sabato 29 novembre 2014

Giorgio Pisanò pioniere del revisionismo sulla storia d’Italia

Giorgio Pisanò pioniere del revisionismo sulla storia d’Italia

Pubblicato il 17 ottobre 2013 da Giorgio Ballario
Categorie : Cultura Personaggi Ritratti non conformi
giorgio pisanòSe oggi, a distanza di oltre sessant’anni, è possibile provare a riscrivere un pezzetto di storia italiana, è merito anche di persone come Giorgio Pisanò, giornalista e politico del vecchio Msi, scomparso il 17 ottobre di quindici anni fa. E Giampaolo Pansa, giornalista onesto e coraggioso, l’ha sempre riconosciuto. E’ stato lui, Pansa, a rendere patrimonio collettivo di una nazione una verità storica che in precedenza era stata appannaggio di poche migliaia di italiani ostinati. Ostinati lettori di ostinati piccoli autori storici come Pisanò, che diffondevano quasi clandestinamente le loro opere.
“Il sangue dei vinti”, uscito nel 2003, ha squarciato il velo di omertà che teneva ostaggio un’intera nazione; così come in seguito hanno continuato a fare “Sconosciuto 1945” (2005), “La grande bugia” (2006) e “I gendarmi della memoria” (2007). Ma questi libri fondamentali non sarebbero mai stati scritti se prima non ci fossero state le opere di Pisanò: “Sangue chiama sangue” (1962), “Storia della guerra civile in Italia” (1965) e il più recente “Il triangolo della morte” (1992).
Nato a Ferrara nel 1924, figlio di un funzionario pubblico di origine pugliese, Giorgio Pisanò brucia la “prima” delle sue vite combattendo con l’impeto dei vent’anni la guerra persa della Rsi, prima nella X Mas, poi con le Brigate Nere, infine, dopo il 25 aprile, con gli ultimi sbandati nel ridotto della Valtellina. Arrestato dai partigiani il 28 aprile del 1945 finisce in carcere a Sondrio e poi per un anno e mezzo in un campo di concentramento a Terni. Liberato nel novembre del ’46, è tra i fondatori dell’Msi a Como.
Ma è l’anno successivo che inizia la sua “seconda” vita, quella di giornalista. Lavora al settimanale “Meridiano d’Italia”, poi passa al rotocalco “Oggi”, di Edilio Rusconi, dove comincia a raccogliere materiale e testimonianze sul periodo della guerra civile e sul famoso mistero dell’oro di Dongo. Scrive anche su un altro settimanale Rusconi, “Gente”. Nel 1963 lancia la rivista “XX Secolo”, dove pubblica inchieste scottanti su vari enigmi italiani, fra cui la morte di Mattei. Nel 1968 resuscita e dirige il famoso settimanale “Candido”, fondato da Giovannino Guareschi, che porterà regolarmente in edicola fino al 1992.
L’attività di giornalista si interseca poi con la sua “terza” vita, quella di parlamentare. Nel 1972 viene eletto in Senato nelle file dell’Msi e vi rimarrà per cinque legislature, fino al 1992, partecipando fra l’altro a commissioni delicate come quella di Controllo sulla Rai, la Commissione Antimafia e quella che indagò sulla Loggia P2. Nel ’91, pochi anni dopo la morte di Almirante, lascia l’Msi e fonda un suo partito, Fascismo e Libertà, ricoprendo anche la carica di consigliere comunale a Cortina d’Ampezzo. Nel ’95, dopo la “svolta di Fiuggi”, aderisce al progetto di Pino Rauti per dar vita alla Fiamma Tricolore, partito che abbandonerà presto anche per il peggioramento delle sue condizioni di salute. Muore a Milano il 17 ottobre del 1997 dopo una lunga malattia.
La sua ultima avventura editoriale risale al 1994, quando aveva fondato il mensile “Seconda Repubblica”. Sottotitolo: “Periodico dei fascisti e dei produttori per la democrazia corporativa”. I bersagli erano ben chiari e lo stesso Pisanò li individuava in un’intervista al Corriere della Sera: “Fini e i suoi uomini”. “Sono un giornalista d'assalto
 non un intellettuale – commentava in quella circostanza – La logica, il buon senso e i miei settant’anni mi consigliavano di starmene tranquillo. Ma la logica e il buon senso non hanno mai avuto un ruolo determinante nella mia vita”. Comunque si giudichi l’uomo Giorgio Pisanò e la sua cinquantennale attività politica e giornalistica, è stato un personaggio genuino, disinteressato, che merita un posto nella galleria ideale di chi preferisce cantare “fuori dal coro”.
@barbadilloit

A cura di Giorgio Ballario

martedì 25 novembre 2014

Gli artigli del governo Renzi su TFR e fondi pensione



ECONOMIA 2014

Gli artigli del governo Renzi su TFR e fondi pensione

di Giuseppe Biamonte

Ora la chiamano "legge di stabilità". Ma la sostanza non cambia. Un tempo denominata "legge finanziaria" era l’ineluttabile iattura, che, di anno in anno, puntualmente, alleggeriva le tasche (ormai quasi del tutto vuote) di milioni di famiglie italiane. Dopo la sciagurata firma, nel marzo di due anni fa - si era al tempo del primo governo "golpista", quello non eletto guidato da Mario Monti e caparbiamente sponsorizzato dal Quirinale e dai poteri forti nazionali e internazionali -, dell’altrettanto famigerato Trattato sulla stabilità (gli anglofoni nostrani amano indicarlo col termine Fiscal Compact), ecco che il cappio sui popoli europei inizia a mostrare tutta la sua ferocia strangolatrice.

La parola d’ordine è "riformare l’economia e il sociale nel segno dell’ideologia liberista ormai trionfante": dal cd. "Mercato del lavoro", con una devastante precarizzazione delle condizioni e della stabilità del posto di lavoro (abolizione de facto dell’art. 18, contrattazione sempre più unilaterale e a termine, falcidia dei diritti dei lavoratori, ristrutturazione verso il basso di stipendi e salari e, in parallelo, delle pensioni.

