lunedì 31 agosto 2015

TOUT VA TRES BIEN..MADAME LA MARQUISE

Tout va tres bien..madame la Marquise



Siamo un Paese da operetta, una repubblica delle banane, la patria dei Pulcinella..
Al di la della gran parte della gente comune che si nutre di TV spazzatura, di idee prefabbricate dai centri di potere e vendute dal giornalismo mercenario e servile, di stupido pettegolezzo e che ragiona solo per luoghi comuni, anche coloro che dirigono la baracca e che dovrebbero essere un tantino al di sopra della generale mediocrità si comportano invece nella gestione della cosa pubblica con una mancanza d’intelligenza, un pressapochismo, un’arrogante supponenza, una frivola approssimazione ed un ottuso e disonesto cinismo che hanno ridotto questo Paese alla retroguardia della classifica di tutti i Paesi civilizzati.
Lo abbiamo visto nelle decisioni su temi importanti, anche vitali, come il cambio della lira in rapporto all’adozione dell’Euro, come lo sconcio delle numerose “leggi ad personam” dei governi Berlusconiani che badavano esclusivamente a tenere Berlusconi fuori di galera invece di pensare a fare quelle riforme che erano necessarie ai cittadini, come l’appoggio anche militare alle cosiddette “Rivoluzioni arabe” che hanno ottenuto la sostituzione di satrapi come Gheddafi e Saddam Hussein con un coacervo caotico ed incontrollabile di estremismi terroristici molto peggiori e molto più pericolosi come, tanto per citarne uno tra i più preoccupanti, l’ISIS del “Califfato Islamico”, ecc. ecc. ecc.
Dall’altro lato delle decisioni sbagliate ci sono poi quelle non prese per ignavia, per superficialità, per ottusità intellettuale e per presunzione.
L’elenco è lungo e corposo:
La riforma della giustizia per togliere agli avvocati dei delinquenti le scappatoie ed i cavilli che allungando proditoriamente i tempi arrivano alla prescrizione dei reati rendendo inutili i processi, per rendere i tempi dei processi civili di lunghezza accettabile invece che biblica e per dare la certezza della pena a coloro che, condannati, non dovrebbero essere liberati dopo tempi brevi a scorno delle vittime.
La riforma della burocrazia che oggi è talmente onerosa, cavillosa ed insensatamente pretenziosa da fare allontanare con timore e disgusto quei pochi investitori stranieri che avessero il ghiribizzo di creare in Italia nuove aziende e da fare impazzire dietro a montagne di carte coloro che vorrebbero lavorare, produrre e creare quei posti di lavoro di cui abbiamo grande necessità.
La riforma del fisco che oggi vessa ed opprime oltre ogni limite ed in modo sconosciuto in tutti gli altri Paesi Europei i contribuenti italiani costringendoli a lavorare per lo Stato per tre quarti di ogni anno solamente per pagare le tasse ( solo in Italia si pagano anche tasse sulle tasse..!! ) e che dà un potere senza limiti ad ottusi esattori che esigono balzelli esosi anche quando si dimostra che sono stati loro  a sbagliare nel fare i conti.
La lotta alle mafie che opprimono e sfruttano sempre di più anche a causa dei tagli ( 4 miliardi di euro ) che il governo ha fatto recentemente alle forze dell’ordine  e che sono le uniche attività nazionali in pieno sviluppo anche grazie alla collusione, quando essa non diventa complicità, della classe politica che vende favori e cecità in cambio di voti elettorali.
E si potrebbe continuare, ma tutti i cittadini sanno bene quante e quali sono le cose che si dovrebbero fare e che non si fanno..
Ultima in ordine di tempo, ma non per importanza è l’irresolutezza nell’affrontare in modo razionale, logico e determinato il problema dell’immigrazione che sta sconvolgendo letteralmente l’intero contesto della nostra sopravvivenza come popolo e come nazione.
Nulla è stato fatto per contenere e regolamentare il fenomeno, ma si è sempre vissuto alla giornata in un contesto in cui l’unica decisione è stata quella di non decidere nulla.
Non si è provveduto ad una rapida ed efficiente identificazione dei migranti per accogliere coloro che ne hanno i requisiti e respingere gli altri.
Non si è provveduto sufficientemente a coinvolgere il resto dell’Europa di cui noi siamo il confine nell’ambito di un territorio federalmente unito.
Non si è provveduto a Bloccare gli imbarchi anche tramite la marina militare e distruggendo a terra i barconi usati dagli scafisti per il loro traffico di esseri umani.
Soprattutto non si è provveduto ad elaborare un piano complessivo per affrontare e risolvere il problema, ma ci si è affidati all’improvvisazione, a soluzioni contingenti, a tappare i buchi man mano che si presentavano!
Il risultato è sotto gli occhi di tutti e non si presta ad interpretazioni..!!
D’altra parte gli “affamati” del mondo sono circa 4 miliardi e pensare di accoglierli tutti nei Paesi civilizzati in nome della solidarietà è pura ed inapplicabile follia.
L’unica alternativa logica, ragionevole e praticabile è quella di cercare di aiutarli in loco, a casa loro, gradualmente, creando le condizioni sociali ed economiche per rendere meno desiderabile emigrare da noi, ma di ciò quasi nessuno parla a conferma della confusione mentale e della incapacità di programmazione che regna sovrana nelle menti dei governanti che ci amministrano..!
In conclusione, come abbiamo già avuto modo di dire, abbiamo messo le volpi a guardia del pollaio e ciò non può andare certamente a favore delle galline ..!!!

Alessandro Mezzano

                                                                                                                                            

