mercoledì 31 agosto 2016

IMPLOSIONE DEGLI STATES?




Implosione degli States?

di Simone Torresani -
Implosione degli States?
Fonte: Il giornale del Ribelle

A distanza di quasi cinquant' anni sono tornate, negli Stati Uniti, le "estati calde": nella decade dei Sessanta e inizio Settanta, infatti, le tensioni etnico-razziali (sin dalla fondazione una costante della storia a stelle e strisce), nel periodo della canicola la pentola a pressione regolarmente esplodeva, provocando le rivolte degli afroamericani. Particolarmente sinistre per numero di danni materiali e vittime umane furono le insurrezioni di Watts, di Newark e di Detroit, in cui le autorità dovettero ricorrere alla Guardia Nazionale, armi in pugno, per sedare con largo tributo di sangue i tumulti. Oggi, con un afroamericano che da sette anni e mezzo siede sulla poltrona della Casa Bianca, non solo gli USA hanno compiuto dieci passi indietro rispetto ai risultati non del tutto da buttare nella lunga lotta ai "diritti" delle minoranze, ma le stesse tecniche di ribellione appaiono assai più pericolose. Qui non siamo di fronte ad una esplosione di collera popolare tanto improvvisa quanto facile da reprimere, alla bisogna, con plotoni di agenti o militari in assetto da guerra, ma a forme programmate di rappresaglia da parte di singoli, che sono molto più imprevedibili da capire e prevenire sia nel tempo che nello spazio. Potremmo dire, nei casi di Baton Rouge e di Dallas, che la collera si è trasferita dal piano della rivolta di piazza a quello della rappresaglia, della vendetta, della faida, della guerriglia tout court contro le forze di polizia, ormai viste a ben ragione come il braccio secolare di una società sempre più iniqua, esclusiva (nel senso che emargina, esclude), paranoica, razzista e ricca solo di disuguaglianze e darwinismo sociale come quella degli Stati Uniti d' America. I laudatori degli "States" potranno dire che queste storture esistono da sempre in America, che il Paese ha visto di peggio, che comunque la società in sé ha gli anticorpi, a lungo termine, per eliminare le tossine, eccetera eccetera. Tutte storie, tutte chiacchiere da bar sport.

Gli USA stanno prendendo una china discendente non solo nella politica internazionale, ma anche e soprattutto -cosa da monitorare con attenzione- in quella interna: dobbiamo sperare non tanto in un appannamento internazionale, quanto in una implosione di questo Paese, che ad oggi è l'opzione maggiormente gettonata. I segnali di una lenta ma inesorabile ruggine che corrode ci sono già tutti: a prescindere dalla questione afroamericana, stanno aumentando in maniera esponenziale i casi di "mass shooting", di impazzimento collettivo, di sparatorie senza senso in cinema, ristoranti, teatri, supermercati: noi in Italia veniamo a sapere solo dei più eclatanti, ma provate a fare una ricerca in Internet e se ne avete voglia costruite un grafico e analizzate il numero dei casi negli ultimi trent' anni: vedrete, appunto, una curva di aumento esponenziale. La competizione, la polarizzazione tra vincenti e perdenti, lo sfrenato individualismo stanno facendo, paradossalmente, di uno Stato con impronta culturale anglosassone -quindi con il contrattualismo dei vari Hobbes e Locke - un luogo in preda alla trappola hobbesiana. Infatti le ultime direttive di molti dipartimenti di polizia, in testa quello newyorkese, emanate dopo Dallas, ordinano agli agenti non solo di circolare in coppia (e ci sta) ma di "aumentare la diffidenza se si viene avvicinati da sconosciuti". La stessa diffidenza, unita al numero abnorme di armi in circolazione e alle regole d' ingaggio particolarmente eccessive dei tutori dell'ordine, trasposizione moderna dello "sceriffo" e del "pioniere del West", porta la polizia ad avere il grilletto facile. E non tocca solo all' "afro" di turno, ma pure al "bianco" malcapitato che non è pronto, magari, a scendere velocemente dall' auto con le mani sulla testa, come capitato tre settimane fa in California. La società sempre più paranoide, repressiva e dalle manette facili (gli USA hanno, ogni 1000 abitanti, più carcerati che la Cina!) per chi ha pochi dollari in avvocati, non ha più come compensazione il "sogno americano", ormai inceppato da tempo. Analizzando i profili personali e psicologici degli stragisti e sparatori, in 9 casi su 10 si scopre che sono tutti "ex " qualcosa, tutti dei "perdenti", degli "esclusi", degli emarginati dal Sistema americano che, come scritto sopra, ha ormai l'ascensore sociale bloccato e non garantisce più sogni da spendere. Perdenti, minoranze arrabbiate e falliti diventeranno ogni giorno che passa più incazzati e il cemento americano verrà gradatamente sfibrato, mai come in questo caso vale la massima latina: "gutta cavat lapidem". Più che Russia, Cina, Medio Oriente, Libia, Afghanistan o Califfi vari, saranno questi germi mortali ormai ben inseriti e in incubazione nel corpo degli Stati Uniti a decretarne, in futuro, un sicuro collasso: di fronte a tali problemi ormai strutturali che minano l'edificio, conviene supportare la vittoria di Donald Trump, il peggio del darwinismo sociale americano, affinché la sua presidenza possa, per lo meno nel successivo quadriennio, affrettare i tempi del declino irreversibile.

                                                                                                                                                       



domenica 28 agosto 2016

Legge Mancino, una legge incostituzionale e pericolosa

Legge Mancino, una legge incostituzionale e pericolosa
 
Di Massimo Lacerenza


La maggior parte della gente non ne è a conoscenza, ma da dieci anni in Italia esiste una legge, la n° 205 – 95, meglio conosciuta come “legge Mancino”, nata ed utilizzata con l’odioso scopo di reprimere ogni dissidenza e limitazione della inalienabile libertà di pensiero e di parola.
La mia affermazione è avvalorata dalle seguenti considerazioni:

  • È una legge che di fatto pone dei limiti ben determinati ed assoluti alla libertà di pensiero e di parola, stabilendo un pericoloso e preoccupante tentativo di definire quali siano le idee ed i valori legittimi (e legali) e quali siano le idee e i valori illegittimi (e illegali).
  • Vi è una pericolosa generalità del concetto di “atti di discriminazione per motivi razziali, nazionali o religiosi”; laddove “discriminare” ha lo stesso significato di “preferire”, “distinguere”, “scegliere”, quali libertà fondamentali in uno Stato di diritto - come si vanta di essere quello Italiano.
  • Non vi è nessun riferimento all’ "incitamento all’odio per motivi politici". Da ciò si deduce l’assoluta immunità per quei soggetti e quei gruppi politici che non solo “discriminano” la parte avversa (cosa per noi legittima) ma, mossi da un sentimento di “odio”, usano un linguaggio esplicitamente lesivo della dignità e dell’onore personale e agiscono a livello concreto (con presidi, blocchi, contromanifestazioni non autorizzate) per impedire agli avversari politici la libertà di propaganda e di espressione (art. 12 – diritto alla dignità della persona – Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo”).
  • Le pene accessorie previste (ritiro dei documenti, divieto di partecipare alla vita pubblica, lavoro e rientro coatto, sequestro degli immobili di proprietà), oltre a quelle detentive, mostrano in modo inequivocabile la volontà di colpire, prima ancora che un presunto reato, innanzitutto un modo di essere, di pensare, uno stile di vita. Sono inoltre pene che non vengono applicate neanche, ad esempio, agli spacciatori di sostanze stupefacenti abituali ed incalliti.
  • Prevede inoltre un giudizio per direttissima che riduce al minimo le garanzie processuali e incide pesantemente su altri specifici reati, laddove le aggravanti per “motivi razziali” si applicano senza considerazione delle attenuanti.
In base a queste considerazioni, mi sembra più che giusto ritenere la “legge Mancino” una legge a tutti gli effetti LIBERTICIDA e ANTICOSTITUZIONALE, in quanto risulta altamente lesiva delle libertà fondamentali di ogni cittadino italiano (pensiero, parola, azione) in riferimento agli articoli 17, 18, 19 e 21 della Costituzione della Repubblica Italiana e agli articoli 2, 7, 18, 19 e 20 della “Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo”.
Risulta essere strumento idoneo a perseguire uomini e gruppi sgraditi in quanto non omologati, in quanto non allineati con il pensiero unico, con il modo di pensare dominante.
Lascia interpretare ARBITRARIAMENTE ogni espressione di “scelta”, “preferenza” e “distinzione” come atto di “discriminazione”, “FONDATO” automaticamente e implicitamente “sulla superiorità o sull’odio nazionale, religioso o razziale”.
E’ inoltre antidemocratica in quanto tende a criminalizzare sistemi di pensiero e idee che affermano principi di identità, appartenenza e diversità.
Infine, consente processi alle intenzioni, negando ogni valore alle dichiarazioni degli imputati a favore della molteplicità delle culture e delle etnie, come risulta dagli atti processuali fin qui acquisiti.
È per tutti questi motivi che la battaglia intrapresa da associazioni e comitati – giusto per citarne uno, il “comitato libera-mente” – è una battaglia a favore e a difesa della LIBERTA’, attaccata da quello che può essere considerato in tutto e per tutto un vero mostro giuridico.
Un mostro giuridico che, per altro, viene applicato, con assoluta prontezza e  rigore, a senso unico. Ovvero solo ed unicamente verso quei movimenti (politici o culturali) o verso quei singoli ITALIANI che si richiamano idealmente ai propri valori tradizionali in modo chiaro e limpido.
Farò un esempio per spiegare in modo più chiaro quest’ultima considerazione.
Nel momento in cui una persona di fede musulmana o magari atea si permette di scagliare in pubblico un Crocifisso cristiano, che so, dalla finestra di un ospedale pubblico, o nel cestino dei rifiuti di una scuola media, non correrebbe alcun rischio di essere processata in base alla “legge Mancino”, nonostante questa sia comunque applicabilissima.
Il motivo e tutt’oggi ignoto e avvolto nel mistero.
E di questi casi, negli ultimi anni, qui in Italia ne sono avvenuti a centinaia.
Al contrario, nel momento in cui una persona qualunque, di nazionalità italiana, osasse parlare, magari durante un comizio, o tra degli amici in un pub, oppure con la propria fidanzata, dell’esistenza di grosse differenze culturali tra la civiltà Cristiana e quella, che so, quella Islamica, sostenendo la superiorità della prima – senza per questo voler in alcun modo discriminare la seconda o coloro che si richiamano all’Islam, ma esprimendo semplicemente un proprio parere personale – ebbene, sarebbe immediatamente punibile ai termini di legge grazie all’applicazione della “legge Mancino”.