Vedere ad esempio la mannaia abbattutasi sulle pensioni di reversibilità nel totale e complice silenzio di tutte le forze politiche), al "riordino" delle economie dei singoli stati europei, incanalate verso la folle soluzione ideologica di un liberismo sempre più selvaggio e disumano; dalla demonizzazione delle istanze sociali e popolari, alla drastica riduzione della partecipazione pubblica nei servizi essenziali di pubblica utilità (energia, trasporti, sanità, scuola, cultura), resi appositamente sempre più costosi e inefficienti per giustificare il disegno criminale delle privatizzazioni ad ogni costo.

Per restare nell’ottica dell’euro e giocare la partita illusoria, se non impossibile (il mostruoso debito pubblico italiano è pari al 135% del Pil, ai tempi dell’ex satiro di Arcore era al 120%), della riduzione dello stesso debito pubblico al 60%, nonostante le pur apprezzabili prese di posizione dello yuppie fiorentino contro il patto strangolatore (ma si tratta di gioco delle parti e nulla più, di scelta di campo nella guerra tra le gang dell’alta finanza, Renzi dalla parte delle politiche antieuropee di Usa e Regno Unito contro Germania e Europa. Il recente G20 ha dimostrato quali siano gli amici cui si appoggia l’ex sindaco di Firenze), esce dal cilindro del governo Renzi, dietro l’esigenza primaria di fare cassa e sparare nel mucchio - un bersaglio facile facile – due provvedimenti, contenuti per l’appunto nella legge di stabilità, che vanno ad intaccare il risparmio dei lavoratori italiani ai fini previdenziali. Il primo di tali provvedimenti riguarda il TFR., il secondo l’aumento della tassazione dei fondi pensione.

Per quanto riguarda la prima norma, l’art. 6 prevede che la quota maturanda annuale del TFR, su richiesta irrevocabile del lavoratore, possa essere versata mensilmente al fondo di previdenza complementare, anziché essere accantonata per il TFR. La quota corrisposta andrà a sommarsi alla retribuzione mensile e sarà così sottoposta alla tassazione ordinaria.

L’indecente norma non solo contribuirà alla diluizione in piccole somme mensili delle quote che erano destinate al TFR, dunque un risparmio forzoso costituito da piccoli importi poco utili al lavoratore (viceversa, col TFR i lavoratori potevano alla fine destinare quelle somme o per l’acquisto della propria casa d’abitazione o per altre esigenze straordinarie) ma l’applicazione della tassazione ordinaria, anziché quella "speciale separata" attualmente applicata al TFR, costituirà un’ulteriore assottigliamento dell’importo mensile e potrebbe oltremodo far scattare verso l’alto l’aliquota IRPEF. Non solo: l’irrevocabilità della scelta per il triennio di vigenza (30 giugno 2018) impedirà al lavoratore di tornare sui suoi passi in caso di necessità.

La seconda norma, quella che risponde al comma 1 dell’art. 44 della proposta di legge, prevede – udite, udite – l’aumento retroattivo dal 1° gennaio 2014 della tassazione sui rendimenti annuali dei fondi pensione, dall’attuale 11,5% al 20%. Se invece il TFR rimane in azienda, su scelta del lavoratore, e non viene conferito al fondo pensione , la tassazione passa dall’attuale 11% al 17%.

Una norma incivile e barbara che colpisce duramente il futuro pensionistico dei lavoratori. Si tratta nella sostanza di un vero e proprio esproprio da parte dello Stato di somme destinate a finalità sociali, quali la previdenza dei lavoratori. Una vergogna abissale, che è aggravata ulteriormente dal fatto che in quasi tutti i paesi europei che hanno adottato la previdenza complementare vige il criterio dell’esenzione fiscale sugli incrementi maturati durante il periodo di accumulo dei rendimenti dei fondi. Il prelievo avviene soltanto al momento della rendita.

Quante volte abbiamo sentito i nostri politicanti al governo e all’opposizione (si fa per dire), senza distinzione di casacca (destra, sinistra centro), pronunciare la frase magica: "È l’Europa che lo vuole" quando si trattava di stangare a dovere il popolo italiano? Ebbene in questo caso il governo Renzi sembra essere più realista del re. L’applicazione di queste norme antisociali ha superato ogni immaginazione e peggiora di gran lunga la legislazione vigente nel resto d’Europa.

Insomma il Pitti-Bimbo e i suoi sodali al governo, tra cui spiccano per indecenza politica i valvassini del NCD, finte opposizioni comprese, colpisce duramente e senza scrupoli il risparmio ai fini previdenziali o personali dei lavoratori italiani, aprendo un nuovo varco di incertezze e difficoltà oggettive al momento della cessazione del loro rapporto di lavoro. Con un colpo solo si tende ancora di più a mortificare lo stato sociale dei lavoratori italiani, cancellando progressivamente tutte le conquiste sociali di decenni di lotte e di sacrifici. Un esproprio dei risparmi derivanti dal lavoro studiato e concertato coi poteri forti, veri protagonisti di questi ultimi vent’anni di storia italiota, attraverso la rapace e iniqua applicazione di una devastante tassazione che colpisce al cuore non solo i redditi dei lavoratori e pensionati ma anche le loro abitazioni acquistate magari proprio attraverso quella che costituiva un tempo l’ancora di salvezza di molte famiglie italiane: il TFR.

Un grande obiettivo di civiltà e di giustizia sociale, in questa contingenza di forte criticità per l’intero movimento sindacale italiano, è quello di opporsi, da subito e con ogni mezzo, a questa ulteriore infamia che si sta consumando alle spalle dei lavoratori e dei pensionati italiani.


                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                 

domenica 23 novembre 2014

I CRIMINI DEI VINCITORI !