giovedì 27 agosto 2015

OSIMO : IL TRATTATO SURREALE


Riporto un commento ricevuto che si occupa di un avvenimento negativo della nostra storia recente. Si tratta della volontaria cessione dell’Istria alla Youguslavia, sotto la spinta del partito comunista di Berlinguer. Per chi non lo sapesse (e probabilmente sono la maggioranza dei giovani d’oggi, l’Istria è stata italiana per oltre un millennio. Le popolazioni d’Istria e Dalmazia furono le più fedeli alla Serenissima Repubblica di Venezia. Furono perseguitate da Tito alla fine dopo la seconda guerra mondiale e, quel che è peggio, trascurate e perseguitate anche in Italia.
Ecco quanto ho ricevuto:
OSIMO : IL TRATTATO SURREALE
Nella storia dei popoli e degli Stati esistono eventi che non è possibile rimuovere dalla memoria: da un lato, per gli effetti immediati di natura politica ed economica, e dall’altro, per le conseguenze che, unitamente alle loro matrici, vanno a determinare sugli orientamenti decisionali, e sullo stesso inconscio collettivo. Il trattato di Osimo non fa eccezione, né potrebbe essere diversamente, perché ha costituito una novità davvero surreale nella storia delle relazioni diplomatiche: non era mai accaduto che uno Stato sovrano rinunciasse alla sovranità su una quota significativa del proprio territorio, senza alcuna contropartita, come accadde nella fattispecie.
La firma ebbe luogo precisamente il 10 novembre 1975, da parte del Ministro degli Affari Esteri Mariano Rumor e del suo omologo jugoslavo Milos Minic, in un clima di frettolosa segretezza, motivata da ragioni di opportunità politica che intendevano nascondere alla pubblica opinione un evento non certo accettabile sul piano giuridico, e meno che mai su quello etico. Del resto, anche le trattative erano state condotte in analoghe condizioni di riservatezza, quasi da consorteria, ed il Governo italiano le aveva affidate, anche nella fase conclusiva, a soggetti sostanzialmente inidonei, perchè estranei al mondo diplomatico. Non era mai accaduto!
Con Osimo, l’Italia volle trasferire alla Jugoslavia la sovranità statuale sulla cosiddetta Zona “B” del Territorio Libero di Trieste, che non era mai stato costituito con atto formale, sacrificando altre migliaia di cittadini, costringendoli a prendere le vie dell’esilio in aggiunta ai 300 mila che li avevano preceduti al termine delle vicende belliche, e sottoscrivendo il trasferimento alla Repubblica federativa di un’area pari al tre per mille del territorio italiano, su cui insistono aggregati urbani importanti come quelli di Buie, Capodistria, Pirano, Portorose, Umago. Naturalmente, la responsabilità politica, al di là di pur giustificati dubbi sulle reali competenze dei plenipotenziari italiani, guidati da un dirigente del Minindustria, fu soprattutto del Governo, e con esso, del Parlamento che ebbe a ratificarne l’operato, sia pure con diffuse sofferenze.
Oggi, ad un terzo di secolo da Osimo, è congruo fare il punto sulle ragioni che indussero determinazioni tanto opinabili, in una prospettiva storica per quanto possibile oggettiva, ma nello stesso tempo, in un’ottica di inevitabile “contemporaneità”, tanto più che la prassi “osimante” fece scuola, si tradusse in ulteriori cedimenti di carattere politico ed economico, e pervenne, quale effetto di rilievo maggiormente visibile, al riconoscimento delle nuove Repubbliche indipendenti di Croazia e Slovenia, sorte all’inizio degli anni novanta dalla dissoluzione jugoslava: anch’esso, come il trattato del 10 novembre 1975, senza alcuna contropartita. Eppure, i problemi sul tappeto, molti dei quali lo sono tuttora, non erano di scarsa consistenza: anzi tutto, il riconoscimento della verità storica, e poi, la tutela dei monumenti e delle tombe italiane oltre confine, la sorte dei beni immobili già appartenenti agli esuli, il regime delle acque territoriali, gli accordi per la pesca in Adriatico, e così via.
Evidentemente, la storia non è maestra di vita, perché altrimenti non si commetterebbero gli stessi errori del passato. Nondimeno, l’analisi delle motivazioni che indussero Osimo, e delle conseguenze che ne derivarono a breve e lungo termine, è ugualmente importante: se non altro, perché risulta utile a collocare i problemi di oggi in una dimensione storica esauriente, ed a riconoscere nella politica estera italiana verso la Jugoslavia ed i suoi eredi la continuità di una posizione di “debolezza e di scarsa coscienza nazionale” (1).
1.- Il quadro di riferimento
Alla metà degli settanta, quando il trattato di Osimo divenne realtà dopo un lungo periodo di incubazione, le condizioni politiche internazionali, ed a più forte ragione quelle interne, erano mature per l’evento. Nel quadro mondiale, il primo maggio 1975 si era conclusa la guerra vietnamita con l’abbandono di Saigon da parte delle forze statunitensi, ma già da diversi anni la politica di “non allineamento” del Maresciallo Tito, Presidente a vita della Jugoslavia, era stata premiata dalle attenzioni dell’Occidente, culminate nella visita di Stato che il Presidente americano Nixon gli aveva reso a Belgrado sin dal 1971, nonostante la negazione dei diritti umani da parte del regime, che nello stesso periodo aveva condannato a sette anni di carcere duro un intellettuale dissidente, Mirko Vidovich, responsabile di avere scritto alcune poesie critiche nei confronti del dittatore, e nulla più.
Sempre nel 1971, Tito era stato ricevuto in Vaticano da Papa Paolo VI assieme all’ultima moglie Jovanka, completando il processo di riavvicinamento alla Santa Sede che era iniziato un quinquennio prima, con la ripresa delle relazioni diplomatiche. La posizione jugoslava, collocandosi in un ruolo apparentemente equidistante da Mosca e da Washington, acquisiva crescente credibilità, resa più accentuata dalla tensione col regime dei colonnelli greci che sarebbe crollato nel 1974, e dall’eliminazione in pari data di un gruppo sovversivo di ispirazione nazionalista. Tito valorizzava al massimo la sua “leadership” nel movimento dei Paesi non allineati, che giunsero ad un massimo di 44, ma con la sola Jugoslavia a rappresentarvi il continente europeo, e non trascurava di polemizzare con presunte “organizzazioni irredentiste e revansciste” italiane, sollecitando nei loro confronti un impegno a tutto campo e trovando fertile ascolto anche a Roma.
In Italia si vivevano momenti difficili. Nel 1975 persero la vita non meno di dodici vittime degli “opposti estremismi”, tra cui gli studenti di destra Mikis Mantakas e Sergio Ramelli, e la brigatista Mara Cagol, compagna di Renato Curcio. Il Presidente Leone, poche settimane prima di Osimo, indirizzò un messaggio al Paese per invitarlo a fare quadrato contro le difficoltà dell’ora, in un clima di forte disagio che aveva già visto il notevole successo del Partito comunista nelle elezioni amministrative di giugno, tradottosi in un avanzamento di oltre cinque punti, e non era stato estraneo all’abbassamento della maggiore età a 18 anni votato in marzo, ed al nuovo diritto di famiglia diventato legge in aprile con la sola opposizione di liberali e missini. Intanto, Pacciardi e Sogno proponevano l’avvento di una Repubblica presidenziale come possibile rimedio al male oscuro dell’Italia, tristemente simboleggiato, in autunno, dal delitto del Circeo e dall’uccisione di Pier Paolo Pasolini.
