lunedì 26 dicembre 2016

Dal Secolo del Lavoro al Secolo del precariato



 
Dal Secolo del Lavoro al Secolo del precariato

Il XX Secolo a confronto con l’oggi.


Il secolo XX sarà ricordato come il Secolo del Lavoro. E dei Lavoratori. Un           
Secolo possente ed arcigno, dovizioso e drammatico; un secolo penetrato dal
benessere e toccato dall'angoscia, dilacerato fra l'avere e l'essere. Fu un
secolo di promozione sociale e di riscatto dal bisogno. “Epoca degli estremi”,
l'aveva definita Eric Hobsbawm. Una definizione calzante anche per il mondo
del lavoro. All'inizio del Novecento il lavoro era quasi sempre fatica e
sudore, il grosso dei lavoratori viveva in un mondo a parte. Le case dei
lavoratori erano quasi sempre in periferia. Alla fine del Novecento tutto
cambia. Il lavoro diventa fluido e molto più leggero.”Fluidità liquida”detta
alla Baumann. Nel “barbaro” Novecento, ogni Primo Maggio, la comunità dei
lavoratori, sfilavano in corteo, cantando gli inni dell'emancipazione e del
socialismo ed esibendo con orgoglio i simboli dei mestieri e gli stendardi del
lavoro: erano i ”produttori” e a loro si doveva ogni progresso; il giorno dopo
tornavano a faticare. Il diritto del lavoro era diventato in meno di cento anni
il Diritto del Secolo: avendo preso sotto tutela il lavoro subordinato, ed
estendendo via via la protezione del lavoro dipendente con rapporto di durata
indeterminata ed a tempo pieno, fino a porlo come modello sociale. È stato
questo il Lavoro da cui hanno preso nome le Camere del Lavoro, il Bureau du
Travail,la Banca Nazionale del Lavoro, la Carta del Lavoro, i libretti di
lavoro, il diritto del lavoro, i Cavalieri del lavoro e anche la “civiltà del
Lavoro” alla quale fu intitolato a Roma l'edificio costruito dal Fascismo. Ora
tutto è cambiato. Non ci sono più certezze, non ci sono più punti di
riferimento, non c'è più senso di appartenenza.
Oggi,è un terrorista chi getta uova marce ai finti sindacalisti: odierni
ustascia, devoti unicamente alle lobby industriali ed al loro tornaconto
personale. Sono dei talebani con le bave alla bocca gli eroici lavoratori
(magari donne, precari e giovani)che si aggrappano con tutta la loro forza a un
posto di lavoro che non solo dà loro da vivere, ma li forma in quanto
lavoratori..orbene questi umili cittadini sarebbero degli estremisti, ultimi
esemplari di un'azione di rivendicazione che non ha più ragion d'essere
nell'epoca della pace sociale sotto l'emblema del carrello della spesa: la
bandiera della modernità liberale-liberista.
Pietro Ichino, "giuslavorista" del borghesoide Pd, un Thomas Jefferson
moderno (ricordando bene che il buon e mite Jefferson era un orrendo schiavista
ed un razzista forsennato!), considera, l'azione sindacale un "rito stanco".
Dice testualmente: "[Pensiamo a come potrebbero andare le cose] se i lavoratori
coinvolti non vedessero la sola possibilità di salvezza nell’aggrapparsi al
vecchio posto di lavoro. Se, come accade nei Paesi del Nord-Europa, la perdita
del vecchio posto non significasse affatto una catastrofe personale e
familiare, ma fosse accompagnata, al contrario, da un robusto sostegno del
reddito e soprattutto da un investimento sulla professionalità del lavoratore
capace di incrementare il suo appeal nel mercato del lavoro".
Insomma: pensiamo a come sarebbe bello un mondo in cui gli imprenditori
potessero licenziare a cuor leggero (più di quanto non facciano ora), ma
ovviamente, precisa il magnanimo Ichino, impegnandosi "soltanto, ma seriamente
(inciso decisamente progressista, ndr), a farsi carico fino in fondo dei costi
sociali delle loro scelte". Ossia a cercare una collocazione qualsiasi, anche
sottoqualificata, anche sottopagata, per i loro "esuberi".
Basta al mito del posto fisso! Ichino, corifeo dell'iperliberismo in salsa
"democratica" ed “obamista”, ben rappresenta la tendenza generale della
società. Quella, cioè, di liberarsi della zavorra delle cose permanenti, quella
che attribuisce un valore assoluto - cadendo così in contraddizione - al
cambiamento continuo. Per questo, è giusto curare l'appeal del proprio
curriculum, che deve viaggiare di scrivania in scrivania. Il lavoratore si deve
arricchire di "esperienze", che sono tali solo in apparenza, mancando del tutto
una cultura lavorativa che trasmetta un'abilità, una perizia. Qualità possibili
soltanto attraverso la costanza e grazie a un posto fisso. Ma Ichino è la punta
dell'iceberg della odierna tratta degli schiavi.
Tutto è partito con il nefasto 1996, con i campi di concentramento delle
agenzie interinali e , nei primi anni del millennio con l'introduzione della
Legge Biagi (inutile continuare a nominarla legge Maroni.. Come è vero e
documentato che il “buono”e democratico J.F.Kennedy era un losco mafioso così
bisogna ammettere che la legge che, de facto, ha ripristinato il caporalato e
lo schiavismo nel Bel Paese ha solo un nome: quello dell'accademico poltroniero
Marco Biagi).
La legge Biagi ha introdotto in Italia il precariato. Ha trasformato il
lavoro in progetti a tempo. La elemosina. I diritti in pretese irragionevoli.

Senza sicurezze. Senza niente. Neppure la dignità e la speranza.
La legge Biagi doveva inserire nel mondo del lavoro i giovani. Ha invece trasformato i giovani in merce a basso costo. introducendo in In questo buco nero anche i lavoratori più maturi ed adulti, che per non morire di fame insieme alle loro famiglie si sono adattati.
La legge Biagi, nonché lo sfrenato liberismo che sgorga in essa, ha ridotto i
lavoratori precari peggio degli schiavi sudisti. Nel 1850 il costo di uno schiavo in America era 1.000 dollari, circa 38.000 dollari di oggi. Un
investimento. Meglio del mattone. Lo schiavo andava istruito, la sua salute tutelata, la sua famiglia protetta.La legge Biagi, co.co.co. e co.co.pro. hanno portato insicurezza e stipendi da fame. Fare lo schiavo sudista era più conveniente. Almeno poteva farsi una famiglia. Citando il premio nobel
per l'economia Stiglitz:“Nessuna opportunità è più importante dell'opportunità
di avere un lavoro”.Qualsiasi programma mirante alla crescita con giustizia
sociale deve iniziare con un impegno mirante al pieno impiego delle risorse esistenti, e in particolare della risorsa più importante dell’Italia: la sua gente.


Paolo Cecco


                                                                                                                               

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