 

di Giorgio Pisanò
Anche ammesso che le "verità" imposte sui crimini di guerra attribuiti ai tedeschi,a cominciare dal genocidio degli ebrei, siano tutte indiscutibili, sta di fatto che i crimini compiuti dai vincitori durante e dopo il conflitto furono molto più numerosi e spaventosi: eccone un primo elenco
E' trascorso mezzo secolo dalla fine del secondo conflitto mondiale: mezzo secolo dominato dalla implacabile, martellante, quasi totalmente incontrastata valanga quotidiana di celebrazioni, rievocazioni, memoriali, ricostruzioni storiche e pseudostoriche degli eventi che dal 1939 al 1945 insanguinarono il mondo intero, ma soprattutto l'Europa e l'Asia.
Una valanga ampliata e moltiplicata dalla forza dirompente del mezzo televisivo che ha finito col plagiare i cervelli di almeno tre generazioni sulla base di un motivo dominante: vale a dire la barbarie, la ferocia disumana, la criminalità senza limiti dei vinti, responsabili di ogni nefandezza. Una barbarie sconfitta grazie al valore, alla disinteressata bontà, alla sconfinata umanità degli eroi belli, vendicatori e liberatori che, indossando le divise degli eserciti vincitori, seppero restituire ai popoli oppressi la possibilità di vivere in un mondo giusto e felice, sconfiggendo la delinquenza organizzata italo-tedesco-nipponica. E a dimostrazione e conferma di questa edificante favola, si riproducono ossessivamente, da cinquanta anni, soprattutto le immagini filmate dagli americani al loro arrivo in alcuni campi di concentramento tedeschi nei giorni conclusivi del conflitto.
Montagne di cadaveri, masse cenciose di agonizzanti, cumuli di occhiali, di capelli, di denti già appartenuti a uomini e donne spietatamente eliminati in nome di un'ideologia aberrante e dell'odio di razza. Forni crematori. Camere a gas. Tutto vero, certamente, fino a prova contraria. Che nessuno può azzardarsi ad avanzare perché, in Germania, è addirittura reato dubitare della totale autenticità di queste documentazioni prodotte e imposte, dal 1945 in poi, dai vincitori.
Ma nonostante la ferrea, quasi invalicabile barriera protettiva eretta dai vincitori a difesa della favola bella dei "liberatori" che sconfissero il Male con le armi della giustizia e della umanità, larghe crepe cominciano ormai a prodursi in questa muraglia, e l'opinione pubblica inizia a capire che la "verità protetta" imposta dai vincitori è cosa diversa dai fatti così come si svolsero e, soprattutto, inizia a comprendere che, dietro a quella "verità", nascosta da quella "verità", ce n'è un'altra, che affiora sconvolgente e atroce: la verità sui crimini dei vincitori. Inizia a capire, in poche parole, che i crimini dei vinti (e ne sono stati commessi, così come se ne commettono in tutte le guerre) sono stati moltipllcati, esasperati, deliberatamente gonfiati, anche inventati di sana pianta, al solo scopo di nascondere, o di fare dimenticare, ben altri, spaventosi crimini: i crimini, appunto, dei vincitori. Siamo così di fronte ad una materia esplosiva, che va portata alla luce dopo essere rimasta sepolta per mezzo secolo. Una materia che allinea centinaia di migliaia di episodi, di portata singola e collettiva, e che coinvolge la storia, finora sconosciuta, di popoli interi. Noi ci sforzeremo, nei prossimi numeri di questa pubblicazione, di documentare, per ora, i grandi episodi di criminalità di cui i vincitori si sono resi responsabili, e invitiamo i lettori che ne siano a conoscenza a collaborare con questa nostra opera di documentazione, segnalandoci fatti, situazioni, protagonisti e testimoni. Cominceremo così a creare un archivio da lasciare a coloro che, dopo di noi, vorranno fare luce completa su questa terrificante pagina di storia che offende l'intera umanità. Ecco, intanto, un primo elenco di crimini dei vincitori.
I BOMBARDAMENTI TERRORISTICI ANGLO AMERICANI SULLE CITTÀ ITALIANE DOPO LA RESA DELL'8 SETTEMBRE 1943
Furono migliaia. Solo nel 1944, gli angloamericani effettuarono sull'Italia centro-settentrionale, territorio della Repubblica Sociale Italiana, 4.541 incursioni, uccidendo 22.000 civili e ferendone oltre 36.000. Da ricordare, inoltre, nel 1943, proprio durante i quarantacinque giorni di Badoglio, i bombardamenti terroristici su Milano, Torino, Genova e, l'1 settembre, la distruzione di Pescara, città completamente senza difesa contro le incursioni aeree, e il bombardamento di Frascati, rasa al suolo con migliaia di morti, solo perché ai comandi alleati era giunta notizia che in quella cittadina laziale aveva sede il comando del Maresciallo Kesselring. Altro selvaggio crimine da ricordare è il bombardamento di Treviso che, il giorno di Venerdì Santo del 1944, venne distrutta da un feroce attacco aereo, senza che nella città avessero sede basi militari o comandi italo-tedeschi. Solo a guerra finita si seppe che l'incursione era stata decisa dopo che un'informazione, proveniente da fonte antifascista clandestina, aveva comunicato che quel giorno Mussolini e Hitler dovevano incontrarsi a Treviso. L'informazione era sbagliata. Quel giorno i due Capi di Stato si incontrarono sì, ma al confine di Tarvisio. La spia antifascista scambiò TREVISO per TARVISIO e quell'errore costò la vita a quattromila abitanti della città veneta.
LE "MAROCCHINATE" DI ESPERIA
Il crimine venne compiuto dalle truppe marocchine che, al comando del generale francese Juin, avevano combattuto a Cassino. Quale premio venne concesso loro il diritto di rapina e la libertà di disporre delle donne italiane. Fu così che duemila donne di Esperia, cittadina laziale ad ovest di Cassino, vennero selvaggiamente aggredite, stuprate, violentate dai soldati di colore. Tutte: dai dieci agli ottantatrè anni. L'episodio diede origine a un film famoso, interpretato da Sofia Loren, "La Ciociara", che però non diede assolutamente la misura dell'entità del crimine.
IL MARTIRIO DELLE DONNE DELLA SLESIA
Ma se duemila furono le donne italiane stuprate dai marocchini ad Esperia, di ben maggiore e apocalittica dimensione, fu la tragedia che si abbattè sulle donne tedesche della Slesia, dove vennero considerate "bottino di guerra" dalle truppe sovietiche conquistatrici, che ne violentarono, stuprarono e massacrarono oltre quattro milioni. E' una pagina, questa, sulla quale i vincitori hanno imposto per decenni il più totale silenzio. La tragedia iniziò quando la Slesia, regione orientale di confine della Germania, venne raggiunta e invasa dalle truppe dell'Armata Rossa che avanzavano verso occidente. In quelle terre martoriate non ci fu più legge umana né trattato internazionale che potesse valere, ma solo la legge della giungla e del terrore imposta dalle orde bolsceviche. Quattro milioni di donne violentate: quattro milioni di storie agghiaccianti che è vietato ricordare, delle quali esiste memoria scritta grazie alle autorità cattoliche della Germania Orientale che, nel dopoguerra, riuscirono a raccogliere testimonianze e documenti. Sull'argomento vennero infatti pubblicati, negli anni '50, alcuni "libri bianchi" a cura di monsignor Josef Perche, già vescovo di Breslavia al momento dell'occupazione sovietica. Alcuni di questi libri giunsero, agli inizi degli Anni '60, anche in nostre mani, e fu così che venimmo a conoscenza di questa terrificante pagina di storia, che cercammo di rendere nota dedicandovi " alcuni articoli sul settimanale "Candido". Ma la verità intera potrà diventare di pubblico dominio solo quando i tedeschi della Germania unificata si scrolleranno di dosso quel complesso di inferiorità che grava su di loro dai giorni della sconfitta e si decideranno a rivedere la loro storia, nel bene e nel male, documentando finalmente la verità per quanto riguarda non solo l' "olocausto" degli ebrei nei loro lager, ma anche l'olocausto della loro gente per mano di nemici spietati e criminali.
