lunedì 30 giugno 2014

IL POTERE SEGRETO - avv. Edoardo Longo -

Il blog politicamente scorretto coordinato dall' avvocato Edoardo Longo

LUIGI CABRINI : UNA PREZIOSA TESTIMONIANZA STORICA

IL POTERE SEGRETO: LINEAMENTI DI UN’INQUIETANTE E SEMPRE PIÙ  ATTUALE REALTÀ DI “DOMINIO OCCULTO” SU GENTI, RISORSE E NAZIONI
Breve saggio di antropologia culturale, storica, socio-economica, politica e religiosa scritto in occasione della ristampa di un documento di grande valore storico, occultato dal regime democratico nazionale nell’arco degli ultimi sei decenni.
                                                                                            
       Breve Premessa
      Il Potere Segreto, testo riproposto ai lettori nel dicembre 2012 grazie all’interessamento, alle ricerche, al lavoro e alla dedizione dell’avvocato Edoardo Longo titolare delle Edizioni della Lanterna che ne hanno effettuato la ristampa, è un libro di storia che riappare dopo 62 anni dalla sua prima edizione del 1952: edizione praticamente introvabile e mai diffusa in quanto messa subito sotto sequestro dalla “censura democratica” in ragione delle testimonianze storiche che riportava; testimonianze alquanto scomode e “improponibili” per gli orientamenti generali di quel periodo post-fascista e post-guerra, caratterizzati da un antifascismo che giustificava e autorizzava qualsiasi tipo di intervento manipolativo sul pensiero, l’analisi storica e sulla cultura più in generale.
     Il Potere Segreto costituisce una testimonianza storica rarissima, scritta da una persona informatissima. Si tratta di Luigi Cabrini, segretario personale di Giovanni Preziosi che fu ministro di Stato nel periodo fascista e ambasciatore speciale del Duce nella Repubblica di Salò. Il Preziosi è   unanimemente ritenuto il più informato studioso italiano della “questione ebraica” e della presenza massonica nei gangli del potere politico internazionale. Il libro di Luigi Cabrini raccoglie i ricordi e le confidenze di Giovanni Preziosi sulle cause occulte che generarono il secondo conflitto mondiale e, in particolare, sulle trame di agenti e infiltrati della massoneria e del giudaismo plutocratico nei gangli del potere politico al fine di destabilizzare l’Italia fascista, unico regime politico che aveva osato mettere fuori legge la massoneria.
      Come detto, questo libro comparve fugacemente nel 1952. Fu, però, posto subito sotto sequestro e il suo autore, che era cattolico, venne internato in manicomio e condannato alla damnatio memoriae a causa delle scomode rivelazioni riportate nel suo scritto. In esso si svelano infatti trame e legami ancora oggi poco conosciuti (come le numerose infiltrazioni massoniche nelle gerarchie fasciste e post-fasciste) che hanno dato un preciso orientamento al decorso storico non solo dell’Italia ma dell’intero Occidente. Proprio per questo i suoi contenuti, se adeguatamente estrapolati dall’ambito ideologico-sentimentale dell’autore, sono di strettissima attualità visto l’inquietante quadro complessivo che la congiuntura mondiale attuale sta presentando.
       Come dice l’Editore, questo libro rappresenta un evento editoriale. Dopo la “censura democratica” di oltre sessant’anni rivede, infatti, finalmente la luce e, per chi abbia occhi per vedere oltre la cortina fumogena delle sistematiche contraffazioni e mistificazioni della realtà, contribuisce a fornire elementi particolarmente utili e pregnanti al fine di poter decifrare il disegno e la “lunga mano” che reggono il percorso che l’attuale umanità sta, più o meno consapevolmente, seguendo.
a)      Alcune precisazioni su “Sette”, “Massoneria” e “Società segrete”.
Le organizzazioni massoniche, sorte nel XVII secolo, manifestarono subito la loro natura di  “Centri Occulti di Potere” che, sotto sembianze rituali e simboliche miravano a interessi materiali e di dominio sulle persone e sulle nazioni. Situazione, questa, perfettamente descritta, con dovizia di interessanti particolari storici, nel libro del Cabrini, situazione per cui si viene poi a determinare la ricorrente assimilazione tra il termine “Massoneria” e quello di “Centri di Potere Segreto”, materialisti e immorali, miranti esclusivamente a contaminare e sovvertire con ogni mezzo tutti i valori tradizionali dell’Occidente al fine di ridurlo all’impotenza e prenderne il controllo totale.   
Per quanto concerne infine il proliferare nell’Occidente moderno di sette “pseudo-spirituali” di matrice orientale si tratta di quel carattere confusivo proprio dell’Occidente moderno e contemporaneo in cui viene sistematicamente contraffatto e impropriamente divulgato (spesso con una precisa e pianificata volontà di intenti da parte di “Centri Occulti” propriamente preposti a tale funzione corruttiva e distorsiva) lo spirito “Tradizionale” e “Metafisico” delle dottrine orientali.
Il principale esempio di questo tipo di pratica è rappresentato dalla cosiddetta “Società Teosofica” (che tanta fortuna ha avuto e continua ad avere in tutto il continente americano) fondata ad inizio novecento dalla sensitiva russa Hélena Blavatsky e che si è poi articolato in una complessa rete di ramificazioni, alcune delle quali individuate anche nel resoconto dello stesso Cabrini.
      