Avviene per ciò che semplici ed onesti cittadini si ritrovino a dover scontare qualche mese di carcere – nelle migliori delle ipotesi - , a dover obbligatoriamente rientrare entro le 20.00 nella propria abitazione, a non avere più il diritto di voto, a dover subire il ritiro della patente automobilistica e tanto tanto altro ancora – per aver solo espresso una propria opinione.
E, di casi del genere, ne sono avvenuti e ne avvengono a decine.
Tra il silenzio delle istituzioni, tra il silenzio dei mass-media, tra il silenzio dei partiti politici.
  QUESTA MOSTRUOSITA' LA CHIAMANO "DEMOCRAZIA!"





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giovedì 25 agosto 2016

Liberali che mettono le bombe: riflessione sugli ultimi attacchi

 

Liberali che mettono le bombe: riflessione sugli ultimi attacchi

  di Andrea Chessa


A breve distanza dagli ennesimi attentati terroristici in Europa, interveniamo ancora una volta sul tema, l’opinione sul quale non è affatto cambiata rispetto alle posizioni che abbiamo espresso all’indomani dell’attacco al Charlie Hebdo, in Francia.
Cambia la posizione geografica, ma il problema rimane sempre lo stesso: il fallimento del progetto europeo, per come lo hanno concepito e lo concepiscono le élite liberal-tecnocratiche, è conclamato e questa è l’ennesima conferma di quanto MFL-PSN dichiara da tempo immemore. Non bisogna cadere nelle svariate trappole argomentative che tirano per la giacca i latenti pregiudizi – da ambo le parti – delle persone, del popolino così propenso a giudicare. Così come non accettiamo e riteniamo infondate le ricostruzioni secondo le quali per risolvere l’attuale situazione “c’è bisogno di più integrazione, più democrazia [la loro, però!] e più libertà”, allo stesso modo non accettiamo l’idea che, ora, sia necessario aprire una sorta di “caccia all’islamico” quale detentore di tutte le più crudeli arti responsabili della nostra sofferenza come popolo europeo. No: entrambe le posizioni (la prima tipica dei “democrat” piddini, la seconda più simile all’atteggiamento mostrato da Matteo Salvini della Lega Nord) noi le riteniamo irresponsabili, oltre che parziali e non utili alla risoluzione della grave questione che ci si pone di fronte. E’ vero che esiste un problema serio con un certo islam, peraltro molto diffuso in Europa, che, refrattario, ignorante e ostile, è in prima fila proprio contro l’integrazione proposta da coloro che lo hanno gentilmente ammesso sul suolo europeo. Ma è anche vero che il “dagli all’islamico” generalissimamente inteso assomiglia molto al “dagli al fascista” per partito preso che abbiamo dovuto sopportare in 70 anni di repubblica italiana.
Bisogna identificare i veri responsabili delle stragi: gli esecutori stanno a valle, ossia quei jihadisti fanatici e spesso manovrati dalle segrete stanze occidentali, ma coloro che permettono il dilagare degli stessi sono i padroni dell’Europa e dell’Occidente: i cosiddetti liberali, che subdolamente si trincerano dietro il paravento dei diritti e della libertà. “Noi – dichiarano questi stolti – siamo superiori ai nostri nemici perché, nonostante tutto, non neghiamo mai la libertà alle persone”. E pazienza se poi le stesse persone divengono carne da macello in nome e per conto di questa molto interessante idea di “libertà”. E pazienza se, nel frattempo, stanno negando alle persone la libertà di decidere il proprio futuro attraverso la precarizzazione delle esistenze dovuta alla crisi economica (generata anni or sono non certo dagli islamici o dai fascisti o dai comunisti, ma da chi ben sappiamo), lavorativa, sociale e morale. L’importante è che non si dica che mancano la libertà e la democrazia nei loro regimi. Parole senza senso e svuotate di vera sostanza politica. Parole che evidentemente si intendono valide universalmente, ma – quando si dice il caso – valgono solo per chi arriva e per certi privilegiati autoctoni; mentre il resto della popolazione subisce gli effetti di quello che in America è stato penosamente e ipocritamente chiamato Patriot Act!
Limitare i diritti reali, espandere gli pseudo-diritti (come la pagliacciata delle unioni gay) e parlare di isola felice che subisce vili e assolutamente immotivati attacchi “esterni”! E’ questo il capolavoro silenzioso dei nostri padroni che si definiscono liberali. E intanto disarmano i popoli – politicamente, culturalmente e antropologicamente -, li distruggono nel grande melting pot globalizzato e massificato, rendendoli alla mercé dei secondini dello jihad, che fanno il doppio gioco.
Noi questo non lo accettiamo! Rifiutiamo in toto le politiche irresponsabili e antinazionali dei governanti europei! Continueremo a ribadire questi concetti in ogni sede disponibile, fino al cambio di rotta definitivo della nostra Patria, per la costruzione di una vera e solidale Europa delle Patrie.
     di Andrea Chessa

lunedì 22 agosto 2016

A MIGLIAIA RIFIUTARONO LA RESA

A MIGLIAIA RIFIUTARONO LA RESA
Erano i volontari che, prima della fondazione della Repubblica sociale italiana, decisero autonomamente di battersi al fianco dei camerati germanici su tutti i fronti.

Adriano Bolzoni
 
Comincerò col ricordare che gli uomini in armi nelle forze armate della Repubblica Sociale Italiana, giovani o veterani con più anni di guerra, volontari o delle leve del 1924-25, furono tanto numerosi da rendere perplesso e quasi incredulo, pur conoscendo la realtà, anche chi scrive.
Tutte le volte che, per non importa quale ragione, si ripresenta l'argomento, vale a dire la consistenza, la sostanza, la natura ed i caratteri dell'esercito della Rsi, ebbene, sono il primo a riconoscere che il fenomeno militare repubblicano ha veramente dell'incredibile. Eppure, come inviato di guerra, come giornalista combattente, in totale autonomia e libertà, in possesso degli accrediti necessari dei comandi italiani e della Wehrmacht, ho svolto i miei compiti dall'ottobre del 1943 all’aprile del 1945. Intendo dalla Gustav alla Gotica, dalla piana del Liri a Cassino, da Anzio a Nettuno sino alla Garfagnana, dal Senio al confine alpino francese, dal litorale adriatico alla Venezia Giulia, sino alla fine della campagna d’Italia.
Trascuro i dati forniti dal generale Emilio Canevari (che del nuovo esercito della Rsi fu uno dei creatori), contenuti anche nel "Rapporto Graziani", dove si fornisce la cifra di 780.000 uomini, però includendo circa 260.000 militarizzati. E’ invece scrupolosamente documentata, nella primavera del 1944, una forza di
327.000 uomini nelle diverse unità. Questo, volendo escludere dal computo i circa 150.000 uomini incorporati nella Guardia Nazionale Repubblicana.
Si voleva creare un esercito repubblicano nazionale chiaramente apolitico; si scartò l'idea che questo esercito fosse composto di soli volontari, mantenendo la leva perché il concorso alla difesa avesse carattere nazionale e popolare.
Solo il 28 ottobre del 1943, ben cinquanta giorni dopo l'8 settembre (e cinquanta giorni in quel precipitare di avvenimenti significarono molto ed ebbero un gran peso) il governo della Rsi emise due decreti-legge: il primo stabiliva lo scioglimento delle forze armate regie e la creazione di quelle repubblicane; il secondo dettava la legge fondamentale del nuovo esercito repubblicano.
E’ bene, per meglio valutare il vero miracolo della Rsi - la creazione di un esercito, mai dimenticando che (è anche il parere di chi scrive) fu il fenomeno militare-combattente della Rsi a nutrire la Repubblica Sociale -, considerare gli avvenimenti di quel periodo. L'8 settembre del 1943, dopo l'accettazione di un "armistizio" che si traduce istantaneamente nella resa senza condizioni al nemico e nel dissolvimento dell'esercito con la fuga del re, della corte e dei responsabili delle forze armate, è il caos generale. Il 9 settembre, gli Alleati sbarcano in forze a Salerno, il giorno 1 ottobre entrano a Napoli.
Le forze armate della RSI nasceranno, s'è detto, il 28 ottobre. Solo più tardi, dopo un nuovo sbarco degli Alleati ad Anzio, il 22 gennaio 1944, esse avranno capacità operativa, mobilità e consistenza. E intanto? Intanto e da subito, in pratica dal 9 settembre 1943, un numero stupefacente di italiani - in uniforme, in armi, bandiera tricolore alle spalle senza lo scudo sabaudo - continua a battersi, non accetta la resa. Non aspetta la liberazione di Mussolini dalla prigionia sul Gran Sasso, non aspetta la creazione della Repubblica Sociale Italiana, non aspetta la fondazione del nuovo esercito repubblicano.
I comandanti, gli equipaggi ed il personale dei servizi dei nostri sommergibili nelle basi francesi - battelli che operavano nell’Atlantico - non abbandonano il campo che li ha visti, per lunghi, durissimi anni di sacrifici e vittoriose imprese, a fianco di leali e in molti casi fraterni camerati di terra, uniti dall'identico destino del combattere in mare contro un nemico strapotente. Questo, per molte ragioni, può apparire piuttosto comprensibile. Altrettanto comprensibile può apparire l’immediato affiancarsi alla Wehrmacht degli uomini dei nostri battaglioni del genio (nebbiogeni), dislocati nel Baltico e dei reparti di specialisti di stanza in Germania. Si trattava di circa 22.000 effettivi. Il loro comportamento prima e dopo l'8 settembre fu tale, nell'adempimento del servizio, da non suscitare mai il minimo dubbio dei comandi tedeschi riguardo alla loro lealtà ed efficienza.
Combattenti italiani presenti in Germania o nella Francia occupata dalla Wehrmacht, si dirà, quindi la loro decisione di continuare a battersi a fianco delle forze tedesche poteva derivare dalla scelta di un male minore. Non è irragionevole pensarlo, con l'esclusione dei comandanti e degli equipaggi dei nostri gloriosissimi sommergibili atlantici, che davvero il disonore dell'8 settembre rifiutarono consapevolmente e senza esitazioni. Ma quel che accadde in Italia, sino alla creazione dell'esercito della Rsi, a cominciare dalle prime ore dopo l'annuncio dell’”armistizio”, quindi dell'accettazione della resa e del repentino miserabile capovolgimento delle alleanze, con l'amico che diventa nemico e viceversa, testimonia per la Storia e la stessa salute dei combattenti italiani, per una non trascurabile parte di loro, almeno la ragione prima e profonda del rifiuto dell’armistizio.