IL MASSACRO DEGLI INNOCENTI
Erano bambini tedeschi, ancora abbastanza piccoli e leggeri da poter essere presi per i piedi, roteati in aria e scagliati con la testa a fracassarsi contro le ruote dei carri che li trasportavano. Questa fu la sorte spaventosa di migliaia di bambini tedeschi, in fuga con le loro famiglie dalle terre orientali della Germania verso occidente in lunghe colonne di carri trainati da buoi. Decine di migliaia di carri, centinaia di migliaia di donne e bambini terrorizzati, mentre gli uomini continuavano a combattere e a morire nell'illusione di contenere l'avanzata sovietica. Ma la marcia di queste colonne venne quasi sempre bloccata dai comunisti polacchi che controllavano ormai, in quelle ultime settimane di guerra, gran parte del territorio già occupato dai tedeschi nel 1939. A quei posti di blocco furono compiute atrocità inimmaginabili. Fucilazioni in massa dei profughi, stupri e violenze sulle donne indifese e, soprattutto, l'eliminazione sistematica dei bambini tedeschi perché si spegnesse il "seme del popolo germanico". Anche su questa allucinante pagina di storia è d'obbligo il silenzio da cinquantanni. Un silenzio rotto solamente una decina di anni or sono da un documentato libro di Picene Chiodo, edito dalla Mursia, intitolato "E malediranno l'ora in cui partorirono", ma sul quale la pseudo­cultura antifascista ha fatto scendere un sudario tombale.
LE FOSSE DI KATYN
Le scoprirono i tedeschi, per caso, nel 1943 nel territorio polacco già occupato dai sovietici nel 1939: oltre 14.000 cadaveri mummificati in fosse di circa 30 metri per 16. Erano i cadaveri degli ufficiali polacchi catturati dai russi nel 1939. Indossavano tutti le loro divise. Avevano tutti le mani legate dietro alla schiena e presentavano, ognuno, un foro di proiettile alla nuca. I tedeschi denunciarono al mondo, con ampia documentazione, la spaventosa realtà e la fecero analizzare da una commissione della Croce Rossa internazionale. La conclusione fu che lo spaventoso massacro era stato deciso ed attuato dai sovietici che avevano voluto così eliminare spietatamente la classe borghese, vale a dire la classe dirigente polacca, interamente cattolica e anticomunista. La commissione della Croce Rossa giunse anche ad accertare che il massacro era stato attuato da speciali reparti della "Ghepeù" (la polizia segreta sovietica) nelle prime settimane del 1940, poco dopo la resa dell'Armata polacca. Ma i russi gridarono subito che la slrage di Kalyn l'avevano compiute i tedeschi: i loro alleali liberalcapitalisli, nonostante conoscessero perfettamente la verità, si adeguarono al loro volere. Così, per decenni, i 14.000 assassinati di Katyn furono attribuiti ai tedeschi. Invece erano stati i comunisti, per ordine di Stalin. Oggi la verità si è fatta strada, anche perché i polacchi hanno trasformato la foreste di Kalyn in una selva di croci e di lapidi commemorative, molte ferocemente anticomunisle. Ma c'è ancora qualcuno, qui in Italia, imbevuto di quella subcultura "sessantonina" che discende dal pianeta delle scimmie, il quale osa sostenere che le fosse di Katyn le hanno fatte i tedeschi per darne poi la colpa ai sovietici.
SIR ARTHUR HARRIS, IL MACELLAIO DI DRESDA E AMBURGO
Sir Harris fu il capo dei bombardieri inglesi che distrassero le città tedesche, massacrando oltre cinque milioni di civili. Fu lui ad inventare la "feuerslurm", vale a dire la "tempeste di fuoco", che si otteneva con l'infernale alternanza di bombe incendiarie e bombe dirompenti. E fu lui ad essere soprannominalo, dai suoi stessi uomini, "il macellaio". La sua impresa più "epica" resta il bombardamento di Dresda la notte del 13 febbraio 1945, quando la guerra slava per finire. La spaventosa notte di Dresda fu realizzala lanciando sulla città che, completamente priva di difesa antiaerea, contava 600.000 abitanti e ospitava 650.000 profughi dalle terre orientali già occupate dai russi, tre ondate successive di 244, 529 e 450 bombardieri quadrimotori. Dresda, gioiello dell'arte e della cultura germanica, divampò come un braciere. Tra le fiamme morirono dai 135.000 (secondo le storico inglese Irving) ai 270.000 civili (secondo la Croce Rossa Internazionale). Ma la notte di Dresda era già stata preceduta, tra il 25 luglio e il 3 agosto del 1943, da un primo, spaventoso esperimento di "tempeste di fuoco": vale a dire il bombardamento di Amburgo. Cinque notti di incursioni continue condotte da 3.095 bombardieri che avevano sgancialo 9.000 tonnellate di bombe, massacrando 55.000 civili. A sir Arthur Harris, "il macellaio", gli inglesi hanno recentemente dedicalo un monumento. Ma i tedeschi stanno facendo di Dresda il simbolo dell'olocausto tedesco. Uri olocausto terribilmente autentico.
L'ELIMINAZIONE PER FAME DI UN MILIONE DI PRIGIONIERI TEDESCHI
Fu Ike Eisenhower, il comandante in capo dei "liberatori", a volerlo: fece morire di fame, di stenti e di malattie un milione di soldati tedeschi, prigionieri di guerra e rinchiusi nei campi di concentramento americani in Europa. Lo ha documentato, in un recente libro edito dalla Mursia e intitolato "Gli altri lager", lo scrittore canadese James Baque.
LE FOIBE
Adesso finalmente si comincia a parlarne. Ma per oltre quarant'anni, solo noi giornalisti e scrittori liberi da ogni condizionamento antifascista, ne abbiamo documentato l'esistenza. Ottenendo l'unico risultato di vedere inventare un "campo di sterminio", mai esistito, nella ex Risiera di San Sabba a Trieste: inventato negli anni '60 e costruito con cento milioni stanziati dal Comune di Trieste al solo scopo di far dimenticare, con la storia fasulla di quattromila "martiri antifascisti" altrettanto fasulli, la verità vera delle foibe carsiche e dei 10.000 italiani che vi furono scaraventati dentro.
Ma c'è ancora tanto da scoprire sui campi di sterminio jugoslavi dove i comunisti titini, a guerra finita, hanno massacrato altre migliaia di italiani.
L'OLOCAUSTO DEI FASCISTI REPUBBLICANI
Aprile - maggio 1945: oltre cinquantamila assassinati in pochi giorni nelle strade e nelle piazze dell'Italia del Nord. Ma gli italiani ancora non sanno che cosa accadde veramente in quella primavera di sangue. Bisogna intensificare gli sforzi perché tutti, un giorno,possano sapere tutto. E giudicare.
LE BOMBE ATOMICHE DI HIROSHIMA E NAGASAKI
Cercano di non parlarne mai. E quando sono costretti a parlarne, gli americani sostengono che quelle bombe le sganciarono con le lacrime agli occhi, ma solo per fare finire presto la guerra. Balle. Le sganciarono perché le avevano costruite e perché vollero usarle. E una realtà è certa: anche ammesso, ma non concesso, che i tedeschi abbiano commesso tutti i crimini loro attribuiti, sta dì fatto che solo gli americani sono riusciti a massacrare quasi duecentomila innocenti in soli due secondi.
                                                                                                                                          