In queste condizioni, la politica di solidarietà nazionale che aveva coinvolto il Partito comunista nell’area di governo ebbe buon giuoco nell’incentivare, e poi nell’accelerare le trattative che condussero ad Osimo: il 20 giugno, Tito avrebbe incontrato a Brioni il Segretario del PCI, Enrico Berlinguer, tanto che più tardi fu possibile affermare, al di là della riservatezza a cui fu improntata la visita, come fossero stati costoro i firmatari sostanziali del trattato. L’eco si spense presto, nonostante il diluvio di retorica che fu carattere ricorrente nel dibattito parlamentare di ratifica ma che non avrebbe impedito alla maggioranza, irrobustita da una sinistra oltremodo compatta, di giungere ad una rapida approvazione, contrari i soli missini ed alcuni dissidenti, tra cui i democristiani Barbi, Bologna, Costamagna e Tombesi, il liberale Durand de la Penne ed il socialdemocratico Sullo (2), e soprattutto, con l’assenza tattica di parecchi senatori e deputati che non avevano avuto il coraggio di uscire allo scoperto, mentre la DC ebbe quello di deferire ai probiviri coloro che si erano dissociati dalla disciplina di partito.
2.- Effetti e prospettive
Gli accordi di Osimo, che assieme al trattato vero e proprio comprendevano intese sulla cooperazione economica, la cittadinanza, i beni culturali ed il traffico di frontiera (3), rimaste in buona parte sulla carta, produssero vibranti e documentate proteste nell’ambito giuliano, e più specificamente in quello triestino, con motivazioni di forte spessore non solo sul piano etico-politico, ma prima ancora su quello giuridico, che sottolinearono una lunga serie di inadempienze, se non anche di illegalità, donde la richiesta al Presidente della Repubblica di non controfirmare la legge di ratifica; istanza che venne respinta. Il trattato avrebbe potuto essere impugnato per ragioni di diritto internazionale, ma anche costituzionale ed amministrativo, puntualmente evidenziate (4), ma non fu privo di correlazioni penali, potendosi ravvisare nell’approvazione dei suoi disposti il reato previsto dall’art. 241 c.p., laddove si puniva con l’ergastolo “chiunque commette un fatto diretto a sottoporre il territorio od una parte di esso alla sovranità di uno Stato straniero”.
Le condizioni politiche dell’epoca non erano tali da ipotizzare l’apertura di un procedimento in tal senso, ma la violazione della legge rimane un fatto oggettivo, senza dire che nella fattispecie si tratta di un reato imprescrittibile, a prescindere dalla depenalizzazione dell’alto tradimento che sarebbe sopraggiunta in tempi più recenti (5).
Nel 1975 la congiuntura italiana era ben diversa da quella del 1947, quando aveva dovuto subire il “diktat” ed i limiti della propria delegazione alla Conferenza della pace, non meno significativi dell’intransigenza alleata. Ora, l’Italia era nuovamente un’importante potenza industriale, con fondamentali di gran lunga superiori a quelli jugoslavi, ma ciò non fu sufficiente, e Tito riuscì a realizzare il suo ultimo capolavoro, cui non fu estranea la “cupidigia di servilismo” che Benedetto Croce e Vittorio Emanuele Orlando avevano bollato con nobili parole durante la discussione per la ratifica del trattato di pace. Gli effetti non tardarono a manifestarsi: la fuga a Belgrado del terrorista Abu Abbas promossa da Craxi, l’omaggio di Pertini alla bandiera con la stella rossa, e l’uccisione del pescatore Bruno Zerbin nel golfo di Trieste ad opera di una motovedetta jugoslava, furono episodi tristi, a cui avrebbe fatto seguito, come si diceva, il riconoscimento senza contropartite di Croazia e Slovenia.
Il trattato di Osimo è rimasto inattuato in diverse statuizioni, talvolta grottesche se non anche inconcepibili sul piano economico, come la realizzazione della Zona industriale mista sul Carso, o la costruzione di una gigantesca idrovia dall’Adriatico al Danubio, basata su un sistema di chiuse faraoniche per il superamento di enormi dislivelli. Il rigetto fu dovuto soprattutto a due ragioni: in primo luogo, la forza delle contestazioni locali, ed in particolare della “Lista per Trieste” (che conseguì la maggioranza dei voti alle prime elezioni nella città di San Giusto), vessillifera di una nuova autonomia in chiave nazionale; e poi, perché la crisi jugoslava, deflagrata rapidamente dopo la morte di Tito, avrebbe impedito il perseguimento degli obiettivi di Osimo, limitandone l’effetto principale, e comunque determinante, al trasferimento della sovranità sul territorio della Zona “B”.
Le conseguenze sono state evidenti, come detto, sul piano socio-politico, e poi anche su quello economico, attraverso una serie di protocolli che raggiunse un livello emblematico nel forte supporto finanziario offerto dal Governo Goria a quello di Branko Mikulic all’inizio del 1988, e nell’accantonamento di motivate attese degli esuli giuliani e dalmati circa la questione dei beni “abbandonati”, ma ad un tempo, in materia di difesa dei valori culturali e spirituali sacrificati alla logica dell’interscambio, con cui, al contrario, potrebbero utilmente convivere, in base ai principi fondamentali di una vera ed effettiva cooperazione internazionale.
3.- Conclusioni
Ad oltre un trentennio di distanza, si può e si deve affermare che “il trattato di Osimo fu un errore” (6), se non anche un reato perseguibile a termini di legge, basato sulla fallace presunzione che la Jugoslavia rimanesse protagonista sul proscenio internazionale, come leader dei Paesi non allineati, e sulla difficoltà di prevedere che si sarebbe dissolta in una giustapposizione di Stati minori; ma prima ancora, sulla cronica carenza di una politica estera di ampio respiro, e di un ruolo realmente propositivo nello scacchiere balcanico.
Il trattato aveva nella sua stessa genesi le matrici di una condanna formale e sostanziale, e si illudeva di trovare nella Repubblica jugoslava un interlocutore privilegiato per il solo fatto di avere pianificato la cosiddetta via nazionale al socialismo, fondata sui fasti dell’autogestione, che avrebbero condotto al disastro. Ciò, al pari di un’ipotetica collaborazione interclassista che non poteva basarsi sull’annullamento talvolta fisico delle opposizioni in campi di prigionia tristemente famosi, o sulle surreali condanne di sacerdoti che avevano dato alle stampe una piccola immagine sacra, evidentemente difforme dal verbo ancora dominante nello scorcio finale degli anni Ottanta.
Ad Osimo sarebbe stato molto difficile modificare i confini che erano scaturiti dal trattato di pace e dalle rettifiche del 1954, alla luce delle condizioni politiche di cui si è detto, e del potenziale coinvolgimento degli altri Stati che avevano firmato il “diktat” del 1947, ma dopo la dissoluzione della Jugoslavia le prospettive avrebbero potuto essere diverse, se non altro per alcune importanti questioni d’interesse plurimo, come quella delle acque territoriali. L’occasione fu perduta, ed oggi rimane, al massimo, una generica speranza nell’effetto Europa.
Osimo è un “collo di bottiglia” ormai irreversibile, non meno di quanto si possa dire per il trattato di pace. Tuttavia, prescindendo dalla valutazione delle responsabilità, ed inquadrando lo stato delle cose in una prospettiva che vede la cristallizzazione degli accordi stipulati nel 1975, quando avrebbero potuto tradursi da istituti di diritto internazionale venuti meno per la scomparsa di uno dei contraenti, in semplici riferimenti per nuove ipotesi d’intesa, si può concludere con l’antico saggio: al di là delle apparenze, il fiume della storia continua a scorrere.
Ciò significa che Osimo, ampiamente ridimensionato dalle vicende storiche, ed in primo luogo dall’implosione jugoslava, potrà essere oggetto di riconsiderazione, nella misura in cui le sue permanenti lacune di legittimità e di equità inducano valutazioni costruttivamente consapevoli nella Casa comune europea, ma prima ancora negli ambienti giuliani ed istriani, e nelle forze politiche da cui hanno mutuato nuove attenzioni con l’approvazione pressoché unanime della legge che istituisce il “Giorno del Ricordo” (fissandolo nel 10 febbraio, quale anniversario del trattato di pace).
E’ sempre valido, anche nella fattispecie, il pensiero di Benedetto Croce, secondo cui la linea del possibile si sposta grandemente grazie “all’audacia ed alla forza inventrice della volontà che veramente vuole”.

                                                                                                                

domenica 23 agosto 2015

PIE ILLUSIONI........

Pie illusioni intorno al pacifico sbarco degli islamici…

islamici

di Piero Vassallo
Una ignoranza indotta dai mezzi di comunicazione sociale e due desolanti abbagli agitano il buon cuore degli italiani: la disinformazione sulla ferocia predicata, promossa e attuata sistematicamente dai fedeli dalla falsa e sanguinaria religione maomettana; l’ingenuo buonismo/ecumenismo di papa Bergoglio benedicente l’immigrazione selvaggia a Lampedusa e la lacrimosa/fumosa nenia dei progressisti, apologeti dell’immigrazione dei poveri nella perfetta, strepitosa ignoranza della percentuale di veri esuli e perseguitati (1%) in mezzo all’ingente numero dei potenziali invasori e assassini islamici.
Perché l’Europa delle nazioni spiritualmente moribonde, incoraggia e favorisce l’invasione islamica? Perché desidera il sonno della ragione italiana? Perché incoraggia l’aggressione alla Chiesa di Roma?
Possiamo anzi dobbiamo riconoscere che, soggiacente al fastidioso e irresponsabile  chiacchiericcio umanitario dei politicanti occidentali, si agitano l’albagia  e la vana potenza, che sono strettamente associate all’invidia per lo splendore civile e spirituale, che ha nobilitato i millenni della nostra storia.
Il rapporto tra l’umile Italia e le nazione dell’Europa potente si è sempre risolto nell’incremento della barbarie dei conquistatori , scesi nella penisola per tentare di rapire il segreto del più alto vivere civile. E risaliti nelle loro terre con la barbarie incrementa e rafforzata  dalla invidiosa coscienza della strutturale inferiorità della loro cultura.
“Getterò il terrore nel cuore dei miscredenti: colpiteli tra capo e collo. … Non siete certo voi che li avete uccisi è Allah che li ha uccisi. Quando incontrerete gli infedeli uccideteli con grande spargimento di sangue.”
[Progetti ed esortazioni del Corano].

L’umiliante vicenda del tristo Lutero, prepadre delle sciagure moderne e ultimamente oggetto del delirio ecumenico scatenato da Vaticano II intorno alla nevrastenia dell’eretico, disceso a Roma per conoscere e assimilare la civiltà, dimostra lo scandalo e l’invidia che la superiore vita italiana destava nella mente di un barbaro di Germania.
Mussolini è stato debellato ed esposto al ludibrio, ma le sue parole – quando i barbari di Germania non conoscevano la scrittura in Italia si leggevano le opere di Cicerone e di Cesare – disturbano e feriscono tuttora l’orgoglio – la spocchia –  della teutonica cancelliera – monumento al triste eccesso della dirompente carne – e destano l’albagia dei suoi goffi colleghi di Francia e Inghilterra.
La religione degli italiani, la tradizione italiana, la letteratura italiana, l’arte italiana, il perfetto paesaggio italiano, le stupende città italiane, l’eleganza degli italiani, il buon vivere degli italiani sono le taciute cause di una invidia divorante e insaziabile.
Le potenze occidentali, accecate dall’utopia demenziale e dal razzismo capovolto nel falso ecumenismo, vogliono che la civiltà italiana sia inquinata e avvelenata dall’invasione degli islamici, refrattari e nemici alla nostra religione e della nostra cultura. Esigono il ritorno in Italia degli invasori maomettani, che furono cacciati a prezzo di guerre sanguinose.
Resistere alla strisciante invasione islamica significa resistere alle allucinazioni pseudo-umanitarie e pseudo-ecumeniche che sono emanate dall’albagia e dai sussulti cadaverici dei predicatori illuminati dai lumi al lumicino.
Maometto e i maomettani sono maestri di menzogna e di violenza. Lo dimostra Magdi Cristiano Allam nel commento al Corano (Biblioteca delle libertà, Milano 2015): “Quando il 10 maggio 1994, in un sermone pronunciato in una moschea di Johannesburg, l’allora presidente palestinese Yasser Arafat disse, a proposito dell’accordo di pace sottoscritto con il premier israeliano Yitzhak Rabin il 13 settembre 1993: ‘questo accordo non rappresenta per me più dell’accordo concluso dal nostro Profeta Maometto con i Quaraishiti .
L’accordo con i  Quaraishiti fu sottoscritto da Maometto, che covava l’intenzione disonesta di tradirlo e usarlo a  vantaggio della propria setta.
La dichiarazione di Arafat illumina l’angolo oscuro e perverso della mentalità islamica, che contempla la tregua con il nemico teologico, non la pace.
Il tranquillo comportamento degli islamici non è altro che l’espediente di una tregua provvisoria, concepita quale preparazione alla guerra santa e alla strage dei nemici (attualmente già in atto contro i cristiani residenti  in Medio Oriente).
Le genti islamiche che sbarcano in Italia in veste di supplici hanno una gigantesca volpe sotto l’ascella e tuttavia riescono a trarre in inganno il lacrimoso pensiero dei buonisti e dei progressisti.
La speranza in un risveglio della coscienza dei politicanti italiani e di quella del clero progressista sono purtroppo fioche. La finta pietà mastica foglie di coca mentre il ruvido masochismo degli internazionalisti dilaga senza incontrare ostacoli. L’unica arma in mano ai cristiani è la coroncina del Santo Rosario.


                                                                                                                                                       

giovedì 20 agosto 2015

DOGMI E CENSURE: UN INVENTARIO



Dogmi e censure: un inventario

di Marco Della Luna
 
Notoriamente, se un’affermazione, per quanto falsa, viene ripetuta decine di migliaia di volte soprattutto dalla tv, alla fine la gente la sentirà come vera.
 
I regimi inculcano così dogmi, insiemi di dogmi, costituenti un senso comune artificiale, utile alla gestione del corpo sociale, a far accettare alla gente come giustificate le operazioni che si compiono sulla sua testa, sulle sue tasche, sulla sua vita, sui suoi diritti. Ma anche sulla società come tale. Un senso comune che produce quindi consenso (legittimazione democratica) e ottemperanza popolare (compliance).
 
Chi osa uscire criticamente dal recinto dei dogmi e della dialettica consentita tra i paletti, viene etichettato come antagonista, estremista, antisociale, populista, eccetera, e viene delegittimato culturalmente, emarginato – finché i fatti e le realtà censurate non rompono l’incantesimo del sistema dogmatico.
 
Facciamo l’inventario, o l’inizio dell’inventario, di questi dogmi nel nostro sistema, sempre più scosso e incrinato dalla pressione della realtà rimossa:
 
1) Dogma dei mercati efficienti: I mercati sono tendenzialmente liberi e trasparenti, prevengono o correggono inefficientemente le crisi e, realizzano l’ottimale distribuzione delle risorse e dei redditi, abbassano i prezzi e le tariffe; puniscono gli Stati inefficienti e spendaccioni mentre premiano quelli efficienti e virtuosi, perciò la regolazione della politica va ultimamente affidata ad essi.
 
2) Dogma della spesa pubblica: la spesa pubblica è la causa dell’indebitamento pubblico, il quale a sua volta è la causa delle tasse, della recessione e, dell’inefficienza del sistema; l’obiettivo è dunque tagliare la spesa pubblica come tale e affidare i servizi pubblici alla gestione del mercato, cioè alla logica del profitto.
 
3) Dogma dell’integrazione europea: l’integrazione europea è insieme benefica, possibile e inevitabile; chi si oppone si oppone a una tendenza naturale e storica, va contro la realtà e gli interessi di tutti; l’Europa quindi legittimamente detta le regole a cui tutti devono adeguarsi.
 
4) Dogma dell’euro moneta unica: l’euro moneta unica produce la convergenza delle economie europee, quindi sostiene l’assimilazione e integrazione tra i paesi europei, favorisce la nuova crescita economica e la loro solidarietà.
 
5) Dogma della preziosità e della scarsità oggettive della moneta: la moneta non è un simbolo prodotto a costo zero, ma è un bene, una commodity, con un costo di produzione che giustifica il fatto che coloro che la producono (come moneta primaria o creditizia), in cambio di essa, tolgano grandi quote del reddito a chi produce beni e servizi reali.
 
6) Dogma dell’immigrazione benefica: l’immigrazione va accolta anche sostenendo grosse spese perché essa è economicamente benefica ed indispensabile per compensare l’invecchiamento e il diradamento della popolazione attiva, quindi per sostenere il sistema previdenziale e per coprire i molti posti di lavoro che gli italiani rifiutano; non è vero che tolga posti di lavoro agli italiani, che faccia loro concorrenza al ribasso sui salari, che serva come manovalanza alle mafie, che comporti un apprezzabile aumento della criminalità o dei costi sanitari o assistenziali.
 
Carattere comune di questi punti dottrinali e propagandistici, è la censura od occultamento dei conflitti di interessi e di bisogni, e ancor più della lotta di classe in atto.
 
Soprattutto viene sottaciuto il conflitto di interesse tra classi sociali, specificamente tra classe globale finanziaria improduttiva parassitaria speculatrice e le classi produttive dell’economia reale, legate ai loro territori, e sempre più private di potere sulle istituzioni nonché di quote di reddito in favore delle rendite finanziarie.
 
Conflitto di interessi tra nord e sud d’Italia, in cui alcune regioni settentrionali patiscono un permanente trasferimento dei loro redditi in favore di alcune regioni meridionali onde tenere unito il sistema paese, ma questo trasferimento sta spegnendo le loro capacità economiche del nord e induce le loro aziende e i loro migliori lavoratori ad emigrare.
 
Conflitto di bisogni oggettivi tra paesi manifatturieri come Italia e Germania, nel quale la Germania ha interesse a tenere l’Italia entro una moneta comune per togliere all’Italia il vantaggio di una moneta più debole, quindi di una maggiore competitività rispetto alla Germania, così da prendere anche sue quote di mercato.
 
Conflitto di bisogni oggettivi tra paesi creditori, come la Germania, e paesi debitori, come l’Italia: i tedeschi, essendo detentori di crediti sia personali, previdenziali, da investimento, sia anche pubblici, sono interessati a mantenere forte il ricorso della valuta in cui quei crediti sono dedicati denominati, cioè l’euro – da qui l’esigenza di tenere stretti i cordoni della borsa, cioè di far scarseggiare la moneta per tenerne alto il corso; per contro l’Italia e gli italiani, essendo indebitati e avendo i loro investimenti perlopiù in immobili, hanno bisogno di una moneta meno forte.
 
Conflitto di bisogni tra paesi in recessione, che hanno bisogno di politiche monetarie espansive, e paesi in crescita, che hanno bisogno di politiche monetarie restrittive; e tra paesi ad economia manifatturiera-trasformatrice e paesi ad economia basata sui servizi finanziari e il commercio (Regno Unito): tutti conflitti che rendono dannosa l’unione monetaria, o meglio che fanno sì che la politica monetaria faccia gli interessi del paese più forte dentro di essa (Germania) a danno dei paesi meno forti.
 
Conflitto di interesse propriamente di classe tra imprenditori e lavoratori: i primi hanno interesse a togliere ai lavoratori quanto più possibile forza negoziale e capacità di resistenza, di sciopero, oltre che di salario. Conflitto di interesse tra cittadini utenti e monopolisti/oligopolisti di servizi pubblici: questi ultimi hanno interesse a imporre tariffe sempre più alte in cambio di servizi sempre più scarsi, onde massimizzare i loro profitti; da qui la privatizzazione sistematica di tali servizi.
 
In conclusione, il regime, cioè il sistema di spartizione del reddito tra le varie classi economiche – sistema che vede oggi la classe finanziaria prendersi tutto il reddito disponibile – si regge su un consenso e un’acquiescenza ottenuti tanto mediante l’indottrinamento con dogmi, quanto con il sistematico nascondimento di conflitti di interessi che non devono apparire onde evitare che la gente percepisca il male che le viene fatto.
 
È stato costruito, con la collaborazione dei media e dei politici (quasi tutti), un senso comune socio- economico, una percezione comune della realtà, che consente a una classe globale parassitaria di perfezionare la spoliazione dei diritti e dei redditi delle altre classi, facendola apparire come espressione naturale di leggi impersonali del mercato, non come una guerra di classe.
 
Di questo senso comune fa parte anche la concezione del genere umano come di una competizione assoluta e totale tra individui per la conquista della ricchezza e del potere – perché questa è l’ide(ologi)a del mercatismo: il bellum omnium erga omnes, un individualismo di massa (ciascuno è solo davanti allo schermo, davanti alle tasse, davanti alle banche, davanti ai problemi di salute, vecchiaia, disoccupazione; e soprattutto davanti a un sempre più impersonale e grande datore di lavoro), senza diritti comuni, senza solidarietà e garanzie, dove tutto è merce e prestazione, dove è proibito agli Stati persino introdurre tutele alla salute pubblica, se queste possono limitare il profitto delle corporations (norme del WTO e del TTIP).
 
Questo modello socio-economico, che viene costruito metodicamente, anche a livello legislativo e costituzionale, nazionale ed europeo, dalle nostre élites, e in Italia ultimamente dalla staffetta dei governi Berlusconi-Monti-Letta-Renzi (sotto la locale regia di Giorgio I), è marktkonform, conforme e ideale per le esigenze del mercato e del capitale e del profitto; però mi pare non molto compatibile con le esigenze psicofisiologiche dell’essere umano, inteso sia come individuo, che come famiglia, che come comunità sociale – esigenze che comprendono una prospettiva stabile per la progettazione e l’impostazione della vita, per la procreazione e l’educazione della prole; ma anche ambiti di non mercificazione e di non competitività, e la garanzia di una dimensione pubblica sottratta alla logica del profitto finanziario.
 
 

                                                                                                                                              

domenica 16 agosto 2015

NICOLA BOMBACCI

"Presto tutte le fabbriche saranno socializzate e sarà esaminato anche il problema della terra e della casa perché tutti i lavoratori devono possedere la loro terra e la loro casa…"
Nicola Bombacci

Seguì il Duce nella cattiva sorte,
quando altri fuggivano
o rinnegavano, lui morì gridando
"Viva l'Italia! Viva il Socialismo!"

Nicola Bombacci
(Civitella di Romagna, 24 ottobre 1879 -
 Dongo, 28 aprile 1945)


Dirigente socialista durante la prima Guerra Mondiale e il primo dopoguerra, fu uno dei fondatori del Partito Comunista d'Italia nel 1921. Negli anni trenta si avvicinò al fascismo, dirigendo la rivista “La Verità”. Partecipò alla Repubblica Sociale Italiana e fu fucilato con Mussolini nell'aprile del 1945.
Il 29 aprile '45 furono passati per le armi i gerarchi fascisti per mano dei partigiani comunisti. Cosa curiosa, fra questi c'era una delle massime figure del comunismo italiano, né più né meno che Nicola Bombacci, il fondatore del Partito Comunista Italiano (PCI), amico personale di Lenin, col quale stette in URSS durante la Rivoluzione d'Ottobre. Soprannominato il "Papa Rosso" e, finalmente, incondizionato sostenitore di Mussolini al quale si unì negli ultimi mesi del suo regime. La sua vita fu la storia di una conversione o di una tradizione? O fu per caso, l'evoluzione naturale di un nazional-bolscevismo? La pubblicazione in Italia di una biografia di Bombacci ha riaperto il dibattito sulla ideologia rivoluzionaria del fascismo mussoliniano".
Nicola Bombacci nacque in seno ad una famiglia cattolica della Romagna il 24 ottobre 1879, a pochi chilometri da Predappio, ove nascerà, pochi anni dopo, quello che sarebbe stato il fondatore del fascismo, in una regione in cui la lotta operaia si distinse per la sua durezza. Entra in gioventù nel Partito Socialista Italiano e prende il diploma di maestro (nuovamente le somiglianze con il Duce sono evidenti) per dedicarsi subito, anima e corpo, alla rivoluzione socialista. Per la sua capacità di lavoro e le sue doti organizzative, fu incaricato di dirigere gli organi di stampa socialisti; qui aumenta il suo potere in seno alle organizzazioni operaie e conosce Mussolini che, non dimentichiamolo, fu la grande promessa del socialismo italiano prima di divenire nazional-rivoluzionario. Opposto alla linea morbida della socialdemocrazia, Bombacci fonda, insieme a Gramsci, il Partito Comunista d'Italia e nei primi Anni '20 si reca in URSS per partecipare alla Rivoluzione bolscevica. Lì fa amicizia con Lenin che in una riunione al Cremlino dice di Mussolini: "In Italia compagni, in Italia c'è solo un socialista capace di guidare il popolo verso la rivoluzione: Mussolini!" E poco dopo il Duce inizierà la rivoluzione, però fascista... Come leader del neonato Partito Comunista, Bombacci si convince come la borghesia italiana, che lo soprannomina il "Papa Rosso", sia l'autentico nemico pubblico numero uno. Eletto tra i primi deputati del partito, mentre le squadre fasciste iniziano a formarsi e a confrontarsi con le milizie comuniste, ha come missione quella di contenere l'inevitabile presa del potere da parte del fascismo, ma fallisce nel suo impegno. Dopo l'ascesa al potere da parte di Mussolini resta, senza ombra di dubbio e fedele alle proprie convinzioni, l'eterno anticonformista e il difensore di una politica di avvicinamento dell'Italia all'URSS.
Difensore di una Terza Via, ove il nazionalismo rivoluzionario del fascismo avrebbe potuto incontrarsi col socialismo rivoluzionario del comunismo, fu espulso dal PCI nel '27 e condannato ad un ostracismo politico; nonostante ciò non smise di mantenere contatti con i dirigenti politici russi. A poco a poco si converte, benché "sui generis", a difensore del regime fascista. Non accetta gli incarichi che gli sono offerti, non rinnega le sue origini comuniste e mai nasconde le proprie intenzioni. Nel '36 scrive sulla sua rivista, "la Verità", confessando la propria adesione al fascismo, che: "ho fatto una grandiosa rivoluzione sociale, Mussolini e Lenin. Soviet e Stato Fascista Corporativo, Roma e Mosca. Molto dovremo rettificare, ma nulla di cui farsi perdonare; oggi come ieri ci unisce lo stesso ideale: il trionfo del lavoro". È naturale che Bombacci, un tempo leader comunista, abbia accettato la nuova situazione politica pur rimanendo sempre critico nei confronti del regime. Nonostante l'amicizia con il Duce fosse da tutti conosciuta, non aderisce mai al Partito Nazionale Fascista. Quando Mussolini viene deposto nel luglio '43 e liberato dai tedeschi un mese dopo, il partito fascista crolla. La struttura organica scompare e i dirigenti del partito, provenienti in maggioranza dai ceti privilegiati della società, passano in massa al governo di Badoglio. L'Italia si trova divisa in due, "a sud di Roma gli Alleati avanzano verso il nord" e Mussolini raggruppa i suoi più fedeli, tutti vecchi camerati della prima ora e giovani entusiasti "che i dirigenti del partito avevano abbandonato" e che ancora credono nella rivoluzione fascista e proclama la Repubblica Sociale Italiana. Immediatamente il fascismo sembra voler tornare alle proprie origini rivoluzionarie e Nicola Bombacci aderisce all'appena proclamata Repubblica e porge a Mussolini tutto il proprio appoggio. Il suo sogno è poter portare avanti la costruzione di quella "Repubblica dei lavoratori" per la quale tanto lui che Mussolini combatterono ad inizio secolo. Come Bombacci, si uniscono al nuovo governo altri intellettuali di sinistra: Carlo Silvestri (deputato socialista e dopo la guerra diffusore delle memorie del Duce), Edmondo Cione (filosofo socialista che fu autorizzato a fondare un partito socialista staccato dal Partito Fascista Repubblicano), etc.
Mussolini preoccupato per la situazione militare, ma risoluto più che mai a portare avanti la sua rivoluzione ora che si è liberato della zavorra del passato, autorizza i settori più rivoluzionari del partito ad assumere il potere e inizia la tappa denominata di "socializzazione" che si traduce nella promulgazione di leggi chiaramente di ispirazione socialista, quali la creazione dei sindacati, la cogestione nelle imprese, la distribuzione di benefici e la nazionalizzazione dei settori industriali di importanza strategica. Tutto ciò è riassunto nei famosi "18 punti" del primo (e unico) Congresso del Partito Fascista Repubblicano a Verona; un documento, redatto congiuntamente da Mussolini e Bombacci, che doveva convertirsi nelle basi della nuova Costituzione dello Stato Sociale Repubblicano. In politica estera, Bombacci tenta di convincere Mussolini a firmare la pace con l'URSS e a continuare la guerra contro la plutocrazia anglosassone, risuscitando l'asse Roma-Berlino-Mosca dei pensatori geopolitici del nazional-bolscevismo degli Anni '20. Se per molti l'ultimo Mussolini era un uomo finito, burattino dei tedeschi, non finisce di sorprendere l'adesione che ha ricevuto da uomini come Bombacci, un vero idealista con una oratoria attraente, allergico a tutto ciò che significasse inquadrarsi o imborghesirsi e che non accetterà neppure ora alcun incarico né stipendio ufficiale. Bombacci diverrà il consigliere e il confidente di Mussolini per gettare, nuovamente, le basi del Partito dei Lavoratori.
Viaggerà nelle fabbriche spiegando la rivoluzione sociale del nuovo regime e il perché della sua adesione, mentre la situazione militare si sta deteriorando e i gruppi terroristi comunisti (i tristemente famosi GAP) già hanno deciso di eliminarlo per il pericolo rappresentato dalla sua attività. Però la guerra sta arrivando alla fine. Benito Mussolini, consigliato dall'ex-deputato socialista Carlo Silvestri e da Bombacci propone di consegnare il potere ai socialisti, integrati nel Comitato Nazionale di Liberazione, piuttosto che ai dirigenti di destra del Sud. Senza alcun dubbio i negoziati fallirono. Nell'aprile '45 le autorità militari tedesche in Italia si arrendono agli alleati. È la fine. Nicola Bombacci, sempre fedele, sempre sereno, accompagna Mussolini al suo ultimo e drammatico viaggio verso la morte. Il racconto di Vittorio Mussolini, figlio del Duce, del suo ultimo incontro col padre, in compagnia di Bombacci ci insegna la sua interezza. "Ho pensato al destino di questo uomo, un vero apostolo del proletariato, un tempo nemico accanito del fascismo e ora a fianco di mio padre senza alcun incarico né prebenda, fedele a due capi diversi fino alla morte. La sua calma mi è servita di conforto". Poco dopo essersi separato da Mussolini e dalla colonna dei suoi ultimi fedeli per risparmiare loro di dover spartire il suo destino, Bombacci è detenuto assieme ad altri dai partigiani comunisti. La mattina del 29 aprile fu posto di fronte al plotone di esecuzione; accanto a lui, Barracu, un valoroso ex-combattente, mutilato di guerra, Pavolini il poeta segretario generale del partito, Valerio Zerbino, un intellettuale; di fronte al plotone tutti gridano: "viva l'Italia!", mentre non cessa di essere un paradosso, fedele riflesso della controversa personalità di Bombacci, che, mentre il suo corpo cade attraversato dalle pallottole dei partigiani socialisti, grida: "Viva il Socialismo!".

NICOLA BOMBACCI – l’apostolo della socializzazione
Nicola Bombacci visse da uomo politico, prestato a quella politica “per cui uno si occupa dei guai degli altri come se fossero propri”, come egli stesso scrisse.
Una banale e quasi infantile definizione di politica, questa, che in tempi come i nostri illumina e fa scuola. Il vivaio in cui crebbe fu quello del più intransigente socialismo; aderì alla corrente massimalista del Partito Socialista Italiano, quella che chiedeva al partito di non distogliere la propria attenzione dai suoi obiettivi massimi, anticapitalistici e rivoluzionari, e di sottoscrivere i 21 punti di Mosca per l’adesione alla Internazionale Comunista. Come avvenne a Mussolini con la fondazione dei Fasci di combattimento, l’essere più socialista degli altri socialisti portò anche Bombacci ad allontanarsi dal partito e dalla sua corrente riformista. Il XVII Congresso del Partito Socialista segnò la scissione che portò alla nascita del Partito Comunista Italiano, del quale Bombacci fu fra i fondatori. Colpevole di aver intravisto, e non per primo, un possibile gemellaggio ideale fra le due rivoluzioni, quella sovietica e quella italiana, nel 1924 fu espulso dal PCd’I, per poi essere reintegrato per intervento diretto dell’Internazionale Comunista.
Nello stesso anno l’Italia di Mussolini fu il primo Paese a riconoscere formalmente l’Unione Sovietica. Anche negli anni della militanza nel PCd’I, Bombacci si mantenne sempre idealmente vicino al fascismo italiano, al punto che, nel 1927, subì una nuova e definitiva espulsione dal partito. La rottura fra Bombacci e il comunismo fu definitiva quando gli eventi accelerarono in direzione del conflitto mondiale prima e della Repubblica Sociale poi. Per Bombacci e per il Fascismo quelli furono gli anni del ritorno alle origini; disilluso
nei riguardi del comunismo il primo, e rescissi tutti i legami con monarchia, industriali e borghesia il secondo, il matrimonio politico fra Bombacci e Mussolini fu totale, sancito dalla propaganda e cementato dalla “socializzazione delle imprese”, capolavoro sociale dell’ideologia sansepolcrista e punto più alto della rivoluzione finalmente compiuta.
Bombacci era a proprio agio a parlare da rivoluzionario di qualcosa di realmente rivoluzionario, che avrebbe portato i lavoratori a partecipare alla gestione delle aziende e alla suddivisione degli utili, restituendo al lavoro fisico e intellettuale la medesima dignità del capitale, avviando finalmente il passo verso quella terza via fra capitalismo e socialismo che avrebbe reso inutili e superati i concetti di destra e sinistra. Non fu simpatico ai socialisti, perché li aveva resi “di destra”. Non fu simpatico ai comunisti, perché li aveva resi conservatori.
Non fu simpatico ai tedeschi, perché le riforme economiche, soprattutto quelle rivoluzionarie, poco si addicono a una economia di guerra. Piacque, però, immensamente a Mussolini, perché era intellettualmente onesto, perché era un appassionato difensore della più pura anima del socialismo.
Avevano iniziato la loro storia politica insieme, poi uno dei due fu abbagliato da un finto sole, l’altro se ne inventò uno tutto suo che passò alla storia. Non smisero mai di stimarsi e dimostrarono al mondo che un av versario non è necessariamente un nemico, e che si può continuare a combattere senza smettere di rispettarsi.
Nicola Bombacci seguì il Duce nella cattiva sorte, quando altri fuggivano o rinnegavano, lui morì gridando "Viva l'Italia! Viva il Socialismo!", dopo essere stato catturato nella colonna fascista diretta in Valtellina per l’ultima resistenza. Era nel suo destino anche quello di essere al fianco di Mussolini, appeso per i piedi, in Piazzale Loreto. Sotto il suo corpo gli assassini appesero un cartello con scritto “SUPERTRADITORE”.
Curioso che quella parola l’abbia scritta una mano partigiana e comunista che, mentre si preparava a diventare il finto baluardo dei lavoratori, si affrettava (questo accadde il 25 aprile 1945) ad abrogare il decreto sulla socializzazione delle imprese. “Traditore a chi?” potremmo dire noi oggi.
Dall’ingresso a sinistra del Campo 10 la prima lapide è la tua, Nicola Bombacci. Un giusto tributo verso chi nacque e morì socialista con il cuore puro di un bambino.

MARZO 1945 BOMBACCI A GENOVA PARLA A 3.000 LAVORATORI

Nicola Bombacci (1879-1945), il rivoluzionario italiano più scomodo del Ventesimo secolo, l’uomo che cercò di unificare le due rivoluzioni del Novecento: la bolscevica di Lenin e quella fascista di Mussolini. Per i comunisti italiani, guidati nel 1945 da soggetti di secondo piano (rispetto ai  Gramsci, ai Bordiga e Bombacci fondatori del P.C.d.I. nel 1921), quali Palmiro Togliatti e Luigi Longo, Nicola Bombacci doveva essere – alla stregua di Mussolini – semplicemente demonizzato ed ignorato perché tremendamente imbarazzante. Ed infatti il suo nome è stato completamente cancellato dalla storia del movimento operaio italiano e mondiale, lui che fu il fondatore, con Antonio Gramsci ed Amadeo Bordiga per l’appunto, delPartito Comunista d’Italia (P.C.d.I.) nel gennaio 1921 a Livorno al 17° Congresso del P.S.I., lui che volle nel 1919 il simbolo della falce e martello (incrociati fra due spighe di grano) – importato dai soviet russi – sulle bandiere rosse dei socialisti italiani. Disse Vladimir Il’ič Lenin a Nicola Bombacci ed ai delegati comunisti italiani il 31 ottobre 1922 (11 novembre del calendario russo):
La foto risale al 31 ottobre 1922 e si vedono alcuni componenti comunisti italiani a Mosca ripresi accanto a Lenin. Tra questi esponenti comunisti italiani, chinato verso il leader del PCUS, troviamo proprio Nicola Bombacci.

Nicola Bombacci, comunista e mussoliniano fino alla morte, estensore ideologo dei punti programmatici della Carta di Verona della Repubblica Sociale Italiana nel 1943, definito  dal comunista del CLNAI Luigi Longo, sarà assassinato dai partigiani a Dongo il 28 aprile 1945 ed esposto al vilipendio di cadavere a Piazzale Loreto il 29 aprile seguente. Il Lenin mussoliniano di Romagna, non si era rassegnato, egli credeva nella verità del fascismo comunistico rosso-nero. E non intendeva lasciarsi sconfiggere dalla vecchia menzogna degli interessi della politica: fatta sul sangue. Si sentiva portatore di un messaggio di libertà per il proletariato italiano tutto (fascista, comunista etc.). A questo messaggio non intendeva rinunciare.  Prima di essere assassinato a Dongo dai partigiani, nemici della libertà, ha gridato: " Viva Mussolini! Viva il socialismo"

IL CORPO DI NICOLA BOMBACCI

LO SCEMPIO DI PIAZZALE LORETO



IL CORPO APPESO DI NICOLA BOMBACCI





IL SANGUE DEI VINTI

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I CADUTI DELLA R.S.I.

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LA SOCIALIZZAZIONE

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TULIO CIANETTI

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STANIS RUINAS E IL "PENSIERO NAZIONALE"

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LA VERITA' : RIVISTA DIRETTA DA NICOLA BOMBACCI



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