b)      La Grande Depressione di Karl Polanyi (1886-1964).
Per dare un riscontro a più ampio respiro ai contenuti presentati nell’opera del Cabrini, riteniamo particolarmente indicato fare un riferimento comparativo con un testo di antropologia economica di un autorevole autore in materia, scritto una decina di anni prima (tra il 1940 e il 1943) del libro di Luigi Cabrini. Stiamo parlando de La Grande Trasformazione ad opera dell’autore ungherese Karl Polanyi (1886-1964). Si tratta di un testo importante perché anticipa i temi della ricerca propriamente antropologica, in ambito socio-economico, da parte di un autore il cui nome solo in tempi relativamente recenti si è cominciato a conoscere in Italia (mentre era già molto conosciuto in altri paesi, soprattutto in Francia, Inghilterra e Stati Uniti). Karl Polanyi, infatti, con i suoi studi sulle società arcaiche e primitive (e con una vasta produzione di scritti socio-economici che hanno ricevuto ampio riconoscimento da parte di tutti gli studiosi del settore), è figura di primo piano nell’antropologia economica e nell’economia comparata, con un’influenza che si estende anche a storici e a sociologi.
Il testo in questione costituisce un’acuta analisi sulla crisi delle istituzioni liberali e la “grande trasformazione” da esse subita negli anni 30 del secolo scorso; un’analisi che ne ricerca le origini (proprio con significativa coincidenza geografica con certi precisi riferimenti storici riportati nel testo del Cabrini) nell’Inghilterra, in questo caso ricardiana, in quelle che sono le caratteristiche proprie della “Società di Mercato” posta in rapporto alle società primitive. Tutto ciò confluisce in una critica del liberalismo tra le più severe e radicali che, sorprendentemente, non manca di avere impressionanti punti di contatto con quanto riportato, con modalità espositive certamente meno tecniche, dal Cabrini nel suo testo Il Potere Segreto. Siamo negli anni della seconda guerra mondiale e il testo di Polaniy rappresenta qualcosa di più di una semplice testimonianza del malessere degli intellettuali quale si manifestava in quel preciso momento storico. È infatti un testo che va nella costruzione, tante volte auspicata da più parti, di una “Scienza unificata delle società umane”. Non opera di storia, di economia, di sociologia, anche se investe gli ambiti specifici di tutte e tre le discipline. L’elemento centrale della Grande Trasformazione è il capovolgimento dell’idea liberale che la “Società di Mercato” costituisca un punto d’arrivo “naturale” nel percorso della Società Umana. Per Polanyi l’idea propugnata dall’economia politica classica di un sistema in cui l’economia è venuta a sottrarsi al controllo sociale, rappresenta un’artificiosità che diviene particolarmente evidente nei momenti di transizione e all’inizio e alla fine del ciclo che lui ritiene concluso dell’esistenza storica di tale tipo di società. L’analisi di Polanyi passa per una “anamnesi” e una “diagnosi” della “Società di Mercato” e dell’individuazione dei punti cruciali di tensione che ne determinano il crollo o la “trasformazione”. Nel fare ciò mette a fuoco, in maniera tecnica, quei passaggi storici maggiormente pregnanti, il più importante dei quali, come detto, coincide perfettamente e sorprendentemente con quanto riportato, con differente stile narrativo, nell’opera di Luigi Cabrini.       
c)      “Potere Segreto” e “Alta Finanza”, una singolare convergenza.
  L’analisi socio-economica proposta da Polanyi nel suo testo La grande depressione è molto articolata, ma qui ci occuperemo di passare sinteticamente in rassegna quello specifico settore che si attaglia mirabilmente alle testimonianze storiche e alle considerazioni riportate nello scritto di Luigi Cabrini. Seguendo la lucida e acuta analisi di Polanyi, la civiltà del diciannovesimo secolo poggiava su quattro pilastri istituzionali: 1) Il “Sistema dell’Equilibrio del Potere” fra gruppi e singole potenze che per un secolo impedì, appunto, che tra le Grandi Potenze scoppiassero guerre lunghe e devastanti; 2) La “Base Aurea Internazionale” che era il simbolo di un’organizzazione unica dell’economia mondiale; 3) L’utopia del “Mercato Autoregolato” che, al momento, stava producendo un benessere senza precedenti; 4) Lo “Stato Liberale. Si tratta di due istituzioni di tipo economico e due di tipo politico che nel loro insieme determinano i tratti caratteristici della storia della Civiltà Occidentale Moderna. Come osserva il nostro autore, la “Base Aurea” dimostrò di costituire l’asse portante e decisivo del sistema e la sua caduta fu la principale causa della catastrofe in quanto provocò anche la repentina caduta delle altre istituzioni che erano state sacrificate nel vano tentativo di salvarla. Il nucleo centrale di tale sistema era invece rappresentato dal “Mercato Autoregolantesi” che rappresentava l’aberrante innovazione e ciò che diede origine ad una civiltà specifica che trovò la sua “Sede Originaria” nell’Inghilterra del XIX secolo.
Sempre seguendo l’analisi di Polanyi, il diciannovesimo secolo ha prodotto un fenomeno inedito negli annali della Civiltà Occidentale, ovvero una “pace” di cento anni nel periodo che va dal 1815 al 1914. Infatti, come afferma il nostro autore, a parte la guerra di Crimea (un avvenimento più o meno coloniale), Inghilterra, Francia, Prussia, Austria, Italia e Russia furono impegnate a farsi guerra solo per un periodo, si fa per dire, di meri diciotto mesi, mentre un raffronto con i secoli precedenti dà una media che va dai sessanta ai settanta anni di guerre importanti per ciascun secolo.
Questo improvviso e acuto interesse per la “pace”, che sorge a partire dal 1815, era anzitutto promosso da quei soggetti che più ne beneficiavano, cioè quel cartello di sovrani e di feudatari le cui situazioni patrimoniali erano minacciate dall’onda rivoluzionaria di patriottismo risorgimentale che spazzava il continente. Fu così che per circa un terzo di secolo la Santa Alleanza rappresentò l’elemento coercitivo per l’attuazione di una politica di “pace”. Dal 1846 fino al 1871 (periodo considerato uno dei più confusi e convulsi quarti di secolo della storia europea) il mantenimento della “pace” fu un po’ meno saldo in quanto la forza calante della reazione si scontrava con la forza crescente del “Processo di Industrializzazione”. Nell’ultimo quarto di secolo, quello successivo alla guerra franco-prussiana, il risorto interesse per la “pace” è rappresentato da quella nuova e poderosa entità che era il “Concerto Europeo”. Tale rinnovato interesse per la “pace”, però, aveva bisogno di uno strumento sociale adeguato per poter dare i suoi frutti e sia la “Santa Alleanza” che il “Concerto Europeo” avevano dei limiti oggettivi ben precisi. Entrambi rappresentavano infatti soltanto raggruppamenti di stati indipendenti e sovrani, pertanto sottoposti all’ “equilibrio del potere” ed al suo meccanismo intrinseco: ovvero, “la Guerra”. Ecco quindi irrompere sulla scena un fattore sorprendente in grado di costituire quello “strumento sociale adeguato”, capace di operare in “modo coperto” sul sistema, sostituendo il ruolo fino a quel momento svolto da dinastie e episcopati, rendendo così effettivo l’interesse per la “pace”. Questo fattore “anonimo” e “sovranazionale” era costituito dall’ Alta Finanza (la haute finance).
Una ricerca completa e rigorosa sulla natura della “Banca Internazionale” nel diciannovesimo secolo forse non è stata ancora adeguatamente intrapresa, e questa misteriosa istituzione rimane tuttora in buona parte avvolta in quelli che Polanyi definisce i chiaroscuri della mitologia politico-economica. La haute finance (l’Alta Finanza) era un’istituzione anonima e “nascosta”,  caratterizzante il contesto socio-economico e politico dell’ultimo trentennio del diciannovesimo secolo e del primo trentennio del secolo successivo, che funzionava come principale fattore di raccordo e collegamento tra l’organizzazione politica e economica del mondo di quel periodo in quanto era in grado di fornire gli strumenti adeguati ad un sistema di pace internazionale che operava sì con l’aiuto delle potenze, ma che tali potenze non potevano né creare, né mantenere. A differenza del “Concerto Europeo”, che agiva soltanto ad intermittenza, la haute finance funzionava come una struttura organizzativa permanente dal carattere più elastico. Era allo stesso tempo in contatto con i singoli governi (anche con i più potenti) ma del tutto indipendente da essi. Era anche indipendente dalle “Banche Centrali” (anche dalla banca d’Inghilterra), ma allo stesso tempo era strettamente legata alle stesse. Altro elemento di non secondaria importanza era quello rappresentato da uno stretto contatto tra “finanza” e “diplomazia”, tanto che non era sempre facile stabilire dove finissero i confini dell’una e iniziassero quelli dell’altra, quasi che i ruoli fossero intercambiabili.
Come osserva sempre molto puntualmente Polanyi, sia il personale che le motivazioni di questa singolare struttura organizzativa affondavano le loro radici nell’ambito della sfera privata dell’interesse strettamente finanziario. La “metafisica extraterritorialità” dei Rothschild, dinastia di banchieri ebrei insediata nelle diverse capitali europee, offriva una soluzione pressoché perfetta per le necessità di specie, osserva sempre il nostro autore. Tale dinastia, infatti, non era sottoposta ad alcun particolare governo e come famiglia incarnava molto bene l’ideale astratto dell’ “Internazionalismo”. La lealtà dei suoi componenti era esclusivamente rivolta verso una “ditta” che godeva di un credito che le permetteva di costituire un punto di riferimento ed un vero e proprio collante sovranazionale tra governo politico e impresa industriale, e la sua indipendenza sorgeva dalle necessità del tempo che richiedevano la presenza di un’ “entità sovrana” che godesse della fiducia sia degli statisti nazionali che degli investitori internazionali. Detta dinastia era tutt’altro che “pacifista” (la haute finance, infatti, non era affatto intesa come una “struttura di pace”: questa funzione le toccò del tutto accidentalmente): i suoi componenti avevano fatto la loro fortuna finanziando guerre e qualsiasi altro tipo di attività immorali di grande portata sotto il profilo del profitto. Erano persone sorde a qualsiasi considerazione morale e non avanzavano alcuna obiezione in riferimento ad eventuali “guerre secondarie”, brevi o localizzate. In quel preciso momento storico i loro interessi sarebbero stati ostacolati solo se una Guerra Generale tra le Grandi Potenze avesse interferito con i fondamenti monetari del sistema. Polanyi non ha alcuna esitazione nell’affermare che da un punto di vista organizzativo la heute finance (l’Alta Finanza) veniva a costituire il nucleo portante di una delle più complesse istituzioni di controllo socio-economico e politico che la storia dell’uomo abbia concepito e prodotto nell’arco della sua vicenda. La motivazione di fondo della heute finance era il “guadagno” e per raggiungerlo era necessario essere d’accordo con i governi che avevano fini di potenza e di conquista. Tuttavia, si ribadisce, il maggior pericolo che minacciava i capitalisti europei era la guerra: non una guerra da parte di una “Grande Potenza” ad una “Piccola Potenza”, ma una Guerra Generale tra le “Grandi Potenze”.
Alla fine del diciannovesimo secolo la haute finance era al massimo del suo potere e la pace sembrava sicura più che mai, ma l’equilibrio era invece ormai giunto alla sua fine. Il fatto che fossero rimasti solo due gruppi concorrenti di potenze (la “Triplice Alleanza” e la “Controalleanza” che includeva la Russia) faceva sì che il meccanismo dell’ “Equilibrio del Potere” cessasse di funzionare, non essendovi più un terzo gruppo che poteva unirsi con uno o con l’altro dei contendenti per contrastare chiunque cercasse di aumentare il proprio potere. Allo stesso tempo cominciavano a manifestarsi i primi sintomi di dissoluzione delle forme esistenti dell’economia mondiale, la rivalità coloniale divenne sempre più accesa e la capacità della heute finance di impedire l’allargamento dei conflitti cominciava rapidamente a decrescere. Tutto ciò annunciava l’ormai prossimo e inevitabile disastro e la trasformazione di un’intera civiltà negli anni trenta del ventesimo secolo. Qui si arresta la penetrante e articolata analisi di Karl Polanyi circa il Potere esercitato fino a quel momento sulle Nazioni da quel “Singolare Organismo” dell’Alta Finanza.
 Concludiamo questo paragrafo sottolineando di sfuggita il fatto che l’autore in questione è stato uno dei più brillanti intellettuali ungheresi. Proveniva, quindi, da quel fecondo habitat intellettuale della cultura centroeuropea ed ebbe occasione di confrontarsi e interagire proficuamente con quasi tutti i maggiori pensatori europei a lui contemporanei. Era di idee socialiste e nel 1908 collaborò pure con esponenti della “Massoneria Culturale” ungherese alla fondazione del Circolo Culturale “Galileo Galilei” a Budapest (nella cui sede intervennero alcune tra le più eminenti personalità culturali europee di quell’epoca) di cui fu anche Presidente. Non può certo, pertanto, essere considerato un pensatore  vicino a posizioni come quelle del Preziosi e del Cabrini; ma nonostante questo giunge comunque, tramite un’articolata analisi storica e socio-economico di tipo tecnico, a convergere pienamente con certi punti essenziali contenuti nello scritto del Cabrini.      
                