 

martedì 18 novembre 2014

LA BATTAGLIA DI BIR EL GOBI -- "Qui nessuno ritorna indietro" --

















"Qui nessuno ritorna indietro"


La Battaglia di Bir el Gobi, 

3 dicembre-7 dicembre 1941

Rappresenta uno degli scontri più duri nell'ambito dell'offensiva britannica denominata Operazione Crusader. La battaglia vide impegnate, in particolare, le forze italiane contro quelle del Commonwealth. Bir el Gobi era un importante crocevia per le carovane, nonché ultimo caposaldo della linea dell'Asse nell'entroterra. Per questo motivo i britannici lo reputavano, a ragione, il baluardo da superare per poter aggirare e intrappolare le truppe italo-tedesche e, conseguentemente, liberare le forze alleate che difendevano Tobruk.

Il 18 novembre, a nord di Bir el Gobi, le forze del Commonwealth passarono all'offensiva. Il 23
ebbe luogo una grande battaglia di carri nel deserto, passata alla storia come "battaglia di Totensonntag" (battaglia della domenica dei morti). A Bir el Gobi si insediarono intanto le truppe italiane: i Battaglioni Giovani Fascisti e alcuni reparti del corpo dei bersaglieri.

I soldati italiani ampliarono le fortificazioni presenti costruendo postazioni di mitragliatrici e di cannoni anticarro, approntando reticolati di filo spinato, ma soprattutto scavando profonde buche per il combattimento individuale. Il caposaldo poteva così difendersi a 360° per tutta la lunghezza del suo perimetro. I giovani volontari entrarono nelle loro buche la sera del 1º dicembre, sotto una pioggia torrenziale.

Alle ore 12.00 del 3 dicembre, sotto una pioggia battente, l'artiglieria alleata diede il via all'offensiva con un nutrito bombardamento sulle posizioni italiane, che subirono le prime perdite, tra cui il maggiore Balisti ,rimasto ferito. Nella notte, tutte le unità italiane al di fuori del perimetro difensivo di Bir el Gobi, con relative strumentazioni ed automezzi, furono catturate dagli attaccanti.

La mattina del 4 furono i Camerons scozzesi ad aprire le ostilità contro le buche presidiate dal I Battaglione. Centinaia di uomini si riversarono contro le postazioni nemiche sorretti da mezzi corazzati e dal fuoco di sbarramento dell'artiglieria. La reazione degli italiani fu efficace, tanto che a decine gli inglesi rimasero uccisi. Anche le postazioni del II Battaglione, più a Nord, furono sottoposte ad un duro attacco: i carri Valentine sorressero l'azione dei fanti indiani. Anche in questo settore le forze britanniche erano superiori in numero e in mezzi.

La prima e la seconda ondata furono respinte in entrambi i settori, ma l'intera zona di Bir el Gobi fu accerchiata dalle truppe inglesi. Il terzo attacco alle linee italiane si registrò verso le 14 di quello stesso giorno: la pressione delle artiglierie e delle fanterie crebbe di ora in ora ma la combattività e la resistenza dei vari presidi italiani non venne meno. Nella serata però si perse la quota 188, la 4.a Compagnia che la presiedeva dovette attestarsi su quota 184.