1)                2) 
  1.  Il Maresciallo di Italia Rodolfo Graziani fu tra i primissimi a prendere posizione per la ripresa della lotta e il rispetto dell'alleanza.
  2. Reparti di allievi ufficiai della Guardia Nazionale Repubblicana, alle dipendenze di Renato Ricci, schierati nel cortile di una caserma

Il caso, peraltro clamoroso e universalmente oggi conosciuto, dell’immediato costituirsi nelle strutture di San Bartolomeo, a La Spezia, di una unità di fanteria di marina, che poi divenne addirittura la Divisione "Decima" con i suoi battaglioni, raccogliendo poi anche gli equipaggi di natanti e mezzi d'assalto, è certo il più famoso, ma non il solo. Diffusasi la voce che la "Decima" inquadrava ed arruolava combattenti, sotto bandiera e comando italiani, un flusso sempre crescente di giovani volontari e militari di ogni arma e grado sommerse le strutture della Marina a La Spezia, sin dal 9 settembre, agli ordini del comandante Junio Valerio Borghese.
La Wehrmacht, impegnata nella strenua battaglia di contenimento a Salerno e nel controllo essenziale delle maggiori vie di comunicazione della Penisola (l'esercito regio s'era già dissolto), non aveva né intenzione né interesse ad affrontare uno scontro con dei reparti formati da combattenti decisi a battersi, all'ombra della bandiera nazionale, rifiutando l’armistizio. Quando il 17 ottobre venne costituita la Repubblica Sociale Italiana, già da lunghi giorni la "Decima" si trovava a tentare di risolvere problemi impossibili: come inquadrare, vestire, nutrire, armare e organizzare un numero esorbitante di volontari.
Sempre immediatamente dopo la proclamazione dell'armistizio, nelle tragiche, sconvolgenti e miserabili ore del "tutti a casa", forti reparti della "Nembo" e della "Folgore, paracadutisti già misuratisi in combattimenti davvero eroici, anche per riconoscimento del nemico, rimasero in campo. Non meno di 4.000 uomini. E non meno di 60.000 combattenti, veterani di guerra e giovani volontari, si aggregarono (là dove le operazioni li avevano visti affiancare le unità della Wehrmacht) ai reparti tedeschi. Ci volle del bello e del buono, ci vollero trattative condotte anche a muso duro, quando si costituirono le forze armate della Rsi, per recuperare quei combattenti che i comandi germanici si tenevano stretti .
Nessuno oserà negare che, immediatamente dopo la paurosa catastrofe dell'8 settembre, per quanti decisero di non cambiare fronte e di non sopportare, con la sconfitta, anche l’ignominia e il disonore, insieme al disprezzo del nemico, non si trattava di fanatismo politico, di costrizione, di "cartoline-precetto" o roba simile. E’ certo probabile che taluno o talaltro, in uniforme, si trovasse
nella condizione di seguire la volontà del reparto, dei commilitoni, di continuare a battersi contro gli Alleati, che anche troppo evidentemente stavano guadagnando la campagna d’Italia. Sì, questo è possibile. Ma questo non può riguardare, in nessuna maniera, la situazione dei piloti, degli equipaggi di volo e degli specialisti dell'Aviazione. Sarebbe bastato salire a bordo di un velivolo militare e volarsene al Sud.
L'Aviazione della Rsi, che poi inquadrò 36.640 uomini tra piloti, ufficiali, sottufficiali, avieri e personale navigante e a terra, immediatamente dopo l'8 settembre, nelle prime ore rovinose e degradanti, trovò all'origine i suoi combattenti. Nomi che forse non diranno nulla alle ultime generazioni - cinquantacinque anni dopo - , ma che la storia dell’Aeronautica militare tricolore non ha dimenticato, che la gloria ha accarezzato, che l'eroismo ha baciato. Botto, Visconti, Drago, Marini, Bellagambi, Faggioni, Vizzotto, Marinoni e i loro compagni (impossibile elencare centinaia di piloti da caccia, bombardieri e ricognitori) non attesero la creazione delle forze armate della Rsi. Ripresero a battersi. Sui loro velivoli, la coccarda tricolore.
Certo in maniera imprecisa, poiché esistono solo dati indicativi e cifre sempre approssimate, è però lecito indicare in circa 80-90 mila i combattenti, giovani volontari e veterani di guerra già in armi nel giugno 1940, che subito dopo l'8 settembre, e comunque prima della creazione della Repubblica Sociale Italiana e la fondazione del nuovo esercito repubblicano, rifiutando la resa e il capovolgimento repentino del fronte, decisero di continuare a battersi a fianco dell'alleato tedesco. Date le condizioni catastrofiche del Paese, l'avanzare delle armate anglo-americane, l'evidente strapotere del nemico, il clima caotico del "tutti a casa", il numero di chi si mostrò deciso a continuare il combattimento è da considerarsi letteralmente stupefacente.
Al Sud, dove almeno mezzo milione di uomini era ancora in uniforme e, sia pure malamente e disordinatamente, ancora inquadrato nelle diverse unità, per trovare circa 6.000 volontari destinati a formare il Corpo motorizzato del regio esercito (compresi i servizi e il reparto sanitario) da mettere in campo a fianco degli Alleati, i più validi e meno screditati comandanti dovettero compiere miracoli.
Una notazione aggiuntiva va fatta. Nessuno storico o ricercatore attendibile, e ve ne furono, ancorché largamente imparziali, come Roberto Battaglia di parte comunista (anche se a parer mio i termini di "storico” e "comunista" sono antitetici), ha mai preso per buone le pagine sulla resistenza di Pietro Longo. Questi, nel suo "Un popolo alla macchia " pubblicato nel 1947, elenca nel campo della guerriglia qualcosa come 114 divisioni di partigiani, forti di ben 471 brigate . Per la sola regione del Piemonte, Longo cita una dopo l'altra 196 brigate combattenti. Nel campo partigiano i termini di divisione e brigata non hanno nessun preciso riferimento alle conosciute unità militari di non importa quale esercito.
Normalmente una brigata partigiana poteva contare su tre o quattro dozzine di uomini, talvolta un centinaio di armati. E questo nel periodo conclusivo della guerra civile. Comunque, alla stregua di Longo o di Secchia, un cronista buffone potrebbe dire che, subito dopo l'8 settembre, basandosi sulla consistenza di un centinaio di armati ciascuna, gli italiani che affiancarono i tedeschi, e comunque intendevano continuare a battersi, formarono 600 brigate . Usando lo stesso metro, la pesante divisione alpina "Monterosa" della Rsi, che con l'artiglieria divisionale e i servizi superò numericamente, con i suoi 16.000 uomini, ogni altra grande unità in campo, allineò in battaglia almeno 120 brigate combattenti.
Chiunque può capire che tutto questo è supremamente stupido. Ragionando alla partigiana, il "Barbarigo", ch'era solo un robusto battaglione della "Decima", mandando i suoi circa 1.600 volontari sul fronte di Anzio, nella piana Pontina, non allineò 16 fantomatiche brigate, ma combattenti decisi al sacrificio. Ebbe, tra morti e feriti, circa 800 dei suoi effettivi. Insensato parlare dell’ecatombe di 8 brigate italiane alla difesa di Roma.
Conclusione. Immediatamente dopo l'8 settembre, prima della liberazione di Mussolini (del tutto sconosciuta la sua fine), prima della nascita di un governo della Rsi, prima della creazione delle forze armate repubblicane, nel disordine e nel caos generali, decine di migliaia di italiani rifiutarono la resa. Ritennero, ogni ideologia esclusa o accantonata, di scegliere quello che per loro era il campo dell'onore.

STORIA VERITÀ 
                                                                                                                                 

sabato 20 agosto 2016

NOSTRE EDIZIONI - LA RESISTENZA FASCISTA

LA RESISTENZA FASCISTA FASCISTI E AGENTI SPECIALI DIETRO LE LINEE 
 
La “Rete Pignatelli” e la resistenza fascista nell’Italia invasa dagli angloamericani
di Daniele Lembo