d)      “Potere Segreto”, “Alta Finanza” e “Globalizzazione”.
L’analisi di Polanyi ci conduce fino agli inizi del collasso del sistema economico internazionale e a quelli della Grande Trasformazione del primo trentennio del ventesimo secolo. Ripercorrendo rapidamente l’iter storico successivo, abbiamo due conflitti mondiali di cui il secondo è la conseguenza diretta del primo, la sconfitta della Germania di Hitler (e dell’Italia fascista e del Giappone), la Guerra Fredda, il crollo del Muro di Berlino e dell’Unione Sovietica e il processo di Globalizzazione, tuttora in corso, in cui si inserisce il miraggio di un’Unione Europea costruita solo sulla presenza di una Moneta Comune.
A questo punto è però doveroso chiedersi come possa essersi trasformata un’Organizzazione come la haute finance che Polanyi non ha esitato a definire “il nucleo di una delle più complesse istituzioni che la storia dell’uomo abbia prodotto”. È alquanto difficile pensare che un apparato così potente, ramificato ed elastico (che è quindi in grado di adeguarsi, per fare i propri interessi, ad ogni tipo di congiuntura assumendo sempre e comunque una posizione allo stesso tempo “coperta” e “centrale”) si sia fatto imbrigliare dagli eventi - che, in certa parte, è sempre riuscito a determinare e, come minimo, a controllare - e che l’Alta Finanza dei nostri giorni sia ben altra cosa da quell’apparato immorale, preposto a sfruttare tutto e tutti, così analiticamente descritto da Polanyi. Anzi, di fronte a quanto è successo e sta succedendo dagli esiti di quel primo trentennio del ventesimo secolo c’è da ritenere che la haute finance si sia trasformata in una macchina di potere e di dominio molto più pericolosa e sofisticata di quanto non fosse in quel recente passato.
C’è anche da dire che dopo la fine del secondo conflitto mondiale si è venuta a riproporre una situazione del tutto analoga a quella descritta da Polanyi in riferimento alla cosiddetta “Pace dei Cento anni” (caratterizzata, appunto,  da piccoli e marginali conflitti a bassa intensità) in cui, come abbiamo visto, si è insinuato il potere della haute finance. Abbiamo infatti: 1) Un meccanismo di equilibrio del potere ora determinato dalla deterrenza rappresentata dalla presenza sulla scena mondiale degli arsenali nucleari in possesso delle Grandi e Medie Potenze; 2) Alla base aurea del precedente periodo fa in un certo senso da contraltare il dollaro americano come punto di riferimento per gli scambi internazionali; 3) L’evoluzione della mistificazione del “Mercato autoregolato”; 4) Un progressivo aumento dei cosiddetti governi liberali. Alla luce di tutto questo, non è infatti irragionevole pensare che la haute finance - o meglio, ciò che veramente le corrisponde in questo momento - abbia assunto un ulteriore e forse definitivo salto di qualità di cui il “Processo di Globalizzazione” in atto rappresenta la concreta possibilità di un dominio assoluto, a tutti i livelli, su persone e risorse dell’intero pianeta.    
Dinanzi ai disastri che la scellerata politica economica intrapresa dall’Unione Europea sta provocando in molti paesi (di cui la situazione greca ed ancor più la recentissima incredibile crisi cipriota di questi giorni sono una testimonianza inequivocabile) vi è un crescente numero di esponenti della società civile e del mondo politico che comincia a tirare in ballo la questione della “Congiura Massonica”. Ma la cosa più interessante è che una certa parte dei loro interlocutori (dai più disparati indirizzi di pensiero), che in precedenti occasioni manifestavano un atteggiamento apertamente ironico e pure irrisorio, oggi sono molto meno irridenti e molto più cauti nel manifestare un’aperta negazione di fronte a tale eventualità che fino a poco tempo fa era ritenuta un “infondato delirio ideologico” di alcuni esponenti del pensiero reazionario più bieco e retrivo; e la singolare circostanza che una testimonianza storica come quella offerta dalla riedizione dello scritto di Luigi Cabrini, Il Potere Segreto, sia avvenuta proprio in un momento come questo potrebbe far pensare ad un caso di quella misteriosa “sincronia degli eventi” tanto cara agli studiosi delle dinamiche della psiche umana.
Conclusioni.
A conclusione di questo breve saggio vorremmo rivolgere un invito a tutti gli studiosi e alle persone che si interessano di “Scienze Umane e della Cultura”. Vorremmo invitarli ad abbandonare, almeno per un momento, un certo tipo di osservazione superficiale - cui spesso corrisponde un certo tipo di improduttiva, facile e scontata retorica - per cercare di verificare e di comprendere la ragione di fondo per cui sembra che nell’anima dei popoli europei (nel loro, per così dire, “inconscio collettivo”) sia come presente, e spesso ad uno stato di latenza, un irrazionale sentimento antisemita: quasi vi fosse la percezione inconscia che il popolo ebreo costituisca un tipo di “alterità antropologica” pressoché irriducibile alla natura e ai valori profondi dell’uomo europeo: e, proprio per questo, un’alterità estremamente pericolosa per la coesione umana, sociale e spirituale del contesto di fondo che è precipuo a tale uomo.
Analizzando la storia dell’Europa non si può infatti disconoscere il fatto che tale tipo di sentimento irrazionale, spesso latente, si comporta come un fiume carsico che a volte emerge in superficie con tutta la potenza della sua forza distruttiva, assumendo veste razionale (come è accaduto in un recente passato) in ideologie aberranti e in comportamenti gravemente deviati e  distruttivi per poi rientrare nelle viscere dell’anima in attesa delle condizioni favorevoli per una successiva nuova manifestazione esteriore. Una ricerca seria e obiettiva in questo tipo di direzione, condotta da persone qualificate e “senza interessi di parte”, potrebbe forse fornire delle risposte del tutto sorprendenti e inaspettate al fenomeno del tanto discusso e oggettivamente innegabile antisemitismo europeo.
Alla luce di quanto appena esposto in questo breve saggio, consigliamo un’attenta lettura del testo di Luigi Cabrini, Il Potere Segreto, in quanto siamo certi che, al di là del comprensibile stile narrativo proprio di una fase storica e del tipo di pensiero che la ha maggiormente caratterizzata, non manca comunque di contenere e trasmettere precise testimonianze storiche che, alla luce di quanto sta avvenendo in questo particolare e delicato frangente in cui è direttamente coinvolta l’intera comunità mondiale, permettono di condurre una riflessione di ampia portata suffragata, appunto, da elementi oggettivamente preziosi; riflessione, questa, particolarmente urgente viste le impellenti e gravi contingenze che presenta e ci chiama ad affrontare il momento cruciale attuale.
Rinnoviamo, infine, il nostro vivo e sincero ringraziamento all’editore che si è profuso in un’iniziativa che, visto il contesto nazionale e generale, poche persone avrebbero avuto il coraggio di intraprendere e portare a compimento.  
             