Gli attacchi continuarono; tra il 4 e 7 dicembre per ben sette volte il XXX Corpo britannico fu respinto con gravi perdite. La sete e la mancanza di rifornimenti indebolirono i reparti italiani che continuarono però la loro accanita resistenza contro il nemico. Vennero richiesti aiuti al comando superiore italo-tedesco, e lo stesso generale Rommel fu informato della coraggiosa resistenza dei reparti italiani che continuavano a tenere il caposaldo. Ormai conscio dell'importanza strategica di questa postazione, la Volpe del Deserto decise di inviare delle truppe corazzate a sostegno degli italiani.

Alle 17 del giorno 5 giunsero in prossimità di quota 188 i primi reparti delle divisioni corazzate tedesche. Dopo un violento scontro tra i carri tedeschi e quelli inglesi, la postazione fu riconquistata è poté iniziare l'avanzata verso Bir el Gobi dove erano attese le divisioni Ariete e
Trieste. La prima fu bloccata da un attacco nemico, mentre la seconda si perse nel deserto. L'arrivo di rinforzi e di qualche rifornimento fu molto importante. Gli Italiani poterono così attaccare gli Inglesi che dovettero abbandonare velocemente il campo di battaglia. Ormai la situazione poté dirsi sotto controllo.

Intanto continuarono i combattimenti tra le varie forze corazzate dei due schieramenti: i panzer tedeschi del generale Crüwell e gli M14 dell'Ariete, che nella notte riuscirono a raggiungere Bir el
Gobi, riuscirono a respingere gli ultimi attacchi delle forze britanniche che non poterono più contare sulla schiacciante superiorità. Il 7 dicembre il presidio italiano di Bir el Gobi venne infine liberato. La battaglia di Bir el Gobi poté dirsi finalmente conclusa. Le perdite da parte inglese furono ingenti, con 300 morti. Gli italiani ne ebbero 60, più 31 dispersi e 117 feriti.

I Giovani Fascisti non erano soli. A parte un certo numero di bersaglieri, in loro supporto combatté una compagnia carri del I battaglione (del 32º reggimento corazzato della divisione Ariete); un minimo di componente corazzata era vitale per reggere l'urto nemico, ma dell'impiego di questa unità poco si conosce, nonostante che la sua intensa attività ne comportasse la quasi totale distruzione, con la perdita complessiva di ben 10 carri armati L3/35, dei 12 complessivamente disponibili (parte dei quali immobilizzata da avarie meccaniche, ma usata come fortino). I carri L erano chiaramente impotenti
contro i blindati britannici, ma usati come sbarramento contro le fanterie nemiche erano ancora validi, per via delle loro due mitragliatrici da 8 mm e di una corazzatura se non altro sufficiente per reggere il tiro delle armi leggere del nemico.

Sempre durante la battaglia vennero usati anche due carri medi M13/40, anche se uno era fuori uso e interrato per funzionare come fortino. Esiste ancora in vita l'ultimo reduce tra il reparto della divisione Giovani fascisti impegnato nella battaglia di Bir el Gobi; ferito durante gli scontri, per il suo valore fu dapprima encomiato con la croce di ferro al valore militare, poi, al ritorno in patria fu annesso al plotone "M" guardia personale del Duce, il cui nome è Gianni Maggio.





Il combattimento di Bir el Gobi ebbe luogo il 19 novembre 1941, nell'ambito delle battaglie dell'Operazione Crusader  fra la divisione Ariete e la 22nd Armoured Bigade della 7th Armoured Division britannica. Dopo un aspro combattimento l′Ariete impedì alla divisione britannica di proseguire l'azione pianificata.

Il 15 novembre 1941 il generale Claude Auchinleck, comandante dell′VIII Armata britannica,
diede il via all'Operazione Crusader, che aveva lo scopo di costringere l'armata italo-tedesca a togliere l'assedio a Tobruk e, possibilmente, di respingerla fuori dalla Cirenaica. L′VIII Armata era articolata sul XIII Corps (essenzialmente con divisioni di fanteria) e sul XXX Corps, che comprendeva anche la 7th Armoured Division (Desert Rats), la divisione corazzata veterana della guerra del deserto, originata dalla Western Desert Force che, poco meno di un anno prima, aveva pesantemente sconfitto la 10ª Armata italiana nell'Operazione Compass. Il piano britannico era di aggirare da sud le posizioni italo-tedesche con la 7th Armoured Division per poi prendere al rovescio le forze che assediavano Tobruk.

Negli stessi giorni Rommel progettava un nuovo attacco su Tobruk, quindi aveva radunato le forze corazzate tedesche (raggruppate nel Deutsches Afrika Korps o DAK) a nord ovest, fra Tobruk ed il confine egiziano in prossimità della costa. L′Ariete in questo piano aveva il compito di fronteggiare il XIII Corps (quindi con fronte ad est) coprendo il nodo stradale di Bir el Gobi, da cui partivano le carovaniere verso Bir Hakeim (nord-ovest), Giarabub (sud), Sidi Omar (sud-est) e El Adem e successivamente Tobruk (nord).




Forze contrapposte

132ª Divisione corazzata "Ariete" (generale Mario Balotta)

Comando e servizi

132º Reggimento fanteria carrista

VII Battaglione carri M

VIII Battaglione carri M

IX Battaglione carri M

32º Reggimento fanteria carrista

I Battaglione carri L

II Battaglione carri L

III Battaglione Carri L

8º Reggimento bersaglieri

V Battaglione bersaglieri autoportato

XII Battaglione bersaglieri autoportato

III Battaglione armi d'accompagnamento

132º Reggimento artiglieria

I Gruppo da 75/27

II Gruppo da 75/27

1ª Batteria (3 pezzi) MILMART su autocannoni da 102/35[1]

una sezione (2 pezzi)/6ª Batteria MILMART su autocannoni da 102/35

In totale erano disponibili circa 130 M13/40, dato che il 32º Reggimento Fanteria Carrista non era operativo ed era lontano dall'area dell'azione.

22nd Armoured Brigade

(generale Jock Scott-Cockburn)

2nd Royal Gloucestershire Hussars (RGH) Regiment

3rd County of London Yeomanry (CLY) Regiment

4th County of London Yeomanry Regiment

Una compagnia del 1st King Royal Rifles Corp (KRRC) Batillon

Una batteria del 4th Royal Horse Artillery (RHA) Regiment su 8 pezzi da 25 lb (88 mm)

Una sezione controcarri su pezzi da 2 libbre

Una batteria contraerei leggera su pezzi Bofors 40/56

11th Hussars Regiment

In totale i britannici avevano 150 carri Cruiser Mk VI Crusader ed un numero imprecisato di autoblindo.