maro edizioni - 25 €
Il libro di Daniele Lembo ha come oggetto, come si evince dal titolo, la resistenza fascista agli angloamericani nel Sud Italia invaso.
L’autore, per la redazione del testo, oltre che consultare tutta la bibliografia esistente sull’argomento, si è avvalso delle testimonianze e di memoriali di alcuni di quelli che, considerando gli alleati invasori e non liberatori, continuarono a combatterli anche nell’Italia invasa, venendo per questo arrestati e processati. Il punto di forza del libro è costituito proprio da queste testimonianze che, assieme ad alcuni documenti inediti provenienti dal National Archives di Washington, costituiscono un vero e proprio elemento di novità sull’argomento. Il volume si articola in due parti. La prima di queste è destinata all’esame delle attività resistenziali fasciste nelle varie regioni del Sud.
Dopo un capitolo dedicato al “processo degli 88”, un famoso procedimento giudiziario che vide alla sbarra 88 giovani, e meno giovani, che intesero opporsi agli invasori Alleati, Lembo illustra al lettore quali furono, in vista dell’invasione delle regioni meridionali, i progetti militari per le operazioni di stay behind.
Nell’ambito di tali progetti vengono inclusi quelli approntati dal Regio Esercito e dalla Regia Marina, nonché dal P.N.F. che, prevedendo l’invasione della Penisola, costituì la “Guardia ai Labari.”
Dopodiché, viene considerata la resistenza clandestina in Sicilia fino al settembre 1943 - e da tale periodo alla fine della guerra - e il fascismo clandestino in Sardegna. Oltre ai moti dei “non si parte”, ovvero le manifestazioni popolari, spesso violente, di coloro i quali si rifiutarono di tornare alle armi per il Regno del Sud, per quanto riguarda la Sicilia vengono trattate le repubbliche di Palazzo Adriano, Piana degli Albanesi e Comiso. Furono queste vere e proprie repubbliche indipendenti che nacquero dalla ribellione popolare al Regno del Sud. Ci fu bisogno dell’intervento del Regio Esercito e dell’aviazione alleata per normalizzare la situazione in tali località.
Per la Sardegna vengono prese in esame le attività clandestine, l’invio di agenti speciali nell’isola e la propaganda della R.S.I. destinata ai sardi.
Esauriti gli episodi avvenuti nelle isole, si passa ai fatti di Calabria (con numerose interviste ed atti in appendice) e al fascismo clandestino in Campania e in Puglia. Un approfondito esame viene fatto per quanto riguarda l’attività del Principe Valerio Pignatelli di Val Cerchiara e di sua moglie, che furono i propulsori di una rete clandestina fascista operante al Sud.
La rete Pignatelli, che trasse origine dalla “Gardia ali Labari”, fu un’organizzazione articolata ed efficiente con continui e proficui contatti con il territorio della R.S.I..
Pignatelli ed i suoi, in generale, si occuparono di attività informativa fornendo notizie di carattere militare e generale al Nord, ma in casi particolari passarono a vere e proprie azioni militari.
La mancanza di fondi, alla quale il principe sopperì con propri fondi personali, e la stessa cattura del principe e di sua moglie non furono sufficienti a disarticolare la complessa organizzazione che si occupò anche di dare appoggio ad agenti speciali della R.S.I. giunti dal Nord con il compito di meglio organizzare la rete e di fare da consiglieri militari.
La seconda parte del libro è dedicata proprio ai servizi segreti e agli agenti speciali della R.S.I., operanti nei territori invasi.
L’autore, che trattando della resistenza fascista, definisce gli agenti speciali “l’altra faccia della medaglia”, dopo aver descritto la nascita e la struttura dei servizi segreti della R.S.I., passa alla disamina dei vari servizi speciali, ovvero quelle organizzazioni della Repubblica del Nord che inviavano agenti informativi e sabotatori oltre le linee.
Vengono esaminati il Gruppo David di Tommaso David (e la sua più nota agente, Carla Costa), ma anche i servizi speciali della X° Flottiglia Mas e dell’Aeronautica Repubblicana.
Numerosi furono gli agenti speciali che, catturati in missione, furono passati per le armi dagli alleati. Molte di queste catture furono possibili grazie ad un elenco degli agenti speciali italiani, in possesso dei servizi segreti alleati. L’autore, oltre a svelare il mistero dell’origine di questa rubrica, tenta anche di enumerare gli agenti che, catturati, furono processati e fucilati. Purtroppo, questo elenco risulta incompleto.
Il volume si chiude con un capitolo dedicato al dopoguerra che si collega ad un precedente capitolo dedicato al M.I.F., ovvero il Movimento Italiano Femminile Fede e Famiglia. Il M.I.F. potrebbe essere agevolmente indicato come: “Quello che restò della Rete Pignatelli nel dopoguerra”, perché è proprio nel dopoguerra che il M.I.F. venne allo scoperto. A crearlo fu la principessa Maria Pignatelli che riunì attorno a sé un gruppo di donne per creare un comitato che desse assistenza agli ex appartenenti alla R.S.I..
Il Movimento della Pignatelli ebbe dunque uno scopo principalmente assistenziale, occupandosi di fornire ai fascisti, in quegli anni perseguitati, un’assistenza che, più che morale, fu di tipo materiale. La principessa e le altre aderenti al M.I.F. fecero in modo che fosse fornita assistenza legale gratuita ai fascisti incarcerati che, privati del lavoro e spesso anche con i beni sottoposti a sequestro, si ritrovavano nella totale indigenza.
Il breve capitolo finale sul dopoguerra si chiude con un inquietante interrogativo che riportiamo in conclusione: ”E’ probabile quindi che, nel dopoguerra, ci sia una continuità tra i servizi segreti americani ed alcuni personaggi o interi settori delle disciolte Forze Armate fasciste repubblicane e ciò nell’ambito “dell'attenzione americana all'espansione comunista”.
Se proprio vogliamo far galoppare la fantasia, si potrebbe anche pensare che la Rete Pignatelli, individuata e disciolta nel corso del conflitto, sarà poi riammagliata negli anni successivi. Ma questa è solo un’ipotesi per sostenere la quale non ho nulla in mano se non la mia fantasia che è solita correre veloce. L’ipotesi è però indubbiamente affascinante e mi piace concludere questo libro lasciando al lettore il dubbio.”

INDICE
PREMESSA.
CAPITOLO 1° - IL PROCESSO DEGLI 88.
- Premessa
- Il Processo
CAPITOLO 2° - I PROGETTI MILITARI PER LE OPERAZIONI DI STAY BEHIND IN VISTA DELL’INVASIONE E LA COSTITUZIONE DELLE “GUARDIE AI LABARI” DA PARTE DEL P.N.F.
- Il Regio Esercito.
- La Regia Marina.
- La Guardia ai Labari.
CAPITOLO 3° - IL PIANO MUTI.
APPENDICE AL CAPITOLO 3° - IL MEMORIALE DE PASCALE.
CAPITOLO 4° - LA RESISTENZA CLANDESTINA IN SICILIA FINO AL SETTEMBRE 1943.
CAPITOLO 5° - LA RESISTENZA CLANDESTINA IN SICILIA DAL SETTEMBRE 1943 ALLA FINE DELLA GUERRA.
- Il M.U.I. e i moti dei “non si parte”.
- Le repubbliche di Palazzo Adriano, Piana degli Albanesi e Comiso.
APPENDICE NR.1 AL CAPITOLO 5° - IO C’ERO - INTERVISTA A ARISTIDE GIUSEPPE METTLER
APPENDICE NR. 2 AL CAPITOLO 5° - IO C’ERO – TESTIMONIANZA DI LORENZO PURPARI.
CAPITOLO 6° - IL FASCISMO CLANDESTINO IN SARDEGNA.
- Padre Usai.
- I moti dei “non si parte” in Sardegna.
- La propaganda della R.S.I. destinata ai sardi.
CAPITOLO 7° - I FATTI DI CALABRIA.
APPENDICE NR. 1 AL CAPITOLO 7° - INTERVISTA A NAPOLEONE FIORE MELACRINIS, DETTO LIONELLO.
APPENDICE NR. 2 AL CAPITOLO 7° - IO C’ERO - INTERVISTA A CICCIO (FRANCESCO) FATICA.
APPENDICE NR. 3 AL CAPITOLO 7° - IO C’ERO - TESTIMONIANZA DI NICOLA PLASTINA.
APPENDICE NR. 4 AL CAPITOLO 7° - Si riporta di seguito lo stralcio di un rapporto del 4 maggio 1944 della Legione Territoriale Dei Carabinieri Reali di Catanzaro - Ufficio Servizio, avente come oggetto: “Scoperta movimento rivoluzionario e di sabotaggio”.
APPENDICE NR. 5 AL CAPITOLO 7° - Rapporto Stato Maggiore S.I.M. - N. 10126 di protocollo. Napoli 21 ottobre 1944. Ill.mo Signor Procuratore presso il Tribunale Militare di Napoli.
APPENDICE NR. 6 AL CAPITOLO 7° - elenco completo degli imputati in ordine alfabetico trasmesso dal Procuratore Militare del Regno al Tribunale Militare Territoriale di Guerra della Calabria.
CAPITOLO 8° - L’ATTIVITÀ DELLA COPPIA PIGNATELLI E IL FASCISMO CLANDESTINO IN CAMPANIA.
- L’attivita’ della rete dopo l’arresto del principe
- I contatti con la banda Giuliano
CAPITOLO 9° - GLI AGENTI DELLA RSI E L’ATTIVITA’ DEI FASCISTI CLANDESTINI.
APPENDICE AL CAPITOLO 9° - IO C’ERO - INTERVISTA ALL’ARCH. ANTONIO DE PASCALE.
CAPITOLO 10° - LA GUERRA “GUERREGGIATA” DEL FASCISMO CLANDESTINO IN CAMPANIA
APPENDICE AL CAPITOLO 10° - IO C’ERO - INTERVISTA A GISBERTO CAFARO
CAPITOLO 11° - IL FASCISMO CLANDESTINO IN PUGLIA
CAPITOLO 12 - IL M.I.F.

PARTE SECONDA
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA – I SERVIZI SPECIALI DELLA R.S.I.
CAPITOLO 12° - GLI AGENTI DEI SERVIZI SPECIALI DELLA R.S.I. OPERANTI DIETRO LE LINEE ANGLOAMERICANE NELL’ITALIA INVASA.
CAPITOLO 13°- I SERVIZI SEGRETI DELLA RSI
- L’antefatto - i servizi segreti fino all’8 settembre 1943
- Gli altri servizi segreti
CAPITOLO 14° - I SERVIZI SPECIALI – IL GRUPPO DAVID
CAPITOLO 15° - TOMMASO DAVID e CARLA COSTA
CAPITOLO 16°- I SERVIZI SPECIALI DELLA X° FLOTTIGLIA MAS
CAPITOLO 17° -L’AERONAUTICA REPUBBLICANA E I SUOI AGENTI SPECIALI
CAPITOLO 17°- LA RUBRICA INTESTATA “ENEMY AGENTS”
CAPITOLO 18°- GLI AGENTI SPECIALI FUCILATI DAL NEMICO ANGLOAMERICANO
CAPITOLO 19°- IL DOPOGUERRA
L’AUTORE
Daniele Lembo, nasce nel 1961 a Minori (SA), in Costiera Amalfitana. Dopo la maturità liceale frequenta il corso biennale della Scuola Ispettori della Guardia di Finanza. Appassionato di studi storici sulla partecipazione italiana al secondo conflitto mondiale è autore di varie cronache sull’argomento.
Suoi articoli sono apparsi su Storia del XX Secolo, Storia del Novecento, Storia e Dossier, Storia Verità, Eserciti nella Storia, Storia e Battaglie, Aerei nella storia, Aeronautica, Cockpit.
Nel 1999 è stata edita una sua monografia dal titolo “Taranto…fate saltare quel ponte”, avente come tema i Nuotatori Paracadutisti della Regia Marina; nel 2000 è apparso un suo saggio dal titolo “I Fantasmi di Nettunia – I reparti della R.S.I. impegnati sul fronte di Anzio – Nettuno”; nel 2001 sono apparsi due altri suoi lavori, di cui uno avente come tema la storia Regia Aeronautica dal titolo “Il lungo Volo della Regia” ed un saggio dal titolo” I Servizi Segreti di Salò – Servizi Segreti e Servizi Speciali nella Repubblica Sociale Italiana”. Nell’anno 2002 è stato pubblicato “Il prigioniero di Wanda”, ovvero il suo primo romanzo d’ambientazione storica.
Infine, nell’anno 2003 ha dato alle stampe il volume “La Carne contro l’acciaio - Il Regio Esercito Italiano alla vigilia della seconda guerra mondiale“
Attualmente vive a Cisterna di Latina.

