sabato 30 luglio 2016

"FASCISMO, RIVOLUZIONE DEL LAVORO"


“Fascismo, Rivoluzione del Lavoro”: testimonianze di un sindacalista Fascista


Mario Gradi fu un giovane fascista della “prima ora”, che compì tutta la sua traiettoria politica all’interno del sindacato. Dopo un breve periodo come dirigente nel GUF romano, entrò nel settore sindacale con la carica di Segretario dell’Unione provinciale dei lavoratori dell’Industria, prima a Perugia e poi Bologna. Dopo aver partecipato alla guerra d’Etiopia, fu trasferito a Roma con incarichi di ancora maggiore rilievo: prima consigliere della Confederazione dell’acqua, gas ed elettricità e dopo consigliere nazionale della Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Infine Segretario dell’Unione provinciale dei lavoratori dell’Industria a Roma, fino alle dimissioni il giorno dell’insediamento del governo-Badoglio. Oltre a distinguersi per l’impegno quotidiano sul posto di lavoro, fu molto attivo culturalmente scrivendo su periodici e riviste e pubblicando il libro Fascismo, Rivoluzione del Lavoro (1938).

Un’attività, questa, che continuerà anche nel dopoguerra, senza mai rinnegare i suoi ideali.
Perché questa premessa? Perché interessarsi ad un personaggio come lui?
Molto semplicemente perché «sapere di più su questi dirigenti medi è sempre necessario se si vuol capire questa realtà (del Fascismo ndr) in modo articolato e in particolare la natura e la qualità del personale su cui il regime si fondava e le differenze fra esso ed il precedente periodo liberal-democratico», come disse acutamente Renzo De Felice, nella prefazione alle Memorie di Tullio Cianetti. Infatti, leggendo le testimonianze del Gradi (raccolte nel libro Formazione e vita di un sindacalista, 1987), non si può che rimanere stupiti ed arricchiti dalle sfumature che si possono cogliere su quel ventennio tanto lontano quanto ancora oggi discusso.
L’autore descrive con passione l’entusiasmo (ed anche le velleità e le ingenuità) dei giovani fascisti nel primo dopoguerra, impegnati nella strenua difesa dei reduci e delle rivendicazioni della vittoria contro il disordine rosso e l’incapacità del parlamento. Anni travagliati, conclusisi con la presa del potere di Mussolini, al termine della quale si comincia ad entrare nel vivo della trattazione: l’evolversi delle istanze sindacali all’interno del Fascismo, rievocate attraverso l’esperienza personale di Gradi.
Il protagonista delinea con chiarezza e lucidità tutte le difficoltà dei dirigenti sindacali davanti al fallimento del “corporativismo integrale” voluto da Rossoni. Nel 1928, infatti, Mussolini opta per la “frantumazione” della Confederazione nazionale dei sindacati Fascisti (che riuniva tutto il mondo fascista del lavoro) nelle sei Confederazioni dei lavoratori dell’attività produttiva (industria, agricoltura, commercio, trasporti, credito, gente del mare e dell’aria), con la conseguenza di una riduzione d’importanza dell’elemento sindacale in favore della centralità del Partito.
Il settore industriale accusa il colpo, non riuscendo a trovare negli anni immediatamente successivi una stabilità organizzativa ed un peso politico d’alto livello, come era riuscito, ad esempio, ai lavoratori agricoli magistralmente guidati da Luigi Razza.
Gradi, impegnato al fianco dei lavoratori fino alla fine del regime, sottolinea inoltre le difficoltà salariali ed il permanere di «sacche di arretratezza» (soprattutto al Sud) nel suo settore. Ma ciò che emerge più negativamente è la resistenza al cambiamento di ampi settori economico-finanziari italiani, impegnati a frenare le riforme e mettere in primo piano l’interesse personale. Occorrevano sforzi titanici da parte dei sindacalisti fascisti («in gran parte provenienti dallo squadrismo, quasi tutti dotati di una buona preparazione in campo economico e sociale, uno dei raggruppamenti maggiormente significativi e combattivi del regime, guardiani fedeli dei principi originari del fascismo») per attutire i colpi inferti dagli industriali più conservatori, rappresentanti di quella “destra interna” che non vedeva di buon occhio la perdita dei propri privilegi.

Proprio per questo la classe dirigente sindacale in diverse occasioni recuperò elementi già distintisi nelle organizzazioni socialiste. Ed è già un primo elemento inaspettato. Ma accanto a questo se ne nota un altro: il libero sfogo ai risentimenti ad alle richieste da parte dei lavoratori nelle assemblee di base. L’intento del regime era quello di renderli critici e coscienti delle problematiche nel loro ambito, e di conseguenza inseriti organicamente (non passivamente) nel nuovo “spirito partecipativo” e nelle nuove strutture, come il Dopolavoro.
Negli ultimi sette anni di carriera a Roma, a contatto con i vertici dell’organizzazione dei lavoratori dell’Industria, Gradi nota che la libertà e vivacità dei dibattiti è ancora più accentuata. Ciò traspariva raramente all’esterno, dove invece veniva sottolineata l’unanimità delle posizioni, ma è sufficiente scorrere i verbali della Confederazione per accorgersi della libertà di critica e del fecondo apporto dei rappresentanti dei lavoratori alla elaborazione di scelte e soluzioni in sede corporativa. Un tratto, forse il più difficile da accettare per la storiografia “ufficiale”, emerge prepotentemente: non si trattò di un sindacalismo di mera facciata.
Pur tra innegabili difficoltà e nello «scarso decollo del sistema corporativo»,
il profilo tracciato dal Gradi è quello di un mondo sindacale consapevole dell’importanza delle riforme sociali e della modernizzazione, convinto a continuare le lotte nel nome della «Terza Via» e dell’emancipazione dei lavoratori.