Il 15 novembre l′Ariete, che fronteggiava il XXX Corps (quindi aveva il fronte verso est) fu fatta ruotare con perno su Bir el Gobi (al centro dello schieramento) in direzione sud, dato che erano stati rilevati concentramenti di truppe britanniche (la 7th Armoured Division) nella zond ella Ridotta Maddalena. A questo punto la difesa fu riorganizzata su una linea di capisaldi tenuti dai bersaglieri, appoggiati direttamente da cannoni 47/32 e mortai da 81 mm, con l'appoggio indiretto dell'artiglieria divisionale da 75/27, la costruzione delle opere di fortificazione dei capisaldi iniziò immediatamente e proseguì fino al mezzogiorno del 18.

La 7th Armoured Division era su tre brigate corazzate: 7th, 4th e 22nd Armoured Brigade (quest'ultima distaccata dalla 1st Armoured Division), di queste la 4th mosse direttamente a nord dalle basi di partenza, in appoggio diretto all'avanzata del XXX Corps, la 7th puntò si Sidi Rezegh (dove si trovavano le basi aeree dell'Asse) e la 22nd (immediatamente a sinistra della 7th) mosse direttamente verso Bir el Gobi per respingere l′Ariete e prendere al rovescio la 21ª Panzer. La 22nd era preceduta dalle autoblindo dell'11th Hussars Regiment, che era un'unità esplorante divisionale.

Alle 14 del 18 novembre le autoblindo britanniche (Squadron B dell'11th Hussars) furono avvistate a circa 10 km a sud est di Bir el Gobi da un plotone di M 13/40 che, serrate le distanze, aprì il fuoco sui britannici, queste furono le prime cannonate del combattimento. Le autoblindo, grazie alla loro maggiore velocità, ruppero agevolmente il contatto con gli italiani. Il tentativo britannico di far affluire una sezione del RHA per permettere alle autoblindo di proseguire la ricognizione fu impedito dal sopraggiungere dell'oscurità.

Intanto una formazione aerea nemica bombardava il grosso dell′Ariete, provocando alcuni feriti e la distruzione di un trattore del 132º Reggimento Artiglieria.

In seguito alla comparsa del nemico il generale Balotta ordinava alla divisione di assumere uno schieramento difensivo. La linea del fronte tenuto dai bersaglieri fu accorciata, mentre i 5 pezzi della Milimart furono schierati subito a nord di Bir el Gobi ed il 132º Reggimento Fanteria Carrista fu schierato a 6 km a nord ovest di Bir el Gobi, in posizione per un eventuale contrattacco ed in copertura della carovaniera per el Adem. La linea difensiva dei bersaglieri era tenuta (da destra a sinistra) dal 12°, dal 5º e dal 3º Battaglione.

La mattina del 19 novembre la 22nd Armoured Brigade si mosse verso Bir el Gobi, sempre schermata dalle autoblindo dell'11th Hussars che, contrastate dalla 3ª Compagnia del 7º
Battaglione Carri M, appoggiata da una sezione da 75/27, furono costrette a ritirarsi. Tuttavia la posizione dei carri italiani era scoperta sul fianco destro, quindi, bloccata sul fronte dal tiro dei 25 lb della RHA, la compagnia fu aggirata ed attaccata alle spalle dai Crusader dello Squadron H/2nd RGH. In questo scontro, dopo la perdita di tre M 13/40 i carri italiani ripiegarono sulle proprie linee insieme alla sezione di artiglieria, con la perdita di ben tre ufficiali.

A questo punto le autoblindo dell'11th Hussars ripresero la testa della brigata e, verso le 12, avvistarono la linea di resistenza dei bersaglieri circa 4,5 km a sud est di Bir el Gobi. Quasi contemporaneamente, alle 10.30 la 22nd Armoured Brigade, coperta dal fuoco della RHA, avanzava con il 2nd RGH a destra ed il 4th CLY a sinistra, mentre il 3rd CLY restava in riserva.
La prima unità italiana impegnata dai carri fu il III Battaglione armi d'accompagnamento, che, non ancora completamente schierato, fu travolto dai carri dello Squadron H/2nd RGH, un plotone del IX Battaglione carri M, inviato a supportare i bersaglieri, fu distrutto dall'azione combinata degli Squadron G ed H del 2nd RGH, con la morte anche del comandante del plotone. Invece lo Squadron F del 2nd RGH si trovò di fronte il V Battaglione bersaglieri che, ben attestato a difesa e coperto dal tiro delle artiglierie e dei cannoni della Milimart (Milizia Marittima di Artiglieria) , ne bloccò l'avanzata.

Tuttavia i carri inglesi si raggrupparono nuovamente e gli Squadron F e G del 2nd RGH riuscirono a sfondare le linee del III Battaglione armi d'accompagnamento, aprendosi la strada verso nord.

Il 4th CLY si diresse sulle posizioni (non ancora fortificate) del XII Battaglione bersaglieri, lo Squadron A, che guidava l'attacco, fu fermato dal fuoco delle artiglierie italiane, mentre lo Squadron B tentava di superare l'ala destra italiana, per avvolgere il battaglione bersaglieri.
Diversi carri britannici riuscirono ad infiltrarsi fra i capisaldi, tanto da tagliare fuori il comando di reggimento, che riuscì solo a fatica a ricongiungersi con il XII Battaglione.

In questa situazione critica, alle 13.30 scattò il contrattacco del 132º Reggimento Fanteria Carrista, la 1ª Compagnia/VII Battaglione, seguita a breve distanza dalla 2ª Compagnia, e dall'intero VIII Battaglione fu lanciata verso sud per attaccare il 2nd RGH. Questi 60 carri impegnarono a fondo ed aggirarono i due reggimenti britannici, che furono costretti ad arrestarsi. Un tentativo del 4th CLY di inviare lo Squadron C per tentare un aggiramento delle posizioni dei bersaglieri fu arrestato dal fuoco dei pezzi controccarri e degli autocannoni della Milimart, con gravi perdite britanniche.