 

mercoledì 17 agosto 2016

I SOMMERGIBILI TASCABILI ITALIANI NEL SECONDO CONFLITTO MONDIALE



I SOMMERGIBILI TASCABILI ITALIANI NEL SECONDO CONFLITTO MONDIALE
Durante il Ventennio fascista, comparve un manifesto teso a propagandare la preparazione navale dell’Italia. L’affissione murale mostrava la silhouette della penisola italiana, sulla quale erano indicate le dislocazioni delle varie Armate e delle batterie costiere. Nel Mar Mediterraneo erano raffigurate le sagome delle navi della flotta e una enorme quantità di sommergibili. Questi ultimi erano schierati su una linea continua ed impenetrabile lungo tutta la costa della penisola. Sul cartellone in questione campeggiava la scritta “E’ vulnerabile l’Italia? No!”.
Benché la propaganda si discosti di norma dalla realtà, dandone un’immagine falsata, nel caso citato, per quanto riguarda i sommergibili, il grafico pubblicitario aveva illustrato in modo reale la situazione della Flotta subacquea.
Alla data del 10 giugno 1940, la Marina italiana disponeva di 115 sommergibili, di cui 38 oceanici e 77 costieri. Le unità subacquee italiane erano, per numero, seconde solo a quelle della Russia, la cui flotta subacquea comprendeva 160 sommergibili i quali però erano costretti ad operare divisi, impegnati in quattro mari diversi, senza potersi prestare reciproco aiuto. Inoltre, molti dei battelli con la “stella rossa” erano di modestissimo tonnellaggio e destinati esclusivamente all’impiego costiero. Oltre ai 115 Smg. in linea alla data dell’entrata in guerra, la Marina nazionale stava completando l’allestimento dei sommergibili Bianchi e Torelli ed erano in costruzione altri 6 sommergibili oceanici e 6 tascabili.
Si trattava di un numero di Unità considerevole che non mancò di impressionare anche Hitler, nel corso della sua visita in Italia, quando fece da spettatore ad una eccezionale manovra navale a Napoli, nel corso della quale si videro emergere, contemporaneamente, dalle acque del golfo decine di sommergibili.
Uno degli aspetti meno conosciuti della storia del sommergibilismo italiano nella seconda guerra mondiale è quello dei sommergibili tascabili. Ai 117 sommergibili iniziali, andarono ad aggiungersi altre 15 unità oceaniche e 53 unità di tipo Mediterraneo. Tra questi vi furono 26 piccoli sommergibili, appartenenti alla Classe C.B. che entrano in servizio a partire dal 1941.
Il volume I sommergibili tascabili italiani nel secondo conflitto mondiale” di Daniele Lembo, tratta proprio di quest’aspetto poco sconosciuto della Regia Marina.
I C.B., o Sommergibili Caproni tipo “B”, erano realmente minuscoli, dislocavano 35 tonnellate, avevano una velocità in emersione di 8 nodi e in immersione di 5 nodi ed erano armati con due tubi lanciasiluri esterni. Trassero origine da due sommergibili C.A., progettati e costruiti dalla ditta Caproni di Taliedo nel 1937, che dislocavano appena 13,5 tonnellate ed avevano appena due uomini d’equipaggio.
Nelle intenzioni dei progettisti, i due C.A. avrebbero dovuto essere impiegati in missioni d’agguato in passaggi obbligati, quali gli stretti, per creare sbarramenti difensivi costieri o anche per forzare le basi portuali nemiche. Si rivelarono poco idonei allo scopo prefisso e, come è facile intuire, dalle numerose migliorie apportate nacquero i C.B., unità di maggiori dimensioni e con un equipaggio composto da 4 persone. Chi meglio di Giovanni Sorrentino, che comandò uno di quei gioielli, può descriverli: ”I CB, dal punto di vista tecnico costruttivo, erano dei veri gioielli, nel senso che, pur con un limitatissimo tonnellaggio, erano dotati di tutte le apparecchiature di un sommergibile normale. Lo scafo resistente permetteva di raggiungere la quota di 50 metri con un coefficiente di resistenza superiore all’unità: durante l’addestramento ebbi l’occasione di sostare sul fondo a 65 metri di profondità. La propulsione in immersione era assicurata da un motore elettrico che consentiva spunti di velocità di 12 nodi (per un’ora a batterie cariche), mentre per la navigazione di superficie si utilizzava un motore diesel del tipo di quello montato sui grossi automezzi, che consentiva un’autonomia di circa 1.500 miglia a velocità di crociera (5-6 nodi). Lo stesso motore era usato anche per la ricarica delle batterie.
Le altre apparecchiature erano costituite da: un impianto idrodinamico calzoni per comandare il movimento dei timoni (orizzontale e verticale) nonché la manovra degli sfoghi d’aria e degli allagamenti; un apparato idrofonico costituito da una sfera di circa 40 cm. di diametro, inizialmente sistemata in coperta al centro della prora ma spostata poi in chiglia in modo da non essere obbligati ad immergersi per effettuare l’ascolto idrofonico; un periscopio fisso con possibilità di visione sia oculare che panoramica. Solo quando era al periscopio, il comandante poteva stare ritto in piedi; altrove bisognava stare seduti o comunque chinati. A prora era posto un ottimo materasso per poter riposare finalmente sdraiati; due tubi di lancio per siluri da 450 mm. sistemati esternamente ai lati dello scafo. I CB erano dotati di due portelli di ingresso: uno a proravia della torretta, dove stava il Comandante durante la navigazione in superficie e l’altro a poppavia della torretta stessa. Durante la navigazione in superficie con mare calmo, il Comandante poteva sedersi su di una specie di “mensola” saldata in torretta”1

I C.B. trovarono impiego sul Mar Nero a partire dal 1942. Il 25 aprile di quell’anno, via ferrovia, partirono da La Spezia i 6 sommergibili della 1° Squadriglia C.B., raggiungendo Costanza il successivo 2 di maggio. Le piccole unità subacquee conseguirono numerosi e lusinghieri successi affondando alcune unità nemiche, risultando una spiacevole novità per i russi.
Il più interessante disegno riguardante le minuscole unità in questione fu ordito dalla Decima Flottiglia Mas. Il progetto prevedeva di impiegare un piccolo C.A. per attaccare il porto di New York. Un sommergibile oceanico avrebbe dovuto trasportare in coperta il sommergibile tascabile fino alla foce dell’Hudson, dopodiché il “tascabile” sarebbe proceduto da solo, facendo da mezzo avvicinatore per gli assaltatori subacquei della Decima.
I due C.A disponibili vennero modificati per l’operazione, come pure venne modificato il sommergibile oceanico Da Vinci, destinato a fare da sommergibile “madre” al C.A.2. Le prove di trasporto e rilascio del sommergibilino furono iniziate il 9 Settembre 1942 a Bordeaux e si svolsero con esito positivo. Benché i test dimostrarono la fattibilità del progetto, questo non venne però mai portato a termine. Prevista per il dicembre del 1943, l’azione contro New York venne accantonata a causa dei noti fatti armistiziali del settembre ‘43.
La dedizione e lo spirito di sacrificio dei sommergibilisti, nel corso della seconda guerra mondiale, fu al di sopra della portata di qualunque elogio umanamente possibile. Immagini il lettore che cosa possa voler dire vivere e combattere in quel cassone che è il sommergibile che, da macchina da guerra qual è, è anche pronto a trasformarsi in feretro e tomba.
Resta lapidaria la definizione che di questi battelli hanno dato Rastelli e Bagnasco in una loro opera: “Sono unità di piccola autonomia, bassa velocità e scarsissima abitabilità; la vita a bordo è un tormento ma nonostante questo riescono ad agire in modo abbastanza efficace2. Il volume “I sommergibili tascabili italiani nel secondo conflitto mondiale” di Daniele Lembo (MA.RO Edizioni costo euro 15), intende ricordare al lettore la vita e l’operato degli uomini che combatterono a bordo di queste piccole unità, affinché il loro sacrificio non venga dimenticato  
INDICE
  1. PREMESSA
  2. LA REGIA MARINA ALL’ENTRATA IN GUERRA
  3. I SOMMERGIBILI TIPO “C.A.”
  4. I “TASCABILI” DELLA CLASSE “C.B.”
  5. LA SPEDIZIONE IN MAR NERO.
  6. L’8 SETTEMBRE 1943 IN MAR NERO
  7. CLI ALTRI C.B. E L’8 SETTEMBRE 1943
  8. I C.B. DELLA DECIMA FLOTTIGLIA MAS E I C.B. COBELLIGERANTI
    1. LA DECIMA FLOTTIGLIA MAS
    2. I COBELLIGERANTI
  9. I SOMMERGIBILI COSTIERI C.M. E C.C.
  10. I PROGETTI E GLI STUDI RELATIVI AI SOMMERGIBILI “TASCABILI”
  11. IL SOTTOMARINO ULTRA LEGGERO TIPO RAZZO “DELFINO”
  12. I C.A. DELLA DECIMA FLOTTIGLIA MAS E L’ATTACCO AL PORTO DI NEW YORK
  13. CONCLUSIONI
L’AUTORE
Daniele Lembo, nasce nel 1961 a Minori (SA), in Costiera Amalfitana. Dopo la maturità liceale frequenta il corso biennale della Scuola Ispettori della Guardia di Finanza. Appassionato di studi storici sulla partecipazione italiana al secondo conflitto mondiale è autore di varie cronache sull’argomento.
Suoi articoli sono apparsi su Storia del XX Secolo, Storia del Novecento, Storia e Dossier, Storia Verità, Eserciti nella Storia, Storia e Battaglie, Aerei nella storia, Aeronautica, Cockpit.
Nel 1999 è stata edita una sua monografia dal titolo “Taranto…fate saltare quel ponte”, avente come tema i Nuotatori Paracadutisti della Regia Marina; nel 2000 è apparso un suo saggio dal titolo “I Fantasmi di Nettunia – I reparti della R.S.I. impegnati sul fronte di Anzio – Nettuno”; nel 2001 sono apparsi due altri suoi lavori, di cui uno avente come tema la storia Regia Aeronautica dal titolo “Il lungo Volo della Regia” ed un saggio dal titolo” I Servizi Segreti di Salò – Servizi Segreti e Servizi Speciali nella Repubblica Sociale Italiana”. Nell’anno 2002 è stato pubblicato “Il prigioniero di Wanda”, ovvero il suo primo romanzo d’ambientazione storica.
Infine, nell’anno 2003 ha dato alle stampe il volume “La Carne contro l’acciaio - Il Regio Esercito Italiano alla vigilia della seconda guerra mondiale“
Attualmente vive a Cisterna di Latina.

