene perdonare. Spoglio di questa vita terrena, andrò a godere di quel bene che credo essermi meritato.
A voi Babbo e Mamma un bacio, un bacio solo che vi dica tutto il mio affetto. A Beppe a, Nina un altro. Avrei un monito: ricordatevi di vostro fratello. Sacra è la religione dei morti. Siate buoni. Il mio spirito sarà con voi sempre. A voi lascio ogni mia sostanza. E’ poca cosa. Voglio però che sia da voi gelosamente conservata.
A Mamma, a Papà lascio… il mio affetto immenso. E’ il ricordo più stimolabile che posso loro lasciare. Alla mia zia Eugenia il crocefisso d’argento, al mio zio Giulio la mia Madonnina d’oro. La porterà certamente. La mia divisa a Beppe, come le mie armi e le mie robe. Il portafoglio (l 100) lo lascio all’attendente.
Vi Bacio. Un bacio ardente di affetto dal vostro aff.mo Adolfo
Saluti a zia Amalia e Adele e ai parenti tutti”