    Rita e Paolo Marchetti    
                                                                                                                             

domenica 29 giugno 2014

FIDANZATE CON LA MORTE - ( FRANCA POLI )

FIDANZATE CON LA MORTE
«A Dio la mia fede,
All’Italia la mia vita,
Al Duce il mio cuore!»
(Luciana Minardi)
Franca Poli

            È di nuovo una donna a ispirare il mio racconto. È il 06 agosto 1936, a Berlino il cuore di una bella ragazza bionda di soli venti anni batte all’impazzata. La finale degli 80 metri ostacoli la sta aspettando e lei è pronta ad affrontarla, mettendoci la grinta e il coraggio di cui sarà capace. Al via corre con tutte le sue le forze e primeggia. Ondina Valla, nata a Bologna nel 1916, è stata la prima donna italiana a vincere un oro olimpico. Al suo rientro fu poi ricevuta con tutti gli onori a Palazzo Venezia da Mussolini in persona e nel 1937 le venne riconosciuta una ulteriore medaglia d’oro al valore sportivo accompagnata da un assegno di cinquemila lire, cifra per allora di tutto rispetto.
            Il Fascismo aveva operato una rivoluzione nel mondo femminile: in quegli anni la donna fu incoraggiata a dedicarsi allo sport, nonostante l’ostracismo della Chiesa e, nel 1929, un anno dopo l’inizio dei lavori per la costruzione del Foro, il governo fascista annunciava la nascita dell’Accademia di Educazione Fisica Femminile a Orvieto. Un provvedimento che rispondeva all’esigenza di formare nuove insegnanti per le scuole medie e per le organizzazioni femminili fasciste. Nell’Accademia di Orvieto e in altri Collegi, retti dal PNF, le ragazze “capaci e meritevoli”, segnalate dagli insegnanti, venivano fatte studiare gratuitamente, a spese non dello Stato, ma del Partito stesso. (quanti e quali paragoni contrapposti mi verrebbero in mente con l’uso odierno dei soldi del finanziamento ai partiti). Tali “scuole” raggiunsero una notevole fama, anche a livello internazionale, per la serietà degli studi, la disciplina dello sport, lo spirito cameratesco fra le ragazze e la vita gioiosa e serena che vi si conduceva. Le organizzazioni femminili fasciste furono affidate esclusivamente alle donne e la Segretaria Nazionale rispondeva del suo operato soltanto al Segretario dei Partito, il quale esercitava esclusivamente vigilanza amministrativa e di coordinamento.
            Il Duce in persona, con la sua politica rivolta al mondo femminile, fu il creatore del legame donna-fascismo. Il suo progetto politico mirò alla formazione di una nuova italiana: la donna fascista, attraverso un cambiamento della sua dimensione quotidiana che coinvolse sia gli aspetti più intimi e personali, quali la gestione del corpo, sia la sua formazione e l’inserimento sociale. Per la prima volta in Italia la donna veniva valorizzata e resa autonoma nelle sue scelte e nelle sue prospettive. Le fu affidato il settore più delicato e impegnativo, quello dell’assistenza all’infanzia e alle categorie disagiate e, in tale compito, ebbe piena autonomia e piena responsabilità. Le donne risposero con impegno e capacità inattese, era emancipazione, checché se ne dica.
            In quel particolare clima spirituale, fatto di amore per la Patria, senso della disciplina, del dovere e del sacrificio, è facilmente intuibile il motivo per cui dopo il tradimento dell’8 settembre, tante giovani donne per l’indignazione che vanificava lo sforzo comune di più generazioni, si sentirono spinte a una scelta non soltanto politica, ma a difesa dell’onore stesso d’Italia. Anche le “giovani italiane” dell’ONB, come le sorelle maggiori, non esitarono ad abbandonare la casa, la scuola, gli affetti e le comodità, scegliendo una vita di disciplina e di sacrificio, pur di poter essere anche loro utili alla Patria. Esse vollero dimostrare in modo tangibile la loro ribellione all’ignobile tradimento e volontariamente si mobilitarono per schierarsi a fianco dei soldati italiani che combattevano nella Repubblica Sociale. Erano le donne di Mussolini, animate da puro ideale, spirito di avventura, fedeltà a un regime che consideravano immutabile e da un amore viscerale nei confronti dell’uomo che sentivano come un padre. Una ragazza di Salò racconta l’incontro con il Duce e di quei “lacrimoni” versati per l’immensa gioia di essere passata finalmente sotto il suo sguardo : «Quello che mi colpì del Duce fu l’espressione dei suoi occhi, che infatti non ho mai più dimenticato : sembrava che ci guardasse a una a una e che il suo stato d’animo, di fronte al nostro slancio, fosse di una gioia pensosa. Ciò che direi, oggi, è che il suo sguardo non aveva nulla del leader che insuperbisce alla vista di coloro che lo acclamano: viceversa, era quello di un padre che è sì orgoglioso dei propri figli ma anche, in un suo modo segreto, preoccupato del loro avvenire; e preoccupato, anzi, assai più del loro destino che del proprio».
            Nel gennaio 1944 il giornalista Concetto Pettinato scrisse su La Stampa un appassionato articolo, Breve discorso alle donne d’Italia: «Un battaglione di donne: e perché no? Il governo americano si è impegnato a gettare le nostre figlie e le nostre sorelle alla sconcia foia dei suoi soldati d’ogni pelle. Ebbene, perché non mandarle loro incontro davvero, queste donne, ma inquadrate, incolonnate, con dei buoni caricatori alla cintola e un buon fucile a tracolla?»A Milano, in Piazza S. Sepolcro, circa seicento giovani donne si radunarono spontaneamente a ribadire la loro volontà di partecipare in modo attivo al conflitto, chiedendo di essere arruolate. Situazioni analoghe si verificarono in altri centri della Repubblica Sociale Italiana. Cominciarono così a costituirsi gruppi femminili in servizio presso i Comandi Militari. Data l’alta affluenza e la determinazione di tante donne si fece sempre più concreta l’idea di un arruolamento volontario femminile nelle file dell’Esercito Repubblicano.
            Il Servizio Ausiliario Femminile venne istituito il 18 aprile 1944 e il comando fu affidato al Generale di brigata Piera Gatteschi Fondelli, già ispettrice nazionale dei Fasci di Combattimento Femminili, unica donna a rivestire un grado militare così elevato. Le volontarie erano divise in tre raggruppamenti: il Servizio Ausiliario Femminile per l’esercito, le Brigate Nere e la Decima Mas. Quest’ultima ebbe il SAF autonomo dagli altri due. Il comandante Valerio Borghese designò alla sua guida Fede Arnaud Pocek (veneziana, classe 1921) che, in precedenza al luglio 1943 si era distinta nel dirigere il settore sportivo del Gruppo Universitario Fascista.
            La divisa delle “ragazze di Salò” era costituita da giacca sahariana senza collo e gonna pantaloni, entrambe di colore kaki, camicia nera, basco e fregi rappresentativi del corpo di appartenenza sul bavero e sulla fibbia del cinturone. La disciplina a cui venivano sottoposte era quella militare: le volontarie ammesse dovevano infatti frequentare corsi di addestramento che avrebbero cambiato totalmente le loro abitudini di vita. La giornata era scandita dallo squillo della tromba e iniziava con la sveglia, la pulizia personale, la colazione e l’alzabandiera, durante il quale le allieve recitavano la preghiera dell’Ausiliaria . Nello svolgimento dei loro compiti venivano adibite ai servizi ospedalieri come infermiere, ai servizi negli uffici militari, nelle mense nei posti di ristoro e alcune ausiliare vennero impiegate come ascoltatrici nella contraerea, come radiotelegrafiste e altre ancora furono attive nei reparti Sabotatori.
            Comunque, per avere un’idea di quella che fu la portata di tale fenomeno e soprattutto della vastità dell’adesione che queste giovani donne diedero alla RSI, ricordiamo che “il 28 ottobre del 1944, in una relazione che il Generale Piera Gatteschi scrive a Mussolini, le ausiliarie del SAF in servizio nei vari settori erano milleduecentotrentasette, provenienti da sei corsi nazionali (…), e cinquemilacinquecento le volontarie in addestramento nei ventidue Corsi Provinciali” – dati raccolti dall’Archivio Centrale Dello Stato- Roma. Nei documenti dei mesi successivi, invece, risulta addirittura che si arrivarono a contare quasi diecimila ausiliarie in servizio, tutte di età compresa tra i sedici e i ventiquattro anni. Provenivano da ogni ceto sociale e da ogni parte dell’Italia, erano in tante le ragazze non ancora maggiorenni, molte le spose, e parecchie anche le madri che si fecero ausiliare per andare incontro a un destino che sapevano già segnato. Alcune morirono, moltissime altre subirono sevizie materiali e morali da parte di soldati alleati e partigiani. Ciò che più lascia allibiti, infatti, è senza dubbio il tributo di sangue che queste giovanissime pagarono per difendere la loro fede.
            Le prime ausiliarie che persero la vita furono le sei che morirono nell’attentato a Ca’ Giustinian, a Venezia, il 26 Luglio 1944. Alla data del 18 Aprile 1945, invece, si contavano venticinque cadute, otto ferite, sette disperse, tredici sottoposte a decorazioni. Ma non si conosce il numero esatto delle ausiliarie che durante le tragiche giornate di sangue di fine aprile e maggio furono massacrate o trucidate selvaggiamente dopo essere state violentate, torturate, seviziate dagli “eroici” partigiani . Infatti il SAF fu il reparto che, in rapporto a quello che era il suo organico, registrò la più alta percentuale di caduti.
            Dopo il 25 aprile, la sopravvivenza o la morte delle ausiliarie furono dovute alla capacità e alla prudenza dei comandanti dei reparti cui erano aggregate, ma anche al caso e alla fortuna. Chi cadeva nelle mani degli Alleati, generalmente, dopo un sommario interrogatorio, veniva posta in libertà. Chi, invece, cadeva nelle mani di partigiani non comunisti, finiva in campo di concentramento, in attesa di accertamento per eventuali responsabilità personali e poiché responsabilità personali non ce n’erano, dopo qualche tempo tornava libera. Non ci fu scampo, invece, per le sventurate cadute in mano ai partigiani rossi che restano gli unici responsabili del massacro delle ausiliarie che non piegandosi all’odio comunista morirono con coraggio, molto spesso dopo aver subito violenze, stupri e sevizie e, per crudeltà mentale, dopo aver dovuto sfilare nude, con i capelli tagliati a zero, tra ali di gente inferocita, imbarbarita dall’odio fomentato dagli stessi aguzzini.
            Un’idea precisa ed impressionante del clima in cui vennero a trovarsi le ausiliarie in quei giorni è resa da Antonia Setti Carraro, che ha narrato la sua testimonianza nel libro Carità e Tormento, scritto nel 1982, quando, ancora quarant’anni dopo, non riusciva a dimenticare le scene spaventose alle quali aveva assistito. Uno spettacolo allucinante in una Torino in preda all’odio e al sangue, con cadaveri disseminati dovunque. Sul Po «L’acqua», scrive Antonia Setti Carraro, «che era bassa e sembrava ferma, brulicava di cadaveri. A testa in giù, a braccia aperte, a gambe divaricate, a faccia in su, a pezzi o tutti interi, giovani, ragazzi, uomini, donne e fanciulle giacevano scomposti, aggrovigliati, ammassati, paurosi a vedersi, atroci nelle posizioni. Le ausiliarie erano impallidite in modo terribile». Questo racconto resta uno dei più sinceri nella descrizione dell’odio demoniaco di cui sono stati capaci certi italiani e si conclude con la quasi miracolosa fuga delle otto donne catturate poiché i loro carcerieri erano troppo impegnati a gustarsi, nei minimi particolari, l’agonia di un fascista.
            Non si conosce il numero esatto delle ausiliarie che hanno perso la vita ingiustamente in quei giorni di follia omicida che colpì vigliaccamente le figure più fragili, si parla di trecento o di oltre un migliaio a seconda delle fonti, ma non conta quante furono, conta l’infamia del gesto che le colpì fosse anche verso una sola donna.
            In conclusione voglio citare alcuni esempi di fulgido eroismo delle ragazze che vissero quei giorni bui: Giovanna Deiana, colpita al viso da una scheggia durante un bombardamento alleato, era rimasta cieca e nonostante questa menomazione, supplicò il Duce di essere accolta nelle volontarie del SAF, la sua richiesta fu esaudita e venne assegnata ai centri di ascolto della contraerea. Raccontano di lei le sue colleghe: «Attorno a sé rifletteva la serenità del suo spirito non piegato dalla prova. Era come se vedesse più profondamente di tutte». Raffaella Duelli, prima da ausiliaria della Decima, poi da assistente sociale di bambini disagiati, fino al suo ultimo giorno di vita si è dedicata al prossimo: «Nell’opera di recupero delle salme dei combattenti e nella quotidiana attenzione per chi soffre – qualità essenziale nella mia professione – c’è la stessa forza dei valori. Quegli ideali di solidarietà e patriottismo che animavano la mia prima giovinezza li ho trasferiti nell’impegno per i bambini delle periferie romane. Una certa idea della Patria non può essere disgiunta da quella di solidarietà e di giustizia sociale». Marilena Grill, di diciassette anni, fu prelevata dai partigiani con la promessa ai genitori di riportarla a casa dopo un interrogatorio. Marilena volle indossare la divisa pensando che sarebbe stata uccisa, ma non venne fucilata, non subito, fu prima portata in un casolare di campagna dove fu ripetutamente violentata, le straziarono il corpo infilzandole i seni con la lama della baionetta, la torturarono sessualmente con bastoni fino a farla sanguinare, alla fine le spararono un colpo alla nuca e mantennero la promessa fatta al padre: la riportarono indietro, buttandola cadavere davanti la porta di casa. La storia dell’ausiliaria Franca Barbieri, proposta per la medaglia d’oro, è quella di un soldato. Catturata dai partigiani, le viene offerta la vita a condizione di passare nei ranghi delle loro formazioni. L’ausiliaria rifiuta. Di fronte al plotone di esecuzione grida “Viva l’Italia!” e cade sotto le raffiche dei mitra. Franca scrive nelle ultime righe consegnate prima della condanna a morte: «Non chiedo di essere vendicata, non ne vale la pena, ma vorrei che la mia morte servisse di esempio a tutti quelli che si fanno chiamare fascisti e che per la nostra Causa non sanno che sacrificare parole».
            C’è un filo rosso che lega queste esperienze, una traccia comune che salda storie così diverse è il prezzo pagato dalle donne di Salò, che avevano servito l’Italia con fedeltà, spinte solo da motivazioni ideali, così delicate come un fiore e allo stesso tempo così forti da vestire con onore il grigioverde.