lunedì 15 agosto 2016

MUSSOLINI e il concetto dello Stato nelle riflessioni di Biggini

Mussolini e il concetto dello Stato nelle riflessioni di Biggini

La storia attraverso i documenti

Mussolini e il concetto dello Stato nelle riflessioni di Biggini
"Alla base del futuro ordine europeo e mondiale, c'è la Sua concezione dello Stato, c'è la Rivoluzione fascista: rivoluzione nell'ordine dello spirito come in quello del diritto, nell'ordine economico come in quello sociale"
Siamo ancora con Carlo Alberto Biggini, il quale collega lo scritto esaminato nei giorni scorsi risalente al 25 giugno 1922 relativo alla concezione dello Stato e lo mette a confronto con "gli altri innumerevoli che ciascuno di noi può ritrovare con una attenta ed intelligente lettura dei suoi scritti e discorsi". Biggini parla naturalmente di Mussolini, e sottolinea quindi come attraverso questo esame del pensiero mussoliniano attraverso il tempo "si avrà di fronte la personalità morale intellettuale politica di Benito Mussolini in tutta la sua mirabile profetica coerenza, in tutta la grandezza del Suo genio". E giunge così al "grande disegno" del Duce: "dal Covo all'Impero". Ecco cosa ci dice Biggini: "La crisi dello Stato italiano apre alla sua mente (e in questo senso la crisi 1919-1922 fu veramente benefica) il grande tormentoso problema di una Italia che doveva ritornare Impero, di una Roma che doveva nuovamente esercitare nel mondo la sua funzione di universalità politica. La più alta delle sue idealità, la più profonda e drammatica delle sue passioni: idealità e passione che hanno fatto a lui trovare la forza e la saggezza necessarie per interpretare, orientare e dominare il corso della storia di questo titanico secolo, che porterà il Suo nome". Pensate un po': il secolo di Mussolini... sarebbe dovuta andare così, già. Poteva mai immaginare, Biggini, che pure fu una mente illuminata, quale ingratitudine questo popolo, oggi, avrebbe palesato? Certamente no. No, non perché Biggini non fosse capace di comprendere, semplicemente no perché quella storia non meritava e non merita la damnatio memoriae. Ed è persino troppo facile addurre le prove di quanto si dice su queste colonne, e basta leggerle ogni giorno per comprenderlo. "Alla base dell'Impero, alla base del futuro ordine europeo e mondiale, c'è la Sua concezione dello Stato, c'è la Rivoluzione fascista: rivoluzione nell'ordine dello spirito come in quello del diritto, nell'ordine economico come in quello sociale".
Ma questa Rivoluzione, sottolinea Biggini, non è fine a se stessa: "Pochi movimenti politici - dice - possono essere designati, nella storia, con la suggestiva parola di 'rivoluzione' come il movimento fascista. E difatti una rivoluzione non è tanto un moto violento di popolo che, mediante la forza, conquista il potere, ma bensì un movimento politico-sociale, un processo storico che riesce a dar vita ad un nuovo ordinamento della società e dello Stato. Ossia la rivoluzione-mezzo per trasformare lo spirito del popolo e per instaurare un nuovo ordine: la rivoluzione non fine a se stessa, ma mezzo per realizzare la nuova concezione politica attraverso un lavoro lungo e duro". Insomma il Fascismo fu una rivoluzione, dice Biggini. Lo fu davvero, esso rivoluzionò lo spirito degli Italiani, per dirla con Biggini risvegliò nel popolo "il sentimento del dovere, della lotta, del sacrificio, l'abitudine alla disciplina, il senso dell'obbedienza, l'idea della subordinazione dell'individuo allo Stato, della solidarietà, della collaborazione". E se guardiamo a questo tempo, in cui tutto questo non c'è più, l'amarezza è davvero tanta. Oggi se si parla di disciplina, di ordine, di "subordinazione" qualcuno potrebbe insorgere, perché si tende a esaltare fino alle estreme conseguenze il concetto di libertà, fino a confonderlo con quello di anarchia. E guardate che parlare di libertà non è cosa semplice. In troppi si riempiono la bocca di concetti come libertà e solidarietà, senza avere piena coscienza della severità che questi due termini essenziali per la vita dell'essere umano portano con sé. La libertà è qualcosa di estremamente complesso, è "difficile", la libertà. Se ne fa uso e abuso, troppo spesso, riducendo questo concetto alla "possibilità di fare ciò che si vuole". Ma no, signori, questa non è "libertà": questo è svilire il concetto di libertà, questo è relegare il concetto di libertà, costringerlo entro confini che ad esso non appartengono. Libertà è ben altro: libertà è rispetto, libertà è pensiero e azione che si concretizzano per un bene più alto, che è quello dello Stato, della Nazione, della comunità alla quale si appartiene. Libertà è consapevolezza, libertà è cultura, è sapere, è conoscere. Senza conoscenza, senza consapevolezza non può esservi libertà. Possedere i valori, questo è libertà. Altrimenti si è amebe, altrimenti si ignora, e chi ignora non è libero: è schiavo della peggiore schiavitù, che è quella culturale e di pensiero.

emoriconi@ilgiornaleditalia.org
Emma Moriconi

                                                                                                                                                

sabato 13 agosto 2016

SANT'ANNA DI STAZZEMA E I PARTIGIANI ASSASSINI

Sant'Anna di Stazzema e i partigiani assassini/1

Dopo settant'anni diventa necessario riflettere sulle vicende che insanguinarono lo Stivale in quell'epoca di odio cieco

Sant'Anna di Stazzema e i partigiani assassini/1
"Una delle pagine più infami della 'guerra privata' scritta dai comunisti, col sangue di centinaia di innocenti"
"Una delle pagine più infami della 'guerra privata' scritta dai comunisti durante la guerra civile. È una pagina scritta col sangue di centinaia di innocenti. Una pagina veramente incredibile nella sua agghiacciante assurdità": così Giorgio Pisanò definisce la strage di Sant'Anna di Stazzema del 12 agosto 1944. "I partigiani rossi - scrive ancora - provocarono coscientemente la rappresaglia tedesca, lasciarono quindi che le SS massacrassero centinaia di civili e tornarono, quindi, a strage ultimata, per rapinare i cadaveri delle vittime".
Una pagina buia della nostra storia, buia e triste, tra le più brutte che l'Italia ricordi. Che ricorda, però, raccontandone troppo spesso solo un pezzo. La vicenda di Sant'Anna di Stazzema, in realtà, è ben più tragica, se possibile, di quanto riportato sui libri di storia. Più buia, e più triste, perché a causare il massacro di tutti quei civili furono altri italiani, partigiani rossi, avvezzi nell'epoca della guerra civile a provocare spargimento di sangue al fine di ergersi ad eroi della Patria e a far ricadere sull'altra parte l'anatema dei decenni a venire. Lo abbiamo visto spesso, e il lettore attento lo ricorderà: abbiamo parlato degli assassinii di Ghisellini, di Resega, di Facchini, di Capanni, tutti orditi al solo fine di seminare odio, spargere sangue, suscitare rappresaglie, negare ogni ipotesi di pacificazione e di fine dell'orrore. Accadde molto spesso, accadde per esempio a Via Rasella, che provocò lo scempio delle Ardeatine, scientemente e consapevolmente. Accadde a Bettola, sull'Appennino reggiano, a Marzabotto, nel biellese, e sono solo alcuni esempi. Accadde anche a Sant'Anna di Stazzema, alla cui vicenda è dedicato il piccolo approfondimento di oggi, in concomitanza con il triste anniversario di quella orrenda strage.
La vicenda di Sant'Anna di Stazzema comincia nella primavera del 1944: a raccontare a Giorgio Pisanò com'era la situazione in quello che fino ad allora era stato un angolo di paradiso è Duilio Pieri, che nella strage perse il padre, la moglie, due fratelli, le cognate e quattro nipotini e che nel 1945 era divenuto presidente del Comitato vittime civili di guerra della zona: "Giunse la primavera del 1944 - dice Pieri - E, con la primavera, cominciarono a farsi vivi i primi partigiani". Pisanò è abituato a raccontare i fatti portando le prove di quello che dice, dunque ascoltò anche Amos Moriconi, che nella strage aveva perso la moglie, la figlia di due anni, la madre, due sorelle, un fratello e il suocero. "Li vedemmo apparire a Sant'Anna verso la fine di marzo - racconta - e li accogliemmo così come avevamo accolto gli sfollati, fraternamente, pronti ad aiutarli. Nessuno di noi sollevò questioni di natura politica. Ma ci accorgemmo ben presto che la nostra umanità non era molto apprezzata. Gli sbandati, infatti, si accamparono sul crinale delle montagne che sovrastano a semicerchio il paese e pretesero che noi li rifornissimo di viveri. Non ci restò che piegarci alla imposizione. Ma, nonostante ciò, questi individui cominciarono a perquisire le abitazioni, portando via tutti i viveri che trovavano. Il malumore serpeggiò ben presto tra la popolazione, ma ogni tentativo di ribellione venne soffocato con la minaccia delle armi spianate". È facile e comodo presentarsi in un paesino di agricoltori, allevatori ed artigiani, gente povera e semplice, che non dispone di armi, e pretendere qualsiasi cosa. Ed è facile organizzare un gruppo di sbandati in un manipolo di guerrafondai. Cosa che avviene presto, infatti: nasce così la Brigata 10 bis Garibaldi. "Molti fascisti furono uccisi nelle loro abitazioni - racconta ancora Pisanò - spesso sotto gli occhi dei familiari. Altri invece vennero condotto prigionieri  tra le montagne, e lì trucidati senza alcuna parvenza di processo. Ma queste azioni provocarono solo raramente la rappresaglia dei fascisti. Nella zona di Sant'Anna anzi le camicie nere non effettuarono mai rastrellamenti. Né i tedeschi si scaldavano eccessivamente per questi episodi di guerra civile tra italiani. Quando però i partigiani comunisti accentuarono  la loro attività nei confronti delle truppe germaniche, fu subito chiaro che le ritorsioni non si sarebbero fatte attendere".
Nessuna rappresaglia è giustificabile, di nessun genere - sebbene sia una pratica consolidata ed ammessa, con determinate regole ed entro certi limiti, dalle leggi di guerra - e non c'è alibi che tenga per un massacro di civili, questo è evidente. Ma assegnare a ciascuno le proprie responsabilità deve essere un dovere: verso se stessi, verso chi legge e verso la nostra storia. È per questa ragione che la vicenda di Sant'Anna, come le tante dello stesso genere, va raccontata tutta. L'epilogo si questa orribile storia di sangue è l'argomento della seconda parte di questo piccolo speciale, on line domani sul Giornale d'Italia. (... continua ...)
Emma Moriconi
emoriconi@ilgiornaleditalia.org

Sant'Anna di Stazzema, settant'anni dopo/2

Se ne andarono obbligando i civili a non muoversi: si consumò così una delle più orrende pagine della nostra storia