Per comprendere ancor meglio il profilo di questi “combattenti sociali” non si può non analizzare il succitato testo Fascismo, Rivoluzione del Lavoro, in cui Gradi traccia una rapida e sentita storia del movimento fascista. Non mancano passaggi retorici, ma traspaiono comunque alla perfezione obiettivi e sentimenti dei giovani che avrebbero costituito la futura classe dirigente del regime.
Gli operai di Dalmine, che nel 1919 occuparono una fabbrica innalzando il tricolore e non interrompendo la produzione, vengono presentati quali veri e propri pionieri dell’idea fascista. «Vi siete messi sul terreno della classe, ma non avete dimenticato la Nazione. Avete parlato di popolo italiano, non soltanto della vostra categoria. (…) Non siete voi i poveri, gli umili e i reietti, secondo la vecchia retorica del socialismo letterario, voi siete i produttori ed è in questa vostra qualità che rivendicate il diritto di trattare da pari con gli industriali. (…) È il lavoro che nelle trincee ha consacrato il suo diritto a non essere più fatica, disperazione perché deve diventare orgoglio, creazione, conquista degli uomini liberi nella patria libera e grande entro i confini» disse Mussolini in quella storica occasione. Ed i propositi appena descritti cominciarono gradualmente («La rivoluzione non è sommossa di schiavi, ma sopravvento di superiori capacità produttive. Fino a che i lavoratori non sapranno dimostrare di sapere produrre di più e meglio del sistema capitalista, essi non saranno degni di dirigere la società») a trovare attuazione. Gli accordi di Palazzo Vidoni, la Legge Sindacale del 3 aprile 1926 («immissione ed inserimento politico e giuridico del movimento operaio nella vita dello Stato, per una verace uguaglianza tra categorie sociali»), la Carta del Lavoro, la costruzione dello Stato Sociale e dell’edificio corporativo sono le tappe fondamentali.
«La soluzione fascista agile, dinamica, aderente alla realtà e alle esigenze particolari e generali della produzione, concilia libertà ed autorità, prevedendo la instaurazione di una disciplina nello svolgimento dei cicli economici produttivi, non imposta da una coazione esterna, ma dal di dentro; dalle stesse categorie produttrici, le quali, una volta determinata loro funzionalità nel sindacato, sul piano corporativo trovano il punto di incontro e fissano le direttive di marcia».

Il Fascismo si contrappone evidentemente alle tendenze individualistiche della scuola liberale, la quale considera la società nazionale una semplice somma di particolari, e dall’altra parte non accetta le concezioni del comunismo, le quali, prevedendo la concentrazione di tutte le iniziative, di tutti i beni, di tutti i compiti nello Stato, mirano «ad un assurdo annullamento della individualità umana, a favore dell’unica mostruosa individualità dello Stato-Moloch, onnisciente ed onnipresente».
Secondo l’autore, l’economia corporativa sorge proprio quando i due fenomeni hanno dato ciò che potevano dare, ereditando da essi ciò che avevano di vitale e superandoli: non siamo certo davanti alla conservazione, ma ad un «autentico movimento di popolo, che non ignora le necessità e le aspirazioni del lavoro, ma queste inquadra nel complesso della vita e delle necessità nazionali; queste coordina e potenzia nello sviluppo armonioso delle attività e possibilità della Nazione». All’«agnosticismo internazionalistico della grande finanza», all’«edonismo borghese» ed al «predominio dell’economia sulla politica» esso oppone lo spirito, l’etica e la Patria. Al «materialismo storico» e alla lotta di classe risponde con la collaborazione e la «democrazia organica». Quest’ultimo salta subito agli occhi quale concetto di notevole interesse e, a quanto pare, in quei tempi più diffuso di quanto si potrebbe pensare, come ha fatto notare Massimiliano Gerardi (dell’Istituto Studi corporativi) nella prefazione al medesimo libro. Per contro, non appare neanche una volta il termine «razza», e non a caso Gradi fu spesso in contrasto con il Presidente confederale Tullio Cianetti, d’orientamento filo-tedesco.

Il sindacalista chiude poi enfaticamente l’opera, sottolineando «il carattere autenticamente democratico, nel senso sano, del regime. Tutta l’organizzazione sociale è stata predisposta e sistemata in modo tale che il cittadino e produttore non abbia mai a sentirsi isolato, smarrito, alla mercé del più forte, in una lotta per la vita senza quartiere e senza giustizia: il Partito lo accoglie cameratescamente nei suoi ranghi; l’organizzazione sindacale lo tutela nei suoi diritti e nei suoi interessi. (…) La vera democrazia non è nella verbosa demagogia dei parlamenti, ma nella eloquenza sincera delle opere: nelle strade aperte ai commerci; nelle terre bonificate restituite al lavoro; negli acquedotti; nelle scuole ampie aperte a ricevere in una gioia di aria e di sole la nuova gioventù d’Italia; nei moderni sanatori, negli ospedali. (…)
A volte la tensione cui costringe quest’opera di ricostruzione è dura: ma essa appare sempre lieve se è certa la fede nella meta finale: un grande popolo, una Nazione potente».
DA AUGUSTO

martedì 26 luglio 2016

OMICIDIO MATTEOTTI...? DISCOLPIAMO MUSSOLINI



OMICIDIO MATTEOTTI...? DISCOLPIAMO MUSSOLINI



I libri di storia recitano più o meno così:
Il 6 aprile 1924 si svolsero, in un clima pesante di intimidazioni, le elezioni politiche. In virtù della legge maggioritaria il successo toccò al "listone" fascista. Pur avendo così conseguita la maggioranza parlamentare, il fascismo non si acquietò e non ci fu la tanto attesa (anche da Mussolini) normalizzazione delle squadre fasciste più violente.
All'indomani delle elezioni, scomparve il socialista Giacomo Matteotti, che aveva denunciato alla Camera i brogli elettorali e le violenze perpetrate dalle squadre fasciste durante il periodo pre-elettorale. Egli fu rapito dagli squadristi all'uscita della sua abitazione romana, ed ucciso.
Quando si seppe dell'assassinio di Matteotti, un'ondata di commozione invase l'Italia intera e si ripercosse in tutta Europa ripercuotendosi violentemente contro il governo fascista che ne fu investito in pieno.

Il delitto Matteotti è un passaggio cruciale nella storia del Fascismo. Ad esso fanno riferimento gli antifascisti, come simbolo della violenza orchestrata dalle bande fasciste. Mussolini stesso è stato più volte accusato, e lo è tutt'ora, di aver egli organizzato l'attentato al leader socialista.
Il Duce prese atto delle polemiche che il fatto suscitò a livello nazionale e fu quello il punto in cui il fascismo rischiò proprio di cadere in conseguenza di quel fatto e della successiva secessione cosiddetta dell'Aventino. Mussolini stesso si sobbarcò la responsabilità morale dell'accaduto credendo di non aver saputo dare freno ai più irrequieti fascisti. Il 13 giugno in un discorso alla Camera, disse:
Solo un nemico che da lunghe notti avesse pensato a qualcosa di diabolico contro di me, poteva effettuare questo delitto che ci percuote di orrore e ci strappa grida di indignazione."

Questa è stata l'introduzione che ho voluto fare a questo testo mandatoci via e-mail per dare l'esatta visione dei fatti.

Al di là delle menzogne diffuse dall'esilarante istituto storico della resistenza credo che, per comprendere la vera dinamica di quel fatto di sangue, basti pensare all'intervista che Matteo Matteotti rilasciò, una quindicina di anni fa, a Marcello Staglieno, e che fu pubblicata da "Storia Illustrata".
In essa sono contenute affermazioni clamorose. Secondo lui (e non credo che il figlio di un uomo assassinato possa essere accusato di faziosità...) dietro l'omicidio del padre non ci sarebbe stato Mussolini, bensì il re; e all'origine della morte del deputato socialista non ci sarebbero state le tanto decantate denunce delle violenze fasciste (poco significative, aggiungo io, perché le violenze fasciste erano sotto gli occhi di tutti, esattamente come sotto gli occhi di tutti era il fatto che esse nascevano per reazione alle violenze dell'estrema sinistra...), ma ben altro.
Giacomo Matteotti, che era un massone d'alto grado, nel 1924 aveva compiuto un viaggio in Inghilterra; qui la loggia "The Unicorn and the Lion" gli aveva comunicato, fornendogli i relativi documenti, che la Sinclair (quella dello "scandalo dei petroli", il cosiddetto "Affare Sinclair", appunto...)era in possesso di due scritture private del re d'Italia.

Vittorio Emanuele III. Dalla prima risultava che quest'ultimo era diventato azionista della Sinclair (dal 1921), ma senza pagare un soldo; con la seconda, invece, il monarca italiano si impegnava a tenere nascosti, il più a lungo possibile, i giacimenti petroliferi in Libia. Così, in altre parole, il re ci avrebbe guadagnato, mentre l'Italia avrebbe continuato ad essere strangolata... Matteotti tornò, dunque, con l'intenzione di denunciare questo nobile comportamento del nostro sovrano, senz'altro qualificabile come alto tradimento... Denuncia ben più ghiotta di quella di cui sopra... Il re lo seppe e, temendo lo scandalo (e paventando inoltre, lui e la borghesia industriale, l'ipotesi, formulata da Mussolini, di un possibile governo fascisti/socialisti...), prese, con questo stranissimo delitto eseguito da gasati farinacciani (i quali, chissà perché, fecero di tutto per farsi scoprire...), parecchi piccioni con una fava: sventò il governo a partecipazione socialista, ebbe Mussolini (che, a questo punto, sarebbe stato anche lui una vittima...) in pugno, e potè sottrarre la pericolosissima documentazione che lo inchiodava...
Ricordo, infine, che il Duce concesse un vitalizio ai familiari di Matteotti, persone dignitose che mai avrebbero accettato quel denaro se avessero saputo che era stato proprio Mussolini a pronunciare la condanna a morte del loro congiunto...



Beh, se queste affermazioni risultassero vere, si comprenderebbe ancor meglio la gravità dell'accaduto. Infatti ciò che è su scritto, anche se il tutto è da verificare, potrebbe cambiare radicalmente un pezzo di storia italiana. Infatti il delitto Matteotti anche se all'inizio fu un colpo duro per il fascismo, successivamente si rivelò l'avvenimento che accelerò il totalitarismo del governo fascista. Noi prendiamo tali ipotesi con gli adeguati accorgimenti ma nuove prospettive si aprono ad 80 di distanza dall'omicidio del deputato socialista. I fatti su descritti lasciano infatti spazio a più di un dubbio in merito..



Considerazioni personali:

Mille volte abbiamo sentito dire queste parole: "Mussolini con un discorso alla camera si assunse la responsabilità di quel delitto", e le persone che affermano questa tesi ci giustificano ciò, riportandoci una parte del discorso del Duce fatto il 3 Gennaio 1925, che recita più o meno così: "Io, mi assumo la responsabilità, storica, morale di quanto è accaduto."

E' vero, queste sono le parole di Mussolini, ma queste stesse parole vanno considerate leggendo tutto il discorso da lui fatto. In questo discorso, Mussolini, si dissocia dal delitto Matteotti dicendo: 

"E come potevo, dopo un successo, e lasciatemelo dire senza falsi pudori e ridicole modestie, dopo un successo così clamoroso, che tutta la Camera ha ammesso, comprese le opposizioni, per cui la Camera si aperse il mercoledì successivo in un'atmosfera idilliaca, da salotto quasi (approvazioni), come potevo pensare, senza essere colpito da morbosa follia, non dico solo di far commettere un delitto, ma nemmeno il più tenue, il più ridicolo sfregio a quell'avversario che io stimavo perché aveva una certa crarerie, un certo coraggio, che rassomigliavano qualche volta al mio coraggio e alla mia ostinatezza nel sostenere le tesi?"



Per maggiore chiarezza vi rimando alla versione integrale di questo discorso per capire che molte volte, gli storici, tendono più a disinformare che ad informare. Leggendo capirete...        ILRAS.TK




3 GENNAIO 1925

Signori!
Il discorso che sto per pronunziare dinanzi a voi forse non potrà essere, a rigor di termini, classificato come un discorso parlamentare.
Può darsi che alla fine qualcuno di voi trovi che questo discorso si riallaccia, sia pure attraverso il varco del tempo trascorso, a quello che io pronunciai in questa stessa Aula il 16 novembre.
Un discorso di siffatto genere può condurre, ma può anche non condurre ad un voto politico.
Si sappia ad ogni modo che io non cerco questo voto politico. Non lo desidero: ne ho avuti troppi. (a Bene!").
L'articolo 47 dello Statuto dice:
"La Camera dei deputati ha il diritto di accusare i ministri del re e di tradurli dinanzi all'Alta corte di giustizia".
Domando formalmente se in questa Camera, o fuori di questa Camera, c'è qualcuno che si voglia valere dell'articolo 47. (vivissimi prolungati applausi. Moltissimi deputati sorgono in piedi. Grida di: "viva Mussolini!". Applausi anche dalle tribune).
Il mio discorso sarà quindi chiarissimo e tale da determinare una chiarificazione assoluta.
Voi intendete che dopo aver lungamente camminato insieme con dei compagni di viaggio, ai quali del resto andrebbe sempre la nostra gratitudine per quello che hanno fatto, è necessaria una sosta per vedere se la stessa strada con gli stessi compagni può essere ancora percorsa nell'avvenire. (Approvazioni; commenti).
Sono io, o signori, che levo in quest'Aula l'accusa contro me stesso. Si è detto che io avrei fondato una Ceka. Dove? Quando? In qual modo? Nessuno potrebbe dirlo! Veramente c'è stata una Ceka in Russia, che ha giustiziato senza processo, dalle centocinquanta alle centosessantamila persone, secondo statistiche quasi ufficiali. C'è stata una Ceka in Russia, che ha esercitato il terrore sistematicamente su tutta la classe borghese e sui membri singoli della borghesia. Una Ceka, che diceva di essere la rossa spada della rivoluzione.
Ma la Ceka italiana non è mai esistita.
Nessuno mi ha negato fino ad oggi queste tre qualità: una discreta intelligenza, molto coraggio e un sovrano disprezzo del vile denaro. (vivissimi, prolungati applausi).
Se io avessi fondato una Ceka, l'avrei fondata seguendo i criteri che ho sempre posto a presidio di quella violenza che non può essere espulsa dalla storia. Ho sempre detto, e qui lo ricordano quelli che mi hanno seguito in questi cinque anni di dura battaglia, che la violenza, per essere risolutiva, deve essere chirurgica, intelligente, cavalleresca. (Approvazioni).
Ora i gesti di questa sedicente Ceka sono stati sempre inintelligenti, incomposti, stupidi. (a Benissimo! ").

Ma potete proprio pensare che nel giorno successivo a quello del Santo Natale, giorno nel quale tutti gli spiriti sono portati alle immagini pietose e buone, io potessi ordinare un'aggressione alle 10 del mattino in via Francesco Crispi, a Roma, dopo il mio discorso di Monterotondo, che è stato forse il discorso più pacificatore che io abbia pronunziato in due anni di Governo? (Approvazioni). Risparmiatemi di pensarmi così cretino. (vivissimi applausi).

E avrei ordito con la stessa intelligenza le aggressioni minori di Misuri e di Forni? Voi ricordate certamente il discorso del I° giugno. Vi è forse facile ritornare a quella settimana di accese passioni politiche, quando in questa Aula la minoranza e la maggioranza si scontravano quotidianamente, tanto che qualcuno disperava di riuscire a stabilire i termini necessari di una convivenza politica e civile fra le due opposte parti della Camera.
Discorsi irritanti da una parte e dall'altra. Finalmente, il 6 giugno, l'onorevole Delcroix squarciò, col suo discorso lirico, pieno di vita e forte di passione, l'atmosfera carica, temporalesca.
All'indomani, io pronuncio un discorso che rischiara totalmente l'atmosfera. Dico alle opposizioni: riconosco il vostro diritto ideale ed anche il vostro diritto contingente; voi potete sorpassare il fascismo come esperienza storica; voi potete mettere sul terreno della critica immediata tutti i provvedimenti del Governo fascista.
Ricordo e ho ancora ai miei occhi la visione di questa parte della Camera, dove tutti intenti sentivano che in quel momento avevo detto profonde parole di vita e avevo stabilito i termini di quella necessaria convivenza senza la quale non è possibile assemblea politica di sorta. (Approvazioni).
E come potevo, dopo un successo, e lasciatemelo dire senza falsi pudori e ridicole modestie, dopo un successo così clamoroso, che tutta la Camera ha ammesso, comprese le opposizioni, per cui la Camera si aperse il mercoledì successivo in un'atmosfera idilliaca, da salotto quasi (approvazioni), come potevo pensare, senza essere colpito da morbosa follia, non dico solo di far commettere un delitto, ma nemmeno il più tenue, il più ridicolo sfregio a quell'avversario che io stimavo perché aveva una certa crarerie, un certo coraggio, che rassomigliavano qualche volta al mio coraggio e alla mia ostinatezza nel sostenere le tesi? (vivi applausi).
Che cosa dovevo fare? Dei cervellini di grillo pretendevano da me in quella occasione gesti di cinismo, che io non sentivo di fare perché ripugnavano al profondo della mia coscienza. (Approvazioni). Oppure dei gesti di forza? Di quale forza? Contro chi? Per quale scopo?
Quando io penso a questi signori, mi ricordo degli strateghi che durante la guerra, mentre noi mangiavamo in trincea, facevano la strategia con gli spillini sulla carta geografica. (Approvazioni). Ma quando poi si tratta di casi al concreto, al posto di comando e di responsabilità si vedono le cose sotto un altro raggio e sotto un aspetto diverso. (Approvazioni).
Eppure non mi erano mancate occasioni di dare prova della mia energia. Non sono ancora stato inferiore agli eventi. Ho liquidato in dodici ore una rivolta di Guardie regie, ho liquidato in pochi giorni una insidiosa sedizione, in quarantott'ore ho condotto una divisione di fanteria e mezza flotta a Corfù. (vivissime approvazioni).
Questi gesti di energia, e quest'ultimo, che stupiva persino uno dei più grandi generali di una nazione amica, stanno a dimostrare che non è l'energia che fa difetto al mio spirito.
Pena di morte? Ma qui si scherza, signori. Prima di tutto, bisognerà introdurla nel Codice penale, la pena di morte; e poi, comunque, la pena di morte non può essere la rappresaglia di un Governo. Deve essere applicata dopo un giudizio regolare, anzi regolarissimo, quando si tratta della vita di un cittadino! (vivissime approvazioni).
Fu alla fine di quel mese, di quel mese che è segnato profondamente nella mia vita, che io dissi: "voglio che ci sia la pace per il popolo italiano"; e volevo stabilire la normalità della vita politica.
Ma come si è risposto a questo mio principio? Prima di tutto, con la secessione dell'Aventino, secessione anticostituzionale, nettamente rivoluzionaria. (vive approvazioni). Poi con una campagna giornalistica durata nei mesi di giugno, luglio, agosto, campagna immonda e miserabile che ci ha disonorato per tre mesi. (Applausi vivissimi e prolungati). Le più fantastiche, le più raccapriccianti, le più macabre menzogne sono state affermate diffusamente su tutti i giornali! C'era veramente un accesso di necrofilia! (Approvazioni). Si facevano inquisizioni anche di quel che succede sotto terra: si inventava, si sapeva di mentire, ma si mentiva.
E io sono stato tranquillo, calmo, in mezzo a questa bufera, che sarà ricordata da coloro che verranno dopo di noi con un senso di intima vergogna. (Approvazioni).
E intanto c'è un risultato di questa campagna! Il giorno 11 settembre qualcuno vuol vendicare l'ucciso e spara su uno dei nostri migliori, che morì povero. Aveva sessanta lire in tasca. (Applausi vivissimi e prolungati. Tutti i deputati sorgono in piedi).
Tuttavia io continuo nel mio sforzo di normalizzazione e di normalità. Reprimo l' illegalismo.
Non è menzogna. Non è menzogna il fatto che nelle carceri ci sono ancor oggi centinaia di fascisti! (Commenti). Non è menzogna il fatto che si sia riaperto il Parlamento regolarmente alla data fissata e si siano discussi non meno regolarmente tutti i bilanci, non è menzogna il giuramento della Milizia, e non è menzogna la nomina di generali per tutti i comandi di Zona.
Finalmente viene dinanzi a noi una questione che ci appassionava: la domanda di autorizzazione a procedere con le conseguenti dimissioni dell'onorevole Giunta.
La Camera scatta; io comprendo il senso di questa rivolta; pure, dopo quarantott'ore, io piego ancora una volta, giovandomi del mio prestigio, del mio ascendente, piego questa Assemblea riottosa e riluttante e dico: siano accettate le dimissioni. Si accettano. Non basta ancora; compio un ultimo gesto normalizzatore: il progetto della riforma elettorale.
A tutto questo, come si risponde? Si risponde con una accentuazione della campagna. Si dice: il fascismo è un'orda di barbari accampati nella nazione; è un movimento di banditi e di predoni! Si inscena la questione morale, e noi conosciamo la triste storia delle questioni morali in Italia. (vive approvazioni).
Ma poi, o signori, quali farfalle andiamo a cercare sotto l'arco di Tito? Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. (Vivissimi e reiterati applausi. Molte voci: "Tutti con voi! Tutti con voi!").
Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! (Applausi). Se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere! (Vivissimi applausi. Molte voci: "Tutti con voi!").
Se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico e morale, ebbene a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l'ho creato con una propaganda che va dall'intervento ad oggi.
In questi ultimi giorni non solo i fascisti, ma molti cittadini si domandavano: c'è un Governo? (Approvazioni). Ci sono degli uomini o ci sono dei fantocci? Questi uomini hanno una dignità come uomini? E ne hanno una anche come Governo? (Approvazioni).
Io ho voluto deliberatamente che le cose giungessero a quel determinato punto estremo, e, ricco della mia esperienza di vita, in questi sei mesi ho saggiato il Partito; e, come per sentire la tempra di certi metalli bisogna battere con un martelletto, così ho sentito la tempra di certi uomini, ho visto che cosa valgono e per quali motivi a un certo momento, quando il vento è infido, scantonano per la tangente. (vivissimi applausi).
Ho saggiato me stesso, e guardate che io non avrei fatto ricorso a quelle misure se non fossero andati in gioco gli interessi della nazione. Ma un popolo non rispetta un Governo che si lascia vilipendere! (Approvazioni). Il popolo vuole specchiata la sua dignità nella dignità del Governo, e il popolo, prima ancora che lo dicessi io, ha detto: Basta! La misura è colma!
Ed era colma perché? Perché la spedizione dell'Aventino ha sfondo repubblicano! (Vivi applausi; grida di: "viva il re"; i ministri e i deputati sorgono in piedi; vivissimi, generali, prolungati applausi, cui si associano le tribune). Questa sedizione dell' Aventino ha avuto delle conseguenze perché oggi in Italia, chi è fascista, rischia ancora la vita! E nei soli due mesi di novembre e dicembre undici fascisti sono caduti uccisi, uno dei quali ha avuto la testa spiaccicata fino ad essere ridotta un'ostia sanguinosa, e un altro, un vecchio di settantatre anni, è stato ucciso e gettato da un muraglione.
Poi tre incendi si sono avuti in un mese, incendi misteriosi, incendi nelle Ferrovie e negli stessi magazzini a Roma, a Parma e a Firenze.
Poi un risveglio sovversivo su tutta la linea, che vi documento, perché è necessario di documentare, attraverso i giornali, i giornali di ieri e di oggi: un caposquadra della
Milizia ferito gravemente da sovversivi a Genzano; un tentativo di assalto alla sede del Fascio a Tarquinia; un fascista ferito da sovversivi a Verona; un milite della Milizia ferito in provincia di Cremona; fascisti feriti da sovversivi a Forlì; imboscata comunista a San Giorgio di Pesaro; sovversivi che cantano Bandiera rossa e aggrediscono i fascisti a Monzambano.
Nei soli tre giorni di questo gennaio l925, e in una sola zona, sono avvenuti incidenti a Mestre, Pionca, Vallombra: cinquanta sovversivi armati di fucili scorrazzano in paese cantando Bandiera rossa e fanno esplodere petardi; a Venezia, il milite Pascai Mario aggredito e ferito; a Cavaso di Treviso, un altro fascista è ferito; a Crespano, la caserma dei carabinieri invasa da una ventina di donne scalmanate; un capomanipolo aggredito e gettato in acqua a Favara di Venezia; fascisti aggrediti da sovversivi a Mestre; a Padova, altri fascisti aggrediti da sovversivi.
Richiamo su ciò la vostra attenzione, perché questo è un sintomo: il diretto l92 preso a sassate da sovversivi con rotture di vetri; a Moduno di Livenza, un capomanipolo assalito e percosso.
Voi vedete da questa situazione che la sedizione, dell'Aventino ha avuto profonde ripercussioni in tutto il paese. Allora viene il momento in cui si dice basta! Quando due elementi sono in lotta e sono irriducibili, la soluzione è la forza. (vive approvazioni. vivi applausi. Commenti).
Non c'è stata mai altra soluzione nella storia e non ce ne sarà mai.
Ora io oso dire che il problema sarà risolto. Il fascismo, Governo e Partito, sono in piena efficienza.
Signori!
Vi siete fatte delle illusioni! Voi avete creduto che il fascismo fosse finito perché io lo comprimevo, che fosse morto perché io lo castigavo e poi avevo anche la crudeltà di dirlo. Ma se io mettessi la centesima parte dell'energia che ho messo a comprimerlo, a scatenarlo, voi vedreste allora. (vivissimi applausi).
Non ci sarà bisogno di questo, perché il Governo è abbastanza forte per stroncare in pieno definitivamente la sedizione dell'Aventino. (vivissimi, prolungati applausi). L'Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa.
Noi, questa tranquillità, questa calma laboriosa gliela daremo con l'amore, se è possibile, e con la forza, se sarà necessario. (Vive approvazioni).
Voi state certi che nelle quarantott'ore successive a questo mio discorso, la situazione sarà chiarita su tutta l'area. (vivissimi e prolungati applausi. Commenti). Tutti sappiamo che ciò che ho in animo non è capriccio di persona, non è libidine di Governo, non è passione ignobile, ma è soltanto amore sconfinato e possente per la patria. (vivissimi, prolungati e reiterati applausi. Grida ripetute di: " Viva Mussolini! ". Gli onorevoli ministri e moltissimi deputati si congratulano con l'onorevole Presidente del Consiglio. La seduta è sospesa).
     IL RAS.TK



domenica 24 luglio 2016

PERCHE FU ANTICIPATO “QUEL” 25 LUGLIO 1943


PERCHE  FU  ANTICIPATO  “QUEL”  25  LUGLIO  1943

di Filippo Giannini
25 luglio 1943, le logge massoniche-liberalcapitaliste in quegli anni, anche se fortemente domate, ancora resistevano negli ambienti industriali e vicini alla Corona. Riprendiamo alcune pagine del mio volume “Il sangue e l’oro” per proporre ai lettori un fatto poco noto o, comunque, trascurato per spiegare certi avvenimenti accaduti in quei giorni.


   Il 21 aprile 1943 Vittorio Emanuele III aveva ricevuto alcuni uomini politici che lo sollecitavano ad allontanare il Capo del Governo. La cosa era stata segnalata a Mussolini il quale rispose che era a conoscenza di questo incontro, ma che fidava nella lealtà del Re: <Lealtà>, aveva sottolineato <di cui non era lecito dubitare>.
   Due giorni prima il Duce aveva nominato Tullio Cianetti ministro delle Corporazioni.
   Cianetti, quando nell’agosto 1939 apprese dell’accordo Ribbentrop-Molotov, reagì con soddisfazione Infatti aveva scritto:  <consideravo il sovietismo, il nazionalsocialismo ed il fascismo molto più vicini e simili di quanto non lo fossero nei confronti delle grandi democrazie plutocratiche>. 

     Proprio per queste idee Tullio Cianetti era considerato negli ambienti di Corte <elemento troppo spinto e pericoloso>. Ma, almeno in parte, le  idee di Cianetti erano condivise anche da Mussolini: che egli fosse anticomunista è fuori discussione, ma non era antisovietico.
   Ad accreditare questa tesi è sufficiente ricordare gli insistenti tentativi di Mussolini per indurre, nel corso della guerra, Hitler a trovare il mezzo per giungere ad una pace separata con l’URSS e rivolgere così tutti gli sforzi contro i reali nemici del fascismo: le democrazie plutocratiche.
   Ma torniamo al <più rosso dei neri> o al <comunista del Littorio>, come era chiamato Cianetti in un certo ambiente.
   La stesura di questa sezione di capitolo è suggerita da un esame del libro di “Memorie” del Ministro delle Corporazioni, che nella Prefazione avverte: <Queste pagine non sono state scritte per piacere a qualcuno. Le ho scritte nelle carceri della Repubblica Sociale Italiana: i capitoli essenziali mentre attendevo il processo nelle carceri di Verona; gli altri secondari, subito dopo le tragiche giornate di Castelvecchio>.   
   Mussolini, che trascorreva in casa un periodo di convalescenza, ricevette Cianetti a Villa Torlonia in un pomeriggio degli ultimi di maggio 1943. Il colloquio durò più di due ore. Il Duce appariva stanco e dimagrito, Cianetti avrebbe voluto parlargli brevemente, ma Mussolini gli disse: <Non vi preoccupate e ditemi con schiettezza tutto quello che avete intenzione di espormi>.

   Cianetti: <Duce, desidero innanzi tutto fare una premessa, dichiarandovi che io credo al corporativismo forse come al vangelo di Nostro Signore>.

   Mussolini: <Perché dite questo?>

   Cianetti: <Perché ce ne è bisogno>.

   Mussolini: <Anch’io credo al corporativismo (…). Avete un progetto?>.
   Cianetti: < Si parla molto di concentrazioni industriali e lo si fa senza rendersi conto della portata di un così vasto problema. La concentrazione delle industrie presuppone quella del capitale e quando questo ha raggiunto un certo stadio si slitta con più facilità verso i monopoli, nei confronti dei quali desidero manifestarvi, fin da questo momento, la mia più netta avversione>.
   Mussolini si dice d’accordo e invita Cianetti a continuare.
   Cianetti: <Desidero prospettarvi qualche cosa di più importante in merito agli sviluppi della politica sociale. In questi ultimi anni il Regime, per effetto della guerra, ha dovuto deviare da alcune linee maestre. La quasi carenza corporativa e l’enorme accrescimento dei complessi industriali hanno alterato, a danno dei lavoratori, un equilibrio che potrebbe compromettere l’attuazione definitiva del corporativismo (…). Ricordo che qualche anno fa voi mi diceste che, finché vivrete, non sarebbero sorti più complessi industriali dell’entità della FIAT e della Montecatini; purtroppo quel pericolo che volevate scongiurare esiste e si potrebbe dire che è già in atto. Vi chiedo pertanto che si dia valore e sostanza ad un principio già enunciato e cioè: quando i complessi industriali superano un certo limite, perdono il loro carattere privatistico ed assumono un aspetto pubblico e conseguentemente collettivo>.
   Il Duce, nel corso dell’esposizione, aveva continuamente fatto cenno di condividere il punto di vista del suo interlocutore. <E allora?> chiese.
   Cianetti: <Allora non c’è che un rimedio: stroncare la tendenza al monopolio e socializzare le aziende più importanti>
   Mussolini: <Voi pensate che siamo maturi per la socializzazione?>.

   Cianetti: <Penso che siamo in notevole ritardo, Duce La socializzazione è cosa troppo seria perché si possa attuare di colpo (…). Siamo al quarto anno di guerra e le guerre accelerano fatalmente i tempi dell’evoluzione sociale. Avremo reazioni violente da parte di alcuni capitalisti, ma questi signori si devono convincere che oggi non si sfugge più al dilemma: o corporativismo o collettivismo>.
   In pratica il Duce accetta in toto il programma di Cianetti, poi disse: <E’ importantissimo: potremmo presentarlo al Consiglio dei Ministri nel mese di ottobre>.
   Ma Cianetti osserva: <No, Duce, mi permetto di insistere sull’urgenza del provvedimento, data la inevitabile perdita di tempo alla quale ho accennato. Vi propongo, quindi, di non andare oltre il mese di luglio o agosto>.
   Mussolini: <Sta bene, parlate con il Ministro della Giustizia e superate con lui gli ostacoli formali>.
   Uscendo da Villa Torlonia Cianetti sapeva <di andare incontro a difficoltà non comuni>.
   Interessante è leggere le motivazioni con le quali Alfredo De Marsico, Ministro della Giustizia, bocciò il progetto di Mussolini e Cianetti (“Memorie”, pag. 385):
   De Marsico: <Tu, caro Cianetti, con questa legge mi calpesti e mi devasti addirittura tutto il diritto tradizionale>.

   Cianetti: <Non  lo metto in dubbio, ma osservo soltanto che il diritto non può congelare la vita e l’evoluzione degli uomini; o serve ad entrambe o sarà spazzato quando si rivelerà un ostacolo al progresso sociale>.

   De Marsico: <Ma io non posso ignorarlo, questo diritto, e tanto meno infirmarlo>.

   Cianetti: <Chi pretende questo? Io ti chiedo soltanto di trovare le formule che siano atte alla preparazione di un clima giuridico che possa accogliere le innovazioni sociali che propongo. Tu non puoi chiuderti nel sancta santorum del tuo tempio, ignorando un fermento sociale che va incanalato>.
   De Marsico: <D’accordo, ma mentre tu sei la fiumana che avanza, io non posso essere che la diga che frena>.

   Cianetti: <Scusa se ti interrompo, caro De Marsico, ma il paragone non regge. Ammesso che io rappresenti la fiumana, non ti pare che sia poco saggia l’esistenza di una diga? La fiumana deve andare al mare; opporle una diga vuol dire provocare inondazioni e disastri. Alla fiumana si preparano il letto, gli argini e le piccole serre a cascata per regolarne il corso verso il mare; è proprio quello che io ti chiedo Non parliamo, quindi, di dighe, ma predisponiamoci a costruire gli argini>.
   Ci siamo soffermati a lungo sulle memorie di Cianetti perché siamo convinti che la “congiura di Corte e militare”, già in programma per rovesciare il Governo fascista, fu accelerata nell’invitare Cianetti a <parlare con il Ministro della Giustizia>, che vedremo in prima linea la notte del 24/25 luglio. Uomo della destra liberale, legatissimo alla Dinastia della quale rappresentava, oltretutto, gli interessi, De Marsico oppose il più deciso rifiuto anche all’esame del provvedimento, minacciando addirittura le dimissioni.
   Il Duce, data la situazione militare difficilissima, cercò di evitare che a quella si aggiungesse anche una crisi ministeriale. Sicché fu costretto a soprassedere; ma, come ricorda Cianetti, lo rassicurò garantendogli che il provvedimento sarebbe comunque stato varato, <ma non prima del mese di ottobre>.
   Scrive a conclusione di questa vicenda Santorre Salvioli (“StoriaVerità”, N° 16) e del quale condividiamo l’opinione: <Non è da escludere che, riferito dal De Marsico ai vertici del Quirinale e dell’organizzazione capitalistica, la intenzione svoltista di Mussolini sia stata fra le cause scatenanti del Colpo di Stato del 25 luglio, posto paradossalmente in essere  con l’ausilio involontario – non determinante -  di Tullio Cianetti e del suo gruppo>.
   Tullio Cianetti, quasi al termine della sua vita osserva: <Come è avvenuto nel passato, si continuerà a truffare il mondo in nome della libertà e della democrazia di cui sarebbero depositari perenni – non si sa perché – i responsabili principali delle più grandi ingiustizie e schiavitù> Le sottolineature sono di FG).
   Il colloquio con Cianetti in quel lontano giugno 1943, probabilmente va letto nella consapevolezza di Mussolini che la guerra per l’Asse era fortemente compromessa, e il suo animo di vecchio socialista gli imponeva di lasciare l’Italia, anche se sconfitta militarmente, socializzata, cioè vincitrice sul piano delle innovazioni sociali. La stessa operazione verrà riproposta l’anno successivo. Cianetti al termine della guerra, nel 1947, si trasferì in Mozambico dove morì nel 1976.
 FILIPPO GIANNINI



giovedì 21 luglio 2016

RETROSCENA DEL TENTATIVO DI COLPO DI STATO IN TURCHIA





Retroscena del tentativo di colpo di stato in Turchia
 
di Aleksandr Dugin politologo russo
 
Alla fine della settimana scorsa, in Turchia ha avuto luogo un colpo di Stato militare. Un tentativo di putsch preparato al di fuori delle frontiere turche.

Si è dato il caso che il 15 luglio mi trovassi ad Ankara, dove ho commentato in diretta sull’emittente televisiva « Tzargrad » l’attentato di Nizza. Nessuno sospettava che qualche ora più tardi ci sarebbe stato il colpo di Stato.

Ecco che cosa è accaduto. Nel quadro della mia visita in Turchia, ho incontrato persone di alto livello, tra cui il sindaco di Ankara Melih Gökçek, il quale mi ha confidato la sua opinione sulla situazione politica in Turchia alla vigilia del putsch. Nel corso della nostra conversazione Melih Gökçek, che è molto vicino al presidente Erdogan, parlava di uno « Stato parallelo » creato in Turchia dalla setta di Fethullah Gülen.

Questa setta ha sede negli Stati Uniti, in Pennsylvania, da dove dirige la sua rete di agenti che è ramificata nella società turca.

Melih Gökçek ha ammesso di non aver capito subito che, dietro la facciata dei progetti umanitari e caritatevoli si nascono strutture dirette dalla CIA.

Nel corso del nostro colloquio privato, Melih Gökçek aveva espresso l’idea, che poi ha dichiarata pubblicamente durante il colpo di Stato, che è stata la setta di Fethullah Gülen ad abbattere l’aereo russo e ad uccidere il pilota. Infatti lo scopo degli Stati Uniti era di fare scontrare Ankara e Mosca nel momento in cui i nostri due Paesi erano prossimi ad una collaborazione. L’abbattimento dell’aereo e la morte del pilota sono stati il punto di partenza di questo intrigo geopolitico. Gli americani avevano previsto che il boicottaggio russo avrebbe indebolito le posizioni di Erdogan e che essi lo avrebbero potuto rimpiazzare con Ahmet Davutoglu. Ecco perché in Turchia si sono formate due forze : da una parte i kemalisti e i patrioti che volevano ristabilire le relazioni con la Russia e spingevano Erdogan a presentare scuse ufficiali. Dall’altra, la setta di Gülen e le strutture fioloamericane che, invece, volevano aggravare la situazione.

Al termine del nostro incontro, Melih Gökçek ha detto : « Noi abbiamo sottovalutato il potere dello Stato parallelo creato dagli americani e dai partigiani di Gülen. Questo è stato il nostro errore. Ma adesso correggeremo la nostra condotta : la priorità è un nuovo avvicinamento a Mosca ».

All’aeroporto di Ankara, mentre attendevo l’aereo per Mosca, ho sentito dei colpi d’arma da fuoco e delle esplosioni. L’aeroporto era sotto il tiro dei militari. Le partenze sono state annullate.

Allora siamo stati informati del colpo di Stato dei militari insorti contro Erdogan. Ma per me era chiaro che si trattava della rete di agenti di Gülen che occupavano posti influenti nell’esercito. Era la rete di Gülen che metteva in atto il piano finale di destabilizzazione.

Era per loro l’ultima possibilità per rovesciare Erdogan, il quale, col sostegno dei kemalisti, ha deciso di rompere con Washington e di indirizzarsi verso una politica eurasiatica, rivolgendosi verso Mosca.

Diversi uomini politici turchi mi hanno anche fatto sapere che la Turchia avrebbe preso in seria considerazione l’idea di uscire dalla NATO e di avvicinarsi a Mosca per le questioni militari. La rete di agenti americani aveva individuato come via d’uscita il colpo di Stato e le forze filoamericane hanno cercato di realizzarlo.
 
Quella notte era piena di incertezza. Ma verso l’alba le forze patriottiche della Turchia hanno represso la rivolta. Tutto quello di cui si parlava a bassa voce alla vigilia, veniva detto apertamente sulle tribune pubbliche, e non solo dal sindaco di Ankara o dal primo ministro, ma da Erdogan stesso : il putsch è stato fomentato dalle medesime forze che hanno abbattuto l’aereo russo,ossia dallo Stato parallelo.

Adesso, però, nulla impedisce più alla Turchia di rompere ogni relazione con gl’istigatori del rovesciamento del potere legittimo, di uscire dalla NATO e di avvicinarsi realmente alla Russia. L’avvenire è l’asse Mosca-Ankara, così come diceva il titolo di un mio libro pubblicato dieci anni fa in Turchia. All’epoca ero in anticipo sui fatti, ma adesso la storia rende possibile questa idea strategica.

Da secoli la Russia e la Turchia si sono reciprocamente ostacolate nel raggiungimento degli obiettivi auspicati. E ciò ha causato numerose guerre.

Se costruiremo una strategia comune, potremo risolvere insieme i nostri problemi, in una relazione pacifica e in un’alleanza strategica.

Era questa la previsione del grande filosofo russo tradizionalista Konstantin Leont’ev.

Katehon.com, 2016

Fonte Eurasia.org


                                                                                                                                                   

sabato 16 luglio 2016

... NON CON L' ORO

Blog politicamente scorretto contro la dittatura del pensiero unico, coordinato dall' avvocato Edoardo Longo.

... NON CON L' ORO


Mussolini brucia il debito pubblico al Vittoriano,11/1928

 Questo è quel gesto di dignità (similmente a quanto oggi ha fatto Putin per il suo Paese) che ha fatto infuriare i grandi Usurai mondiali, i quali, gli dichiararono tutto il loro disprezzo, gli scatenarono contro tutte le massonerie del mondo, ci vessarono, ci costrinsero alla difesa, poi alla lotta ed infine alla guerra. Esattamente quello che vorrebbero fare con Putin, solo che Putin ha materie prime inesauribili non come l'Italia che ne è priva.

Ancora una volta si è dimostrato quando sia vera la leggenda romana della cacciata dai barbari da Roma : “ non con l’ oro, ma col ferro si salva la Patria !”.

Ridicolo l’ attuale dibattersi farsesco fra le spire del mostruoso  debito pubblico italiano chiedendo prestiti pelosi agli euro – strozzini e aumentando le tasse fino a strangolare il popolo italiano : questo debito artificiale e drogato dagli interessi imposti dagli usurai planetari non va né pagato, né negoziato ! Va cancellato per atto unilaterale di volontà di un governo degno di questo nome e del popolo che rappresenta. Il debito pubblico con gli usurai della Goldman  & Sachs & company non va pagato ! Protestano gli strozzini ? se ne confischino e nazionalizzino  le banche.

Benito Mussolini, , questo Grande uomo, ha cercato con pochi mezzi di fare fronte al mondo facendo leva sulla dignità di un Popolo, sul suo genio e la sua  intelligenza ... e il Popolo rispose con gesta incancellabili nella Storia.

Fummo traditi da Giuda italioti  che uccisero i propri fratelli pur di abbattere l'ultima grande "Novità" che ha visto il mondo.

Per trenta denari non hanno ucciso solo un Grande uomo ed una Grande idea sociale, ma hanno ridotto in catene, poi, il loro stesso Popolo.

Che la loro nefandezza sia deprecata sempre   e  prima o poi un giorno o l'altro sia elevato a gloria questo Duce così umano ed ancora così tanto amato ed ammirato dal suo Popolo : giammai riusciranno a cancellarlo i vari sgherri del regime pidiota, in primis fra tutti l’ indecente figura del profittatore parassita Fiano, primo fra tutti i ratti che stanno uscendo dalle fogne di Roma.

Carlo Gardini