sabato 28 giugno 2014

UNA PAGINA ORRENDA E DIMENTICATA DELLA GUERRA CIVILE GRECA

Bambine greche deportate in Bulgaria dai partigiani comunisti greci e poi riconsegnate alla Croce Rossa Internazionale (1950)
UNA PAGINA ORRENDA E DIMENTICATA DELLA GUERRA CIVILE GRECA (1944-1949)
IL RAPIMENTO DI MASSA DEI BAMBINI EFFETTUATO DALLE BANDE PARTIGIANE COMUNISTE 
di Alberto Rosselli
Durante la terza fase della Guerra Civile, i comunisti avviarono una vasta campagna di sequestri ai danni di bambini e ragazzi greci, in modo da sottrarre al governo linfa vitale (anche se i capi marxisti sostennero sempre – anche dopo la fine della Guerra Civile – che tale pratica venne adottata per “porre in salvo la gioventù greca, allontanandola dai luoghi di combattimento”). Nelle regioni poste sotto il loro controllo, i comunisti non ebbero difficoltà nel censire e nell’individuare e sottrarre i fanciulli alla famiglie. Essi erano infatti in possesso dei registri di natalità di tutte le città e i villaggi.
Nel marzo 1948, i primi 2.000 ragazzini sequestrati vennero trasferiti al nord e poi espatriati in Albania, Bulgaria e Iugoslavia. Gli abitanti dei villaggi che tentarono di proteggere i fanciulli nascondendoli nei boschi, finirono fucilati o impiccati. Messa al corrente del piano comunista,la Croce Rossacercò di muoversi, ma a fronte degli enormi ostacoli trovati sul suo cammino, non riuscì a fare nulla, tranne redigere, con l’aiuto delle autorità governative e grazie alle centinaia di testimonianze dei famigliari dei sequestrati, un censimento che, dopo una serie di aggiornamenti, portò, a stabilire che i bambini sequestrati e fatti espatriare forzosamente ammontavano, alla fine del1948, a28.296 (talune fonti fanno lievitare la cifra ad oltre 30.000) unità di età compresa tra i tre e i 14 anni. Questa massa di piccoli disperati venne suddivisa per sesso e poi rinchiusa in appositi “centri di rieducazione socialista”. Secondo i dati della Croce Rossa, 18.500 bambini finirono distribuiti in 17 campi bulgari e il resto in 11 campi romeni, altrettanti ungheresi, diciotto cecoslovacchi, tre polacchi, cinque albanesi e della Germania Orientale e 15 iugoslavi (dove ne furono segregati dai 9.500 agli 11.600). Più dettagliatamente, sembra che nel 1950, cinquemila 132 bimbi risultassero presenti in Romania, quattromila148 inCecoslovacchia, tremila590 inPolonia, duemila859 inUngheria e2.660 inBulgaria.
Va inoltre precisato che i frequenti sequestri di fanciulli portati a compimento dai guerriglieri comunisti greci rientravano nell’ambito di una strategia di tipo geopolitico. Forti del consenso di  Tito e di quello di Stalin,  le bande marxiste del nord agirono in questo modo per cercare di separare la Macedoniagreca dal resto dello stato ellenico, per poi trasformarla in una repubblica socialista indipendente. Non a caso ai bambini di razza macedone residenti in Grecia che furono rapiti venne affibbiato l’appellativo di Detsa Begaltsi  (bambini sfollati). Detto questo, va ricordato che a molti altri bimbi greci non di origini macedoni trasferiti in Bulgaria o Iugoslavia fu poi fatto loro credere di vantare egualmente origini macedoni. Nell’estate del 1948, quando la rottura tra il leader Tito e il Cominform divenne una realtà, il dittatore iugoslavo volle sganciarsi da ogni responsabilità e di conseguenza 11.600 bambini reclusi nelle “case del Popolo” iugoslave vennero spediti in Cecoslovacchia, Ungheria, Romania e Polonia. E tutto ciò nonostante le ripetute, vane proteste del governo greco.
Il17 novembre 1948,la Terza Assemblea  Generale delle Nazioni Unite votò una risoluzione (la n. 193) che condannò senza mezzi termini l’operato dei partigiani comunisti ellenici, e nel novembre dell’anno successivo, l’ONU richiese inutilmente (con la risoluzione n. 288) agli Stati comunisti di riconsegnare alla Grecia tutti i bambini sequestrati. Ma i governi di Praga, Budapest, Bucarest e Varsavia negarono la restituzione affermando in un comunicato congiunto “che la deportazione  era stata in realtà un atto umanitario atto a salvaguardare la vita dei bambini greci dagli orrori della Guerra Civile”.
Nulla di più falso in quanto, secondo i resoconti della Croce Rossa Internazionale forniti alle Nazioni Unite e molteplici dossier redatti dalle ambasciate e dai consolati occidentali in Europa Orientale, il vero scopo dei rapimenti portati a compimento dalle bande comuniste elleniche era ben altro. I ragazzini sequestrati, che venivano sottratti alla famiglie in quanto considerate “cellule primarie di una società contadina corrotta in quanto legata alla religione e alla monarchia”, erano solitamente trasferiti in appositi “villaggi proletari per l’infanzia” ubicati in Albania, Iugoslavia, Bulgaria, Ungheria e poi, come si è visto, in altri Paesi d’oltre cortina, dove venivano sì nutriti e vestiti, ma anche sottoposti ad una martellante propaganda politica, o meglio ad un vero e proprio lavaggio del cervello, con lo scopo di trasformarli in fedeli esecutori del verbo marxista. Tuttavia, stando alle memorie di Zavros Constandinides, giovane greco che, recluso per anni in Ungheria, nel 1956 riuscì a fuggire – partecipando tra l’altro alla rivolta anti sovietica di Budapest (23 ottobre al 10 -11 novembre 1956) – “pochi furono i miei coetanei a piegarsi alla dottrina comunista”. Con il compimento del tredicesimo anno di età tutti i ragazzi venivano poi impiegati, o meglio ‘schiavizzati’, per effettuare pesanti lavori di pubblica o militare utilità. Come accadde per i piccoli deportati in Ungheria, costretti ad effettuare massacranti lavori di bonifica nella regione paludosa dell’Hartchag.
Dopo la fine della Guerra Civile Greca, un ristretto nucleo di fanciulli riuscì a fare ritorno alle proprie famiglie. Tra il 1950 e il 1952, i regimi d’oltre cortina permisero ad appena 684 di essi di rimpatriare: fortuna che, nel 1963, arrise ad altri 4.000 bambini, divenuti ormai uomini. Va ricordato che anche altri fanciulli greci rapiti, poi diventati adulti, riuscirono per vie traverse a raggiungere, verso la fine degli anni Cinquanta, il confine della Germania occidentale e a mettersi in salvo.
Ciononostante, dopo la fine della Guerra Civile, moltissimi bambini non fecero più rientro in Grecia, alcuni perché avevano deciso di rimanere nei Paesi del Blocco Orientale, molti altri perché erano “misteriosamente scomparsi” nei campi di rieducazione, come riferì la Croce RossaGreca.Successivamente, la regina di Grecia Federica di Hannover creò, grazie al sostegno della Nazioni Unite,  58 “Città dei  Bambini” o Paidopolei, suscitando la violenta contestazione di tutta la sinistra europea che aveva in odio l’aristocratica tedesca) nei quali confluiranno molti orfani greci ed anche i figli di combattenti del DSE.