Sant'Anna di Stazzema, settant'anni dopo/2
"I partigiani continuavano a ripeterci che ci avrebbero difesi con ogni mezzo": e invece erano stati proprio loro a sacrificarli sull'altare di una memoria postuma a proprio uso e consumo
I tedeschi sanno che nello stazzemese sono rintanate bande partigiane, dunque organizzano gruppi di pattuglia e di controllo del territorio ed iniziano i rastrellamenti dei partigiani nell'alto versante della montagna. "I partigiani - raccontano alcuni superstiti a Pisanò - avevano sparato dalle nostre case contro i tedeschi. Prima o poi, lo sapevamo bene, il rastrellamento sarebbe giunto anche a Sant'Anna. Ma ci sorreggeva un filo di speranza. I partigiani, infatti, continuavano a ripeterci che non se ne sarebbero andati, che ci avrebbero difesi con ogni mezzo, che non c'era da temere perché loro erano più forti dei tedeschi. Ma la mattina del 9 agosto venne affisso sulla porta della chiesa un manifesto del comando germanico. Era l'ordine di sgombero per la popolazione civile: ci davano poche ore di tempo per andarcene tutti. I civili che fossero stati sorpresi ancora in paese dalle truppe rastrellatrici, sarebbero stati considerati favoreggiatori dei partigiani e fucilati come tali. La voce si sparse in un baleno. I comunisti però intervennero subito strappando il manifesto tedesco e affiggendone un altro nel quale facevano obbligo ai civili di non muoversi. Che cosa dovevamo fare? Eravamo presi tra due fuochi. La presenza minacciosa dei partigiani comunisti era molto più concreta di qualsiasi ordinanza tedesca. Così restammo tutti".
Vile ricatto, a voler riassumere il tutto con due sole parole. Che però non bastano a dare la dimensione dell'orrore delle azioni partigiane: perché se davvero costoro fossero rimasti al fianco della popolazione civile, allora si, li si dovrebbe ricordare come eroi, pronti a tutto pur di difendere la vita e la libertà di un popolo. Ma così non fu, anzi accadde l'esatto contrario: non solo gli abitanti di Sant'Anna furono costretti a non lasciare le loro case sotto la vile minaccia dei partigiani, ma essi furono lasciati soli. "Gli abitanti di Sant'Anna - scrive ancora Pisanò - gli sfollati che avevano cercato salvezza nel borgo appenninico non potevano certo sospettare, in quei momenti, che i comandi comunisti avevano freddamente deciso di sacrificarli": vili assassini, altro che eroi. "Quel giorno stesso - continua il giornalista - i partigiani rossi sparirono dalla circolazione. In paese non li vide più nessuno. [...] Se ne andarono obbligando i civili a non muoversi: calcolarono infatti cinicamente che le SS avrebbero scambiato gli uomini di Sant'Anna per partigiani comunisti e li avrebbero massacrati, tornando alle loro basi con la certezza di aver 'ripulito' la zona".
Alle 6 del mattino del 12 agosto 1944 inizia l'incubo: i tedeschi assaltano le frazioni che circondano Sant'Anna. A temere la rappresaglia sono soprattutto gli uomini: i tedeschi cercano i partigiani, che c'entrano in fondo le donne e i bambini. Dunque sono gli uomini a cercare riparo fuori dalle rispettive case. E poi la popolazione civile inerme spera ancora che a difenderli giungano gli eroici partigiani, in fondo glielo avevano promesso ... ma i partigiani sanno bene cosa sta per succedere, e si sono arroccati ben nascosti sulle montagne intorno al paese, da dove si può assistere a tutto ciò che accade ma si è a distanza di sicurezza e non si rischia di essere coinvolti nella guerriglia. Assassini e vigliacchi. Non eroi.
A raccontare ancora a Pisanò l'orrendo spettacolo è Mario Bertelli: "Dal mio nascondiglio potevo sentire l'eco degli spari e delle raffiche. La distanza mi impediva di udire le grida e le invocazioni d'aiuto. Per un po' di tempo ritenni così che i tedeschi sparassero più che altro per intimidire la popolazione, come era già accaduto altre volte. Poi cominciai a vedere il fumo degli incendi. Bruciavano case un po' dovunque. Mi resi conto che la situazione si stava facendo tragica. Ero solo, senza armi. Tornare in paese in quelle condizioni non sarebbe servito a nulla: non avrei potuto aiutare i miei familiari e sarei caduto subito nelle mani dei tedeschi. Trascorsi così ore di agonia. Alla fine gli spari diminuirono di intensità e poi cessarono del tutto. Mi avviai allora verso l'abitato. Avrei voluto correre ma ero troppo debole a causa della malattia: l'orgasmo e il terrore di quanto avrei potuto vedere in paese mi piegavano le gambe. Quando giunsi, molte case stavano bruciando. Mi avvicinai alla prima: vidi alcuni cadaveri tra le fiamme. Allora corsi urlando come un pazzo verso la mia casa. Era stata distrutta dalle fiamme, ma tra le macerie infuocate non trovai alcun cadavere. Mi spinsi allora fino alla piazza della chiesa, da dove vedevo levarsi un fumo denso. Ma quando vi arrivai, una scena spaventosa mi inchiodò al suolo senza che avessi più la forza di avanzare di un passo: un mucchio enorme di cadaveri stava bruciando lentamente. Ad un tratto mi sentii afferrare convulsamente e una voce, quella di mio padre, singhiozzò: 'Sono là dentro, tutti'. Seppi così che nell'orribile cumulo c'erano anche mia moglie, mia madre, le mie sorelle Pierina e Aurora e mio nipote".

"Le testimonianze dei sopravvissuti di Sant'Anna sono concordi nell'attribuire ai partigiani comunisti la responsabilità morale del massacro"
Due volte vigliacchi
Dopo la strage si avventarono come sciacalli sui corpi degli uccisi e li depredarono dei propri averi
I giorni successivi ai superstiti tocca la triste sorte di seppellire quei corpi: molti di essi sono irriconoscibili, quindi vengono tumulati insieme, in una grande fossa comune. Solo in quel piccolo agglomerato vengono seppelliti centotrentadue corpi, in maggioranza donne e bambini. Le vittime in tutto sono centinaia. La storia ufficiale dice 560, ma probabilmente il numero reale è inferiore a questa cifra: è ancora Pisanò a fare un'indagine in merito, battendo tutta la zona di persona e contando casa per casa il numero degli occupanti: la cifra più probabile  è quella d 300-350 vittime. Dato confortato anche dall'opuscolo "Fuoco sulla Versilia" di Anna Maria Rinonapoli che conta 340 nomi. Che siano 560 o 340 in realtà non cambia di molto la percezione di orrore che una strage del genere produce. Ma è un dato che suscita quantomeno una riflessione: per l'uso demagogico ed ideologico che si è fatto di questa strage (del resto, la strage era stata concepita dai comunisti proprio a fini demagogici), per i comunisti più sono le vittime e meglio è. C'è dell'altro: nessun italiano fascista e repubblicano ha partecipato a quell'orrore, lo confermano i verbali delle indagini e dei processi celebrati nel dopoguerra relativi ai fatti della zona. La responsabilità di quel sangue versato ricade tutto sui tedeschi e sui partigiani che lo provocarono, con dolo ed a proprio uso e consumo, affinché i libri di storia raccontassero nei decenni a venire di quanto orrore il "nazifascismo" (termine estremamente abusato) avesse seminato e di quanto eroismo si fossero fregiati i partigiani. Una storiella che prima o poi anche la storia "ufficiale" sbugiarderà.
"Tutte le testimonianze dei sopravvissuti di Sant'Anna - riferisce Pisanò - sono concordi nell'attribuire ai partigiani comunisti la responsabilità morale del massacro. [...] È indiscutibile, inoltre, che i partigiani non si allontanarono dalla zona, ma rimasero nascosti tra le rocce e i boschi delle montagne attorno a Sant'Anna. Lo prova il fatto che nemmeno due ore dopo la fine del massacro tornarono a farsi vivi in paese [...] Perché non intervennero a difesa dei civili? Perché non tentarono di attaccare le SS per dare tempo ai vecchi, alle donne, ai bambini di Sant'Anna di fuggire nei boschi?". Ma c'è di più: gli sciacalli tornarono in paese e spogliarono i cadaveri delle vittime, si appropriarono dei loro beni, vergogna su vergogna. È ancora Amos Moriconi a fornire una preziosa testimonianza: "Credo di essere stato uno dei primissimi, se non il primo a rientrare nel paese distrutto e pieno di morti. Trovai la mia casa che bruciava. Di mia moglie e di mia figlia nessuna traccia. Non tardai purtroppo a sapere che erano state massacrate nel piazzale della chiesa. Ma non era finita: poco dopo, alla Vaccareccia, trovai le salme di mia madre e dei miei tre fratelli. Mi aggirai come un folle per le rovine di Sant'Anna. Non sapevo più che cosa dovevo fare; non riuscivo nemmeno a pensare. Fu allora che qualcuno mi disse che era necessario seppellire subito i morti. Raccolsi un po' di attrezzi e scavai una grande buca. Poi trasportai lì presso le salme dei miei congiunti e cercai di comporle prima di seppellirle. Mentre mi stavo dedicando a questa orribile incombenza, vidi i partigiani. Erano due. Uno lo conoscevo bene da tempo: si faceva chiamare 'Timoscenko'. Si avvicinarono a me. Notai subito che avevano le tasche piene di portafogli, oggetti d'oro e d'argento. Li guardai senza parlare. 'Timoscenko' allora mi disse: 'Devi consegnarci tutti i soldi e gli oggetti di valore che trovi sui morti. Siamo noi che dobbiamo prenderli in consegna'. Mi sentii salire il sangue alla testa: impugnai la picozza e la alzai di scatto: 'Vattene!' gli dissi. 'Vai via se non vuoi che ti spacchi il cranio'. 'Timoscenko' esitò un momento e poi, senza replicare, si allontanò". Un'altra testimonianza la fornisce Teresa Pieri, che racconta di aver veduto due partigiani comunisti dividersi soldi, bracialetti, catenine d'oro appartenute ai suoi cari. Quando alla viltà non c'è fine. Aggiungiamo, per dovere di cronaca, che nulla di quanto pubblicato da Pisanò, prima sul settimanale Gente e poi nei suoi volumi, ha mai dato origine a smentite o a precisazioni di alcun genere.
emoriconi@ilgiornaleditalia.org
Emma Moriconi

                                                                                                                                            

mercoledì 10 agosto 2016

22 luglio 1943: PALERMO CADE…COMBATTENDO!


Sicily map U.S. Army Center of Military History
Fig.1 La linea del fronte dal 12 luglio al 17 agosto 1943.
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Fig.2 Memoriale a Sergio Barbadoro, Portella della Paglia, 22 luglio 2016.
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Fig.3 Portella della Torretta, Bunker.
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Fig.4 Cimitero militare americano (provvisorio) di Palermo, 1943.