L'intervento del 3rd CLY, che era stato spostato a coprire il fianco destro del 2nd RGH, sorprese il plotone che aveva aggirato questa unità da destra e riuscì facilmente ad avere ragione dei carri italiani. Lasciato lo Squadron B in posizione difensiva (scafo sotto) per tenere i contatti con l'altro reggimento, il comando del reggimento avanzò, incappando nelle difese controcarri dei bersaglieri, che ben presto misero fuori combattimento quattro carri, compreso quello del comandante del reggimento.

Alle 16.30, il 2nd RGH fu costretto a ripiegare, sotto la pressione dei carri italiani, sempre tenuto sotto il fuoco dai pezzi anticarro e dagli autocannoni. A questo punto si ritirò anche il 4th CLY. Il 3rd CLY (che era stato il meno provato nei precedenti combattimenti) alle 16.50 ricevette l'ordine di raggrupparsi per tentare un nuovo attacco, ma un'ora dopo arrivò un contrordine, motivato dalle perdite già subite. A quel punto l'attacco della 22nd Armoured Brigade era finito in un completo fallimento.

Le perdite fra i britannici erano state pesanti:

2nd RGH - 30 carri, 11 morti, 19 feriti e 20 dispersi

3rd CLY - 4 carri, 6 morti ed un numero imprecisato di feriti

4th CLY - 8 carri, 4 morti e 22 dispersi

In totale la 22nd Armoured Brigade aveva perso 42 carri, 21 morti e una settantina fra feriti e dispersi (i dispersi erano stati tutti fatti prigionieri)

D'altra parte anche le perdite italiane non erano state lievi:

132º Reggimento Fanteria Carrista - 34 carri, 5 ufficiali morti, 5 ufficiali feriti ed un ufficiale disperso, 11 carristi morti, 45 carristi feriti e 65 carristi dispersi

8º Reggimento Bersaglieri - 9 morti, 18 feriti e 17 dispersi

132º Reggimento Artiglieria - Un pezzo e tre automezzi distrutti, 6 feriti

In totale l′Ariete aveva perso 34 carri, un cannone, tre automezzi, 25 morti, 177 fra dispersi e feriti

La battuta d'arresto della 22nd Armoured Brigade costrinse la 7th Armoured Brigade a fermare l'avanzata verso Sidi Rezegh, dato che sarebbe stato estremamente rischioso lasciare il fianco scoperto agli italiani che, nonostante le perdite, avevano ancora un centinaio di carri e le artiglierie pressoché intatte. L'attacco del DAK alla 4th Armoured Brigade costrinse quest'ultima a cedere il passo, e nella prosecuzione dell'azione anche la 7th Armoured Brigade fu costretta a ritirarsi. In questo modo andò completamente a vuoto il piano britannico per l'Operazione Crusader, e solo la successiva battaglia di attrito permise all′VIII Armata di respingere l'armata italo-tedesca in Tripolitania, nei primi giorni di dicembre.

Il combattimento fu portato avanti dai carristi inglesi secondo i canoni di impiego dei carri britannici, cioè utilizzando i carri incrociatori come arma autonoma, senza l'appoggio della fanteria, e con l'artiglieria utilizzata solo da lunga distanza (non si ha notizia dell'impiego nel combattimento né dei 2 libbre né dei 40 mm Bofors). Invece l′Ariete operò coordinando la fanteria con i carri armati, evidentemente ispirata dalle teorie di impiego tedesche, dato che nei mesi precedenti si era addestrata insieme alle unità Panzer del DAK. Questo utilizzo di unità corazzate con impiego pluriarma si era già dimostrato in precedenza nettamente superiore all'impiego tattico dei soli carri armati nell'attacco al fronte nemico.

È abbastanza interessante notare che le perdite italiane, furono nettamente superiori a quelle britanniche, principalmente perché a subire i danni maggiori fu la fanteria (i bersaglieri) nei confronti dei reparti di carri. È importante notare anche l'elevata percentuale di ufficiali persa fra i carristi nel corso del combattimento (5 morti e 5 feriti su una sessantina di ufficiali in organico).



Leggendarie sono le figure del Caporal Maggiore Niccolini Ippolito e David Stefano, entrambi decorati con Medaglia d'Oro al Valore. Il primo caduto a Bir El Gobi, il secondo in Tunisia. Le motivazioni sono rispettivamente:

"Dottore in legge, fervente di amor patrio si arruolava come soldato semplice ansioso di tradurre in azione i suoi ideali di Patria. Caporal Maggiore comandante di squadra cannoni anticarro, in un caposaldo completamente accerchiato da soverchianti forze nemiche immobilizzava, con il suo pezzo, due carri armati pesanti rimanendo ferito al capo. In successiva azione usciva dalla postazione e cercava di colpire l'equipaggio di un carro attraverso le feritoie con colpi di pistola e bombe a mano. Benché nuovamente ferito, con una bomba anticarro affrontava un altro carro, che colpito doveva allontanarsi. Ferito al petto, pur versando in gravi condizioni, riusciva a rientrare nella postazione e calmo e sereno incitava i propri uomini a perseverare nella cruenta lotta. Mentre un altro carro stava per schiacciare la postazione, lo contrassaltava con sublime ardore. Sublime esempio di cosciente valore ed eroico sacrificio."
Bir el Gobi (Libia), 3-4-5 Dicembre 1941.



"Dopo trenta mesi di dura lotta, durante un aspro attacco nemico soverchiato da preponderanti forze, rifiutava più volte di arrendersi, finché unico superstite di un posto avanzato, stordito e gravemente ferito veniva raccolto dal nemico che pensava di servirsene come schermo per penetrare di sorpresa in un nostro caposaldo. Nella notte lunare veniva condotto presso le nostre postazioni con l'arma puntata alla schiena. Accortosi che i commilitoni gli andavano incontro giubilanti per aiutarlo, non esitava a gridare ad alta voce: "Seconda Compagnia fuoco! Sono nemici". Pagava così consapevolmente con la vita la sua sublime incomparabile dedizione alla Patria.
Quota 141 di Diez Srafi (Tunisia), 25 Aprile 1943."-


IL MEDAGLIERE