Ma torniamo al destino dei fanciulli dispersi in Europa Orientale. Ancora agli inizi degli anni Ottanta, in Polonia risultavano presenti circa 1.000/1.500 (alcune fonti riportano cifre ancora più elevate) greci rapiti, ancora in tenerissima età, nel 1948. Inseguito, molti di essi entrarono a fare parte del Movimento “Solidarność” (Sindacato Autonomo dei Lavoratori “Solidarietà”) fondato nel settembre 1980 da Lech Wałesa, ed alcuni vennero incarcerati anche dal regime comunista di Varsavia dopo l’introduzione della legge marziale del dicembre 1981. Nel 1989, con l’inizio del processo di democratizzazione del Paese, la quasi totalità degli ex ‘piccoli’ profughi ellenici fece domanda per ritornare in Grecia.
Nel 1985, il fenomeno del rapimento in massa dei bimbi venne ripreso dal noto regista e produttore cinematografico e televisivo inglese Peter Yates con il film Eleni, interpretato, tra gli altri, da John Malkovich e Linda Hunt. La pellicola venne però snobbata dalla quasi totalità della critica di sinistra (soprattutto quella italiana) alla quale non andò evidentemente a genio l’imbarazzante soggetto. La trama del film narra la storia, un po’ romanzata, della quarantunenne Eleni Gatzoyiannis, assassinata dai guerriglieri comunisti il 28 agosto del 1948 nel villaggio montano di Lia. La donna venne fucilata e finita con un colpo alla nuca  suo figlio Nicholas, emigrato fortunosamente in America, riuscirà poi, alla fine della Guerra Civile, a fare rientro in Grecia per capire le vere ragioni della morte di sua madre.
La tragedia dei bambini greci rimasti orfani o rapiti e deportati in Albania, Iugoslavia e Bulgaria dai partigiani comunisti per farne ‘buoni marxisti, secondo i dettami di Lenin (“dateci un ragazzino e nell’arco di otto anni lo rieducheremo”) era stata in realtà già affrontata da un altro precedente film del 1957, Il Bandito dell’Epiro (titolo originale, Action of the Tiger) del regista statunitense Terence Young. La pellicola, che si avvalse della partecipazione di parecchi attori, tra cui Van Johnson, Martine Carol e il giovane Sean Connery, narra la storia di una ragazza francese che, dopo l’instaurazione del regime marxista di Enver Hoxha, sbarca segretamente in Albania per cercare suo fratello, militante volontario comunista, scomparso durantela Guerra Civile Greca. Affianca la donna, tale Carson, un avventuriero americano che, giunto sul posto, viene a sapere della deportazione dei bambini greci in terra albanese. A quel punto, egli vuole tentare di riportare in occidente un certo numero di fanciulli scoperti in un remoto villaggio dell’interno. Lungo la loro fuga per la libertà, essi troveranno anche ex partigiani comunisti e poliziotti del regime albanese, anch’essi intenti a fuggire dal “paradiso marxista” del sanguinario Hoxha.

Il primo resoconto del Times di Londra del15 marzo 1948

Oltre alle testimonianze della Croce Rossa Internazionale, riprese anche dai rappresentanti diplomatici occidentali presenti ad Atene, riportiamo il primo vero e proprio resoconto giornalistico straniero dell’epoca sulla tragedia dei bambini in corso in Grecia, stilato il 15 marzo 1948 dalla redazione del Times di Londra. Quale testimonianza diretta ne riassumiamo in parte il contenuto. “Nell’abbandonato municipio di Kozani [Macedonia occidentale, n.d.a.] – riporta la testata inglese – una piccola città situata nelle montagne dell’Ellade, dodici tra contadine e contadini macedoni furono soccorsi dagli uomini di una squadra inviata sul posto dalle Nazioni Unite. Quegli individui riferirono di essere rimasti per molto tempo ostaggio dei guerriglieri ‘rossi’ del generale Markos Vafiadis. Nel loro ostico dialetto greco-slavo-albanese raccontarono la loro avventura. Avvolta in uno scialle nero, una donna, la cinquantenne Athena Papalexiou, narrò per prima la sua storia. “Una volta giunti nel nostro villaggio, gli Andartes (i partigiani comunisti) registrarono tutti i bambini tra i tre e i 14 anni”, dopodiché dissero ai genitori che i loro figli sarebbero stati trasferiti all’estero, nei vicini Paesi comunisti, per essere nutriti ed assistiti in apposite Case della Gioventù”. “Vi dissero se un giorno i vostri figli sarebbero ritornati?”, chiese alla donna un funzionario delle Nazioni Unite. “No di certo. E poi era  proibito discutere la questione”. John Natsis e Zagarus Voiliotis riferirono di avere osservato tempo prima nel villaggio di Kranies un contadino fornire le generalità dei suoi tre figlioletti ad un ufficiale ribelle. “A quell’uomo i comunisti dissero di stare tranquillo e di collaborare poiché i suoi bambini sarebbero stati posti in salvo in Romania dove avrebbero ricevuto alimenti e buona istruzione. Ed aggiunsero che tutti i genitori di Kranies avrebbero dovuto fare altrettanto poiché di lì a poco “le truppe monarco-fasciste (l’Esercito regolare greco) avrebbero bombardato il villaggio”. Sulle prime – riporta sempre il quotidiano Times – molti osservatori stranieri non vollero credere alla storia dei rapimenti dei bambini compiuti dai ‘rossi’, ma poi furono costretti a ricredersi, anche in base ai resoconti stilati dai funzionari delle Nazioni Unite invitati ad indagare sul fatto dallo stesso governo di Atene […].
D’altra parte, la conferma di questi sequestri la diedero gli stessi leader ribelli. Nel marzo 1948, ‘Radio Grecia Libera’ (emittente clandestina comunista ubicata in Grecia settentrionale) annunciò che 12.000 bambini greci (8.000 dei quali provenienti dalla regione di Kastoria) erano già stati salvati ed inviati nei Paesi socialisti per scopi istruttivi, e che gli emissari di Markos presenti in Romania, Bulgaria e Iugoslavia, avevano già predisposto, con la collaborazione delle locali autorità, l’accoglienza dei ragazzi provenienti dalla Grecia (per la cronaca, quale responsabile operativo di tale operazione venne nominato Georgios Manoukas che, rifugiatosi dopo la sconfitta comunista del 1949 all’estero, nel 1961 rientrerà in Grecia, dove pubblicherà un testo sull’argomento.
A questa notizia ne fece eco una seconda, più dettagliata. Pochi giorni dopo, infatti, l’emittente di Markos annunciò che “le forze partigiane avevano provveduto a trasferire 4.884 bambini residenti in 69 villaggi della “Libera Grecia” in Albania, Yugoslavia e Bulgaria” per salvarli dagli orrori della Guerra Civile e per consentire a questi piccoli “Rifugiati Politici della Guerra Civile Greca” (in realtà, soltanto il 2% delle famiglie greche accettò spontaneamente che i propri figli venissero trasferiti all’estero) di godere di un migliore tenore di vita e soprattutto di “frequentare scuole adatte”. “La verità – commentò laconicamente un portavoce del governo di Atene – è che i ‘rossi’, attraverso i sequestri di massa, intendono privare la Grecia del suo futuro”. Di conseguenza, l’esecutivo ellenico si affrettò ad inviare un’aspra nota al comitato balcanico delle Nazioni Unite a Salonicco, accusando i comunisti di “genocidio” e chiedendo un intervento ufficiale immediato che si concretizzò, di lì a poco, con la nomina di due appositi Comitati che avrebbero dovuto raccogliere, esaminare e catalogare “con la massima celerità” tutti i casi di sequestro segnalati sul territorio dai loro osservatori. Il governo greco definì il sequestro di massa dei bambini come paidomazoma, in quanto esso richiamava alla mente i tempi in cui i turchi razziavano la popolazione ellenica.

La professoressa Irina Lagani, docente di Storia delle Relazioni Internazionali presso al Dipartimento di Legge dell’Università Democrito in Tracia, (vedi Lagani, Irina: To “Paidomazoma”, kai ellinojugoslavikes schesis 1949-1953, Athina 1996) ha studiato a fondo il dramma del sequestro dei bambini greci e la loro deportazione nelle nazioni del blocco orientale durante l’ultima fase della Guerra Civile Greca. Stando alle sue ricerche,la Croce Rossa greca stimò che il numero complessivo dei ragazzini prelevati si aggirasse intorno alle 28.296 unità, 11.600 dei quali furono trasferiti in Iugoslavia, mentre i restanti vennero sparpagliati in Albania, Ungheria, Polonia, Romania e Cecoslovacchia. Secondo la Lagani, la storiografia greca ha però voluto obliterare ed evitare di analizzare questa scabrosa vicenda per evitare possibili attriti con le nazioni confinanti. Per la stesura del suo lavoro, l’autrice ha utilizzato materiale d’archivio inedito di ministeri degli Esteri di Gran Bretagna, Australia e Francia, poiché gli archivi greci di quel periodo risultano ancora ‘inaccessibili’.
Circa la contestualità storica,la professoressa Laganiha poi specificato che il suddetto dramma debba essere inserito nell’ambito del travagliato periodo della Guerra Fredda e nel quadro della situazione iugoslava postbellica. Non a caso, l’autrice concentra gran parte della sua attenzione sulla Iugoslavia proprio in virtù del gran numero di ragazzini deportati e rimasti in questo paese: bambini che, in seguito, furono politicizzati e trasformati in fanatici attivisti della causa indipendentista macedone, entrando a fare parte del FYROM (o Repubblica di Macedonia)
Nei suoi scritti, la Lagani solleva alcune questioni molto delicate, se non addirittura controverse. “Si è trattato di qualcosa di inevitabile? Si può dire che la Grecia ‘abbia perso’ questi ragazzi? Quella comunista (dell’ELAS) fu una politica mirata a creare una specie di ‘legione’ “giannizzera”? In che modo Gran Bretagna e Stati Uniti influenzarono il comportamento e le decisioni di Atene su questo argomento? Allo scopo di porre questi interrogativi, la Lagani analizza la politica iugoslava in relazione alla questione macedone, come pure quella greca.
Inizialmente, presso le Nazioni Unite, il governo greco affrontò il problema del rimpatrio dei bambini come parte integrante della “questione greca”: impostazione che implicava giocoforza riferimenti chiari sia di tipo umanitario sia politico, cioè relativi alle dinamiche della Guerra Fredda. Stati Uniti e Inghilterra minimizzarono la seconda opzione. Ma la mancanza di una vera politica poggiante su una maggiore pressione diplomatica nei confronti della Iugoslavia titina,  portò ad un basso numero di rimpatri, permettendo a Tito di ottenere il proprio scopo trattenendo i bambini sul suolo iugoslavo, anche a fronte del loro desiderio di riunirsi alle loro famiglie.
La Lagani esamina poi le intenzioni di Tito dietro la sua politica verso i ragazzi e conclude che fin dall’inizio il governo iugoslavo falsificò le cifre dei sequestri e delle deportazioni dei fanciulli che, come si è accennato, furono poi integrati, almeno in buona misura, nella popolazione della Repubblica Federale di Macedonia. Dalla lettura dei documenti contenuti negli archivi inglesi emerge che il Foreign Office britannico, in contrasto con il ministero degli Esteri greco, si premurò di rendere note le intenzioni di Tito, pur non preoccupandosi delle conseguenze a lungo termine delle azioni del dittatore di Belgrado. Inizialmente, il governo greco tentò la via del rimpatrio di tutti i ragazzini dalla Iugoslavia e dagli altri paesi del blocco sovietico; ma con l’andare del tempo cambiò idea. L’esecutivo di Atene era infatti preoccupato del fatto che il “lavaggio del cervello” ideologico subito dai ragazzi potesse contribuire a fare perdere ad essi la coscienza di appartenere interamente alla cultura e al popolo ellenici.
Inghilterra e Stati Uniti non sembravano condividere però queste preoccupazioni, Al contrario, essi legarono la questione del rimpatrio alla presenza di slavi nel nord della Grecia. Di conseguenza Londra e Washington sostennero il rimpatrio di bambini di lingua greca, ma non quelli di lingua ‘slava’. La ragione che sta dietro a questa politica fu che sia Usa che Regno Unito credevano che la sicurezza della Grecia sarebbe stata garantita nella misura in cui tutti gli elementi slavi avessero lasciato la Macedonia greca. Oltre a ciò, entrambe vollero favorire un riavvicinamento greco-iugoslavo, impedendo che la ‘questione delle minoranze etnico-linguistiche’ potesse in qualche modo rovinare i rapporti di buon vicinato. Va ricordato a questo proposito che, in quel periodo, sia Londra che Washington stavano lavorando alacremente per favorire la rottura tra Tito e il Cominform.
In ultima analisi, sia gli inglesi che gli americani influenzarono con la loro politica anche quella greca. E lentamente il governo di Atene dovette adattare la propria politica all’alternativa meno dolorosa. I rimpatri divennero quindi più mirati e selettivi e soltanto una piccola parte dei bambini ritornò in Grecia. E con il passare del tempo la questione, o meglio l’opportunità, di un ricongiungimento dei ragazzi espatriati forzatamente alle rispettive famiglie venne poi definitivamente accantonata.

FONTE: Breve storia della Guerra Civile Greca, 1944-1949, di Alberto Rosselli, Edizioni Settimo Sigillo, Roma, 2009

                                                                                                                                            

giovedì 26 giugno 2014

1924 IL COMUNE DI BERGAMO

NEL 1924 IL COMUNE DI BERGAMO CONFERI' A BENITO MUSSOLINI LA CITTADINANZA ONORARIA
1923 A. I E.F. LA NUOVA SEDE DELLA CAMERA DI COMMERCIO




1924 A. II E. F. IL 27 OTTOBRE ALLA PRESENZA DEL CAPO DELLO STATO BENITO MUSSOLINI VIENE INAUGURATA LA TORRE DEI CADUTI NEL CENTRO CITTADINO





Si tratta di uno dei monumenti più emblematici di Città Bassa, costruito sul'onda della retorica patriottica successiva alla prima guerra mondiale, non solo a memoria e onore dei caduti bergamaschi ma per esaltare e consolidare il nazionalismo unitario, come esplicitamente detto nel discorso di inaugurazione pronunciato da Mussolini il 27 ottobre 1924.
Il monumento a pianta quadrata alto 45 metri fu progettato dall'architetto Marcello Piacentini. Fu costruito, a partire dal 1922, La scelta dell'area e la Torre stessa facevano parte di un più ampio progetto di riassetto urbanistico della parte bassa della città.
Il materiale di costruzione utilizzato è l'arenaria di Bagnatica in conci a crespone che restituisce un'opera dalla struttura possente, alleggerita peraltro da inserti ornamentali e commemorativi quali l'orologio e alcuni gruppi scultorei.
L'orologio in marmo di Zandobbio è racchiuso in un quadrato i cui angoli sono rappresentati da quattro allegorie dei venti, soffianti, a simboleggiare il trascorrere e la caducità del tempo.
In asse e sotto l'orologio si apre una nicchia da cui fuoriesce la statua bronzea dell'Italia Vittoriosa che regge con la destra la Vittoria e tiene nella sinistra la spada in posizione di riposo. Il gruppo si appoggia su un'ampia mensola dedicatoria immediatamente sopra un finestrone in marmo policromo formando un complesso statuario di grande effetto visivo.
Nella lunetta del finestrone due putti reggono lo stemma di Bergamo mentre i due bassorilievi dell'ammiraglio Paolo Thaon de Revel e del generale Armando Diaz sovrastano la scena.
Nel finestrone si apre un balconcino che poggia sulle allegorie della armi combattenti, mente al di sotto una grande lapide riporta il proclama della vittoria del generale Diaz.
Il complesso esterno è di grande efficacia espressiva e simbolica; l'interno che si sviluppa su cinque piani espone alle pareti del primo i nomi dei caduti incisi in oro su marmo nero e nei piani superiori dei pannelli che illustrano lo sviluppo della città.



1924 A. XII E. F. LA COLONIA ELIOTERAPICA




1926 A. IV E. F. IL NUOVO TRIBUNALE DI BERGAMO





1927 A. V E.F. IL TEATRO ELEONORA DUSE



PROGETTATO DALL' ING. STEFANO ZANCHI, CONTENEVA FINO A 3.000 PERSONE CON 600 POSTI IN PLATEA. L'INAUGURAZIONE AVVENNE IL 24 DICEMBRE 1927 CON LA "FIGLIA DI IORIO" DI GABRIELE D'ANNUNZIO E PROVA ASPRE CRITICHE DAL GIORNALE CATTOLICO "L'ECO DI BERGAMO" CHE NON GRADISCE LA DATA SCELTA. IL DUSE ERA IL SECONDO TEATRO DI BERGAMO, DOPO IL DONIZZETTI, PER LE SUE DIMENSIONI, 18 METRI DI LARGEZZA, 25 DI PROFONDITA' E 26 DI ALTEZZA; ERA IN GRADO DI OSPITARE QUALSIASI SPETTACOLO. ENRICO RASTELLI, IL FAMOSO GIOCOLIERE, VI TENNE IL SUO ULTIMO SPETTACOLO IL 6 DICEMBRE 1931. FU DEMOLITO NEGLI ANNI 70.
1927 A. V E.F. IL CENTRO DELLA CITTA' "QUARTIERE PIACENTINIANO"

Progettato dall' Arch. Marcello Piacentini

1927 A. V E.F. AUTOVIA MILANO BERGAMO "LA DIRETTISIMA"



1927 A. V E.F. INAUGURAZIONE DEL MUSEO DELLE RIMEMBRANZE


1928 A. VI E. F. INAUGURAZIONE DEL NUOVO STADIO



Lo stadio viene ufficialmente inaugurato il 1 Novembre 1928 e prende il nome da Mario Brumana, martire fascista originario della Valle Imagna caduto a Gallarate, nel varesotto, durante i moti che precedettero l’avvento del fascismo.
La struttura venne inaugurata per ben due volte;
la prima, in forma di prova generale, il 1 novembre, in occasione della partita tra Atalanta e Triestina. È la prima partita giocata nel nuovo stadio che vede l'Atalanta trionfare sulla squadra ospite per quattro reti a una. La seconda inaugurazione avviene con tutti i crismi dell'ufficialità, il 23 dicembre; alla presenza di numerose autorità e di un foltissimo pubblico, l'Atalanta batte la Dominante di Genova per 2-0 (reti di Giannelli e di Perani II su rigore). Il complesso sorgeva, e sorge tuttora, su di un'area di circa 35.000 mq. L'area comprendeva un'area da gioco per il calcio e per il rugby di m 70x120 contornato da una pista in cenere per l'atletica larga m 4,30. Lungo i lati maggiori sorsero le due tribune: a est la tribuna scoperta , a ovest la tribuna coperta tramite una soluzione d'avanguardia che verrà citata ad esempio nei manuali di tecnica delle costruzioni. Nell'area ora occupata dalla curva Pisani sorsero dei campi da tennis mentre dall'altra parte sorse la piscina, con moderno impianto di depurazione, spogliatoi, cabine e bar ristorante. La capienza delle tribune era di 12.000 posti che in casi eccezionali potevano aumentare notevolmente. "Le linee architettoniche, scrive l'ing. Zanchi, inquadrano l'opera ardita facendone una delle più belle fra quelle costruite fin ora in Italia."



1928 A.VI E. F. I MAGAZZINI GENERALI DI VIA ROVELLI


1929 A. VII E.F. LA VASCA DI NUOTO



1929 A. VII E. F. I CAMPI DA TENNIS DIETRO LA CURVA NORD DELLO STADIO

1929 A. VII E.F. " CASA LAURO"

LA "CASA LAURO" IN VIA STATUTO, NEL QUARTIERE DI SANTA LUCIA, E' UNA STRUTTURA DESTINATA ALL'ASSISTENZA DEI BAMBINI. OSPITA FINO ALL'ETA' DI TRE ANNI I BAMBINI NON NUTRITI AL SENO MATERNO.


1930 A. VIII E.F. IL NUOVO OSPEDALE "PRINCIPESSA DI PIEMONTE"





1931 A. IX E. F. IL NUOVO UFFICIO POSTALE DELLA CITTA'



1932 A. X E. F. LA CASA DELLA GIOVENTU' ITALIANA DEL LITTORIO (GIL) INTITOLATA A SANDRO ITALICO MUSSOLINI




1933 A. XI E.F. IL GASOMETRO



1934 A XII E.F. IL MONUMENTO AI FRATELLI CALVI

IL 4 NOVEMBRE SI INAUGAQRA IN CENTRO ALLA CITTA' IL MONUMENTO AI FRATELLI CALVI OPERA DELL'ARCH.PIZZIGONI. IL CIPPO RICORDA ATTILIO MORTO SULL'ADAMELLO NEL 1916, SANTINO CADUTO SULL'ORTIGARA NEL 1917, GIANNINO DECEDUTO NEL 1918 E NATALINO MORTO SULL'ADAMELLO NEL 1820.
1936 A. XIV E.F. "IL PALAZZO DEGLI STUDI" 
ISTITUTO TECNICO VITT. EMANUELE E LICEO LUSSANA


1936 A. XIV E.F. LA STAZIONE DELLE AUTOVIE

La superficie della stazione è di 4.000 mq. Il costo dell'opera, interamente
 a carico del Comune di Bergamo, è di lire 148.000

1937 A. XV E. F. IL MONUMENTO ALLA RIVOLUZIONE FASCISTA 
 DISTRUTTO NEL 1943






L'ultimo monumento della Bergamo fascista fu demolito all'indomani della seconda guerra mondiale. Il giorno 28 Ottobre 1939 (anniversario della marcia su Roma) viene inaugurato il "monumento ai martiri della rivoluzione fascista". L'opera sorge nella piazza davanti al municipio di Bergamo. Consta di un podio di due stele. Il podio reca un lungo bassorilievo suddiviso in quattro parti. la prima narra l'intervento e la guerra 15-18; la seconda la fondazione dei fasci e il discorso di Dalmine di Mussolini del 19 Marzo 1919;la terza celebra la vittorio dello squadrismo e la marcia su Roma; la quarta la conquista dell'impero e il trionfo della civiltà fascista. La stele a lato del podio porta incoisa una delle più significative frasi del discorso di Mussolini della fondazione dell'impero. L' opera realizzata in marmo su progetto dell'architetto Alziro Bergonzo. Le sculture sono eseguite da Leone lodi.
1939 A. XVII E. F. GLI UFFICI STATALI




1939 A. XVII E. F. LA FONTANA "ZUCCHERIERA"
Fu inaugurata nel 1939.L'esterno, in marmo di Zandobbio, è decorato da bassorilievi con figurazioni mitologiche, pregevole opera dello scultore Leone Lodi, e tra questi emergono le bocche di emissione dell'acqua




1940 XVIII E.F. LA CASA DEL FASCIO






1940 A XVII E. F. LA TORRE DEI VENTI

ANNI 40 VILLA TRUSSARDI

IL MONUMENTO AD ANTONIO LOCATELLI