La “favola” dell’occupazione “indolore” di Palermo e dell’intera Sicilia occidentale nell’estate del 1943 da parte della Settima Armata americana, ancor’oggi è dura a morire. Persiste il “mito” fasullo dei soldati “a stelle e strisce” che, occupata Agrigento la sera del 16 luglio dopo una settimana di duri combattimenti – Patton, in proposito, nel suo diario alla data del 18 luglio scriveva testualmente che “le truppe italiane hanno combattuto con encomiabile accanimento” – (1), avrebbero, invece, fatto successivamente una “piacevole passeggiata” (così la definì il generale Keyes della 3a divisione di fanteria americana)(2) di qualche giorno per conquistare allegramente la parte ovest dell’isola. In realtà, si tratta di una storiella evidentemente costruita dalla propaganda bellica Alleata del tempo di guerra, che poi è assurta al rango di verità incontrovertibile da parte di pubblicisti-storiografi supponenti, poco interessati ad una seria contestualizzazione dei fatti storici e più propensi a rifilare al pubblico la versione di comodo dei cosiddetti “vincitori”. Ancor oggi, rispetto a quegli avvenimenti tragici, la realtà rimane seppellita dalla visione farsesca della spensierata passeggiata oleografica illustrata da foto e cine-giornali americani, che volevano le loro truppe sempre circondate da plaudenti “paisà” smaniosi di cioccolata e sigarette, con i militari italiani nel ruolo di comparse sfuggenti, presenti sempre e solamente con le mani alzate in segno di resa; eppure, partendo dalle stesse fonti militari ufficiali statunitensi, si scopre che solamente alla data del 24 luglio 1943 le truppe di Patton poterono dire di controllare effettivamente “the entire western half of the island”(3), dunque, a più di due settimane dall’inizio delle operazioni di sbarco, avendo lasciato sul campo, solamente durante i sei giorni della “tranquilla scampagnata” verso Palermo e la Sicilia occidentale cominciata il 18 luglio, “appena” 272 uomini tra morti, dispersi e feriti, cifra che si traduce in una media di circa 45 perdite al giorno, contro 2900 militari italiani morti o feriti. A dimostrazione del fatto che “qualche italiano” che li combatté e sparò loro addosso i cosiddetti “liberatori” lungo la loro “passeggiata” dovettero incontrarlo (4). Tutto ciò premesso, va tenuto ugualmente in considerazione che in quella fascia di territorio le agguerrite truppe statunitensi non dovettero misurarsi direttamente con le divisioni italiane, Aosta ed Assietta, né tantomeno con la divisione tedesca Sizilien, che invece, con una difficile manovra tesa ad evitare l’accerchiamento, stavano ripiegando verso la zona orientale dell’isola, sulle linee di difesa predisposte dal comandante della 6a Armata italiana, Generale Alfredo Guzzoni (montagne Madonie prima, Nebrodi poi) (5). Esse, invece, si scontrarono, per lo più, contro piccoli presidi isolati del Regio Esercito, composti nella maggioranza dei casi da addetti ai servizi e non già da unità combattenti, che rappresentarono la massima parte dei loro 53.000 prigionieri di guerra catturati in zona, di cui si vantò il generale Patton. Una “tranquilla passeggiata” dove i cosiddetti autoproclamatisi “liberatori”, va doverosamente ricordato, dopo aver fatto precedere il loro “Sbarco” dalla famigerata pratica dei bombardamenti di saturazione (6), che si tradusse a partire dal 9 maggio 1943 in quasi due mesi d’ininterrotti bombardamenti a tappeto indiscriminati, diurni e notturni, non solo su obiettivi militari ma anche e soprattutto su obiettivi civili, che avevano letteralmente lo scopo di “terrorizzare” la popolazione – dal 2 giugno 1943, significativamente il nome in codice della Sicilia nei messaggi del Quartier Generale degli Alleati fu “horrified”(7) – seguiti dalla costante guerra psicologica dei messaggi che invitavano civili e militari alla resa immediata in cambio della sospirata pace! (8); dopo aver già consumato nei primi giorni dello sbarco numerose stragi a sangue freddo, massacrando centinaia di militari italiani e tedeschi colpevoli di essersi arresi solo dopo aver strenuamente combattuto, o aver fucilato uomini e ragazzi solo perché indossavano una camicia nera (9), si avvalsero certamente, oltre che dell’incomparabile superiorità quantitativa e qualitativa del loro apparato bellico, anche di mezzi tanto squallidi, come l’appoggio dei mafiosi locali prontamente liberati al fine di indurre la popolazione a collaborare pacificamente con gli invasori (10), quanto vigliacchi, quali l’utilizzo di prigionieri italiani come scudi umani per costringere alla resa le truppe locali che essi fronteggiavano di volta in volta (11). E’ in questa cornice, tutt’altro che edificante per gli “invasori democratici”, che va collocata l’occupazione di Palermo avvenuta tra il 22 ed il 23 luglio 1943. Al riguardo la versione ufficiale è categorica… la città cadde senza combattere! Persino a detta del maggiore dell’esercito britannico Hugh Pond, che pure fu uno dei pochi autori anglosassoni che scrisse un resoconto dettagliato sulla campagna militare di Sicilia sforzandosi (ma senza esagerare!) di essere obiettivo, “Palermo non fu difesa”(12). Addirittura, nella versione dei reporter di guerra Alleati, fatta propria incondizionatamente, in modo acritico e senza alcuna riserva dagli storici “nostrani” e anglosassoni, si scrive di “folla in delirio” all’ingresso degli americani in citta (13); senza che nessuno ricordi minimamente come il capoluogo siciliano in realtà fosse quasi deserto poiché la maggior parte della popolazione era ormai sfollata a causa dei bombardamenti (14), dimenticando poi che le foto ritraenti i cosiddetti “bagni di folla”, sapientemente sceneggiati dalla propaganda Alleata, non ritraggono affatto Palermo, bensì alcuni piccoli centri periferici della provincia come Campofelice, Giacalone, Monreale etc. In realtà, a dispetto della propaganda di guerra anglo-americana, a dispetto persino di quel che pensarono in quei giorni caotici e drammatici in piena campagna militare in corso tanto lo Stato Maggiore del Regio Esercito quanto lo stesso generale Guzzoni, comandante delle forze dell’Asse in Sicilia (15), la città non cadde senza che per ore si fosse combattuto. Infatti, la manovra di attacco predisposta dagli americani, che nella prima mattina del 22 luglio avanzarono verso Palermo su due colonne principali, prevedeva che il capoluogo isolano venisse attaccato su tre differenti direttrici: la 3a divisione di fanteria proveniente da Lercara Friddi avrebbe attaccato scontrandosi col presidio di Portella di Mare, la 2a divisione corazzata, proveniente da Alcamo, divisasi a sua volta in due differenti colonne, avrebbe attaccato sia attraverso la strada montana che passava per il presidio di Portella della Paglia, che da Nord-Ovest, superando il presidio di Portella della Torretta (16); l’appuntamento per il ricongiungimento delle due divisioni era fissato per le ore 12:00 del 22 luglio in città! Come riporta il generale Emilio Faldella, “La difesa di Palermo, (affidata al generale Molinero, Ndc.) era costituita da : 4 battaglioni costieri, 1 gruppo appiedato di cavalleria, 2 compagnie mitraglieri, 1 compagnia mortai da 81, 4 batterie costiere, 17 batterie controaeree, delle quali 3 a doppio compito contro‑aeree e antinave, il I° gruppo da 100/27 del 25° artiglieria « Assietta ». Il fronte a terra era stato organizzato col criterio di sbarrare le rotabili convergenti sulla città; ogni Portella era presidiata da una com­pagnia di fanteria con pezzi sciolti d’artiglieria in funzione contro­carro. Non appena era giunta notizia dello sbarco nemico autorità e personalità avevano chiesto al generale Molinero, comandante della Di­fesa Porto « N » (Palermo) i lasciapassare per abbandonare la città. Nella notte sul 20 luglio il prefetto ed il segretario federale partirono da Palermo di nascosto e nella giornata del 20 metà del personale delle batterie controaeree abbandonò il proprio posto. Poiché nella giornata del 21 truppe americane avevano catturato il comando della 208a div. costiera ad Alcamo, il gen. Molinero rin­forzò la difesa di Portella della Torretta (Fig.3), sulla strada per Alcamo, con una compagnia di fanteria ed una batteria del 1°/25° art. e fece brillare le interruzioni stradali a Portella della Torretta e Passo Renda. Alle 4,30 del 22 luglio il colonnello tedesco Mayer, comandante di batterie tedesche controaeree che avevano messo in posizione i loro pezzi da 88 in funzione controcarro, si presentò al Comando Difesa Porto ed assicurò che avrebbe condiviso le sorti del presidio italiano; viceversa, dopo poco, inutilizzati i pezzi, si allontanò dalla città con i suoi dipendenti. Il personale della Capitaneria di Porto si imbarcò per Napoli ed il comandante dell’aeroporto, ad insaputa del generale Molinero, fece incendiare depositi di benzina e bombe. Questi avvenimenti impre­vedibili allarmarono la popolazione e depressero lo spirito delle truppe.”(17) La mattina del 22 luglio, la 3a divisione di fanteria americana attaccò per prima, ma solo dopo alcune ore di combattimento riuscì ad impadronirsi alle 13:00 di Portella del Mare, entrando alla periferia di Palermo alle 17:00; il gen. Molinero, a quel punto impiegò la propria riserva, composta dalla compagnia motomi­traglieri e dal gruppo squadroni appiedato che, al comando del maggiore Mistretta, oppose successive resistenze, riuscendo a ritardare l’avanzata americana fino alle 18:00 (18). Lo stesso maggiore Pond dell’esercito britannico, confermò che il maggiore Mistretta coi suoi uomini si oppose agli americani “con una violenta azione di retroguardia” (19). Mentre nella mattinata si sviluppava l’attacco su Portella di Mare, quasi contemporaneamente alle 9:30 del mattino, la prima colonna della 2a divisione corazzata americana si presentò a Portella della Paglia dopo aver attraversato il paese di San Giuseppe Jato, venendo a sua volta attaccata coraggiosamente dalla compagnia comandata dal sottotenente Barbadoro, che col suo pezzo da 100/17 per nove ore inchiodava sulla strada il nemico, cadendo eroicamente sul proprio cannone solamente alle ore 18:30 circa (Fig.2), sgombrando così a quel punto il passo montano alla colonna corazzata nemica e la via perso Palermo (20). Da quel momento in poi verso la città cominciarono ad affluire forze americane da due direttrici diverse. Alle 19:30 il Comando della Difesa Porto fu catturato ed ogni resistenza cessò. Stranamente, non esistono notizie ufficiali su quel che avvenne a Portella della Torretta, che pure risultava essere il caposaldo maggiormente rafforzato dei tre dai quali si accedeva alla città. Attualmente, solamente un vago indizio parrebbe fornirci una notizia. Nelle cartine sull’avanzata militare delle truppe Alleate in Sicilia dal 12 luglio al 17 agosto dell’U.S. Army Center of Military History, e visibile la data del 23 luglio come data dell’occupazione da parte americana di un’area che corrisponde quasi certamente a quella della Portella summenzionata (Fig.1). Di sicuro resta il fatto che Palermo cadde in mano agli americani la sera del 22 luglio 1943…COMBATTENDO!
                                                    PATTON IL BASTARDO CRIMINALE